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Ne
” La vita non è sogno”
(1949), si forma in sostanza una nuova poesia, in cui trovano posto i dolori e
le speranze degli uomini, per quanto il poeta non sia mai andato a cercare le
cause esistenziali e sociali di tanto soffrire. Il contenuto morale delle sue
poesie, anche in queste raccolte , è sempre quello dell'angoscia esistenziale,
ovvero la ricerca di una realtà nuova; ma questa realtà, per il poeta, non può
essere raggiunta, per cui egli non ha un proprio messaggio da offrire e rimane
chiuso nella sua solitudine. Quasimodo non è mai riuscito a superare la crisi
dei valori storici della borghesia e del fascismo: l'ha soltanto costatata.
Tuttavia, egli verrà visto come colui che, nonostante le sue continue ricadute
nell'oratoria, nella sentenziosità e nella coralità, ha saputo distaccarsi
nettamente dalla tradizione ermetica, che non permetteva un facile rapporto tra
poeti e pubblico. In La vita non è sogno (1949) il Sud è cantato come
luogo di ingiustizia e di sofferenza dove il sangue continua a macchiare le
strade (Lamento per il Sud); il rapporto con Dio si configura come un
dialogo serrato sul tema del dolore e della solitudine umana. Il poeta sente
l’esigenza di confrontarsi con i propri affetti, con la madre che ha lasciato
quand’era ancora un ragazzo e che continua a vivere la sua vita semplice ed
ignara dell’angoscia del figlio ormai adulto, o col ricordo della prima moglie
Bice Donetti. Partendo dal poemetto di Rilke, vorremmo qui riproporre alcune
rivisitazioni moderne del mito di Orfeo le quali, ispirandosi per lo più al
racconto virgiliano, tentano di dar voce e coscienza al personaggio di Euridice,
scegliendo di difendere le ragioni femminili a discapito o contro quelle
maschili di Orfeo. Iniziamo riportando alcuni brani del poemetto rilkiano, in
particolare quelli dedicati interamente ad Euridice. DIALOGO Questo
silenzio è ora più tremendo E
tu sporco ancora di guerra, Orfeo, E
non era più la bionda donna [vv.
75-86] Nei
modi vaghi e suggestivi in cui ci viene descritta, l’Euridice del poemetto di
Rilke non rivela, certo, una psicologia complessa, dei tratti singolari e dei
caratteri specifici; d’altra parte, se non fosse per quella parola - «Chi?»
- pronunciata una volta soltanto, essa potrebbe sembrarci pressoché priva di
voce. Della domanda dell’eroina virgiliana resta, a distanza di secoli, una
labile traccia, il «quis» dell’inizio, ma priva di pathos accusatorio. Al
contrario del pronome di Virgilio, il pronome interrogativo usato da Rilke non
possiede sfumature retoriche, ma conserva, prima di tutto, il suo valore di
domanda. In maniera analoga al racconto virgiliano, anche questa Euridice,
parlando, si allontana da Orfeo; la sua domanda, tuttavia, suona ora diversa,
giacché risulta formulata con serena noncuranza, senza alcuna passione.
Costruendo il momento del distacco intorno a questa modifica, Rilke, molto più
di Virgilio, arriva a farci percepire il senso del trapasso, lo scarto acuto e
incolmabile che separa la morte dalla vita. Ma ella andava
alla mano di quel dio, Se dovessimo considerare i soli particolari fisici contenuti in questi versi, la gambe avvolte nelle lunghe bende funebri, il passo esitante e malsicuro, saremmo portati ad immaginare questa Euridice in tutto simile a un’ombra, una figura spettrale dall’aspetto dolente e dai gesti languidi. Questa descrizione potrebbe in parte essere ammissibile, e troverebbe certo sostegno nelle azioni della stessa Euridice. La quale, come fosse incapace di ogni ribellione, sembra agire e reagire con mite indifferenza, mostrandosi totalmente ignara di ciò che intono a lei succede. Per di più, ella dimostra di non riconoscere Orfeo, ed è tanto assorta in se stessa che di quella presenza numinosa, in attesa sulla soglia dell’Ade, a malapena si accorge. Diversamente dal personaggio virgiliano che conserva lucida la memoria della vita, questa donna non più umana, dal momento in cui è stata accolta dentro le tenebre, sembrerebbe aver perduto ogni ricordo terreno, e con essi anche il ricordo della persona amata. Eppure la similitudine erotica del grembo materno e quelle simili dei versi successivi ci suggeriscono un elemento nuovo, qualcosa che non si accorda del tutto con l’immagine di ombra spettrale che sinora abbiamo assegnata a Euridice Chiusa
era in sé. E il suo essere morta Ora, questa condizione di verginità nella morte vanta ascendenze illustri nella mitologia classica, è possibile riscontrarla nel mito greco di Persefone, la regina dell’Ade, designata anche con il nome arcaico di Core, ossia vergine, fanciulla. Avvicinata in questi versi a Persefone/Core, l’Euridice rilkiana incarna probabilmente la figura romantica della Fanciulla Sposa della Morte, le cui condizioni di verginità e gravidanza rappresentano, in modo opposto ma speculare, un’ assoluta compiutezza dell’essere. È noto, oltretutto, che il mito di Persefone/Core si inserisce in un’ antica tradizione di fertilità; sappiamo, infatti, che Persefone è figlia di Demetra, la dea materna della Terra, e congiunta con Ade, padrone degli inferi; nel suo destino di rapimento e riemersione è dissimulato il ciclo continuo delle stagioni, la naturale alternanza di morte e di rinascita. Quando nei versi finali Rilke raffigura la sua fanciulla nei termini vaghi e indistinti di una pioggia che si sparge, un raccolto diviso, una radice, egli sembra richiamarsi proprio a quel primitivo, empatico rapporto che unisce Persefone alla Grande Terra, quale magica e oscura effusione nella natura primigenia. Ponendo a confronto questo testo moderno con il racconto virgiliano, abbiamo rimarcato l’attrazione di Rilke per il tema della morte e la centralità che acquista nella sua Euridice l’elemento tenebroso e spettrale. La descrizione onirica del paesaggio ctonio, le similitudini erotiche riferite a una persona estinta, la predominanza di un lessico elusivo e generico sono tutti tentativi audaci di rappresentare la morte incomprensibile, di rendere dicibile il suo mistero ricorrendo ai chiaroscuri del linguaggio. Il fascino di questa operazione linguistica è certamente notevole; malgrado ciò, in questo grandioso affresco poetico Euridice finisce per essere un personaggio passivo, vittima consacrata a una Morte onnipotente e testimone silenzioso
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