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Marina Ivanovna
Cvetaeva nacque a Mosca il 26 settembre (9 ottobre) 1892. L’analisi
di una tra le più notevoli rivisitazioni del mito, l’Euridice a Orfeo fu
di di Marina Cvetaeva. Partendo da questi versi, vorremmo inoltre prendere
in esame i meccanismi narrativi che accomunano i testi di Browning, della
Doolittle e della stessa Cvetaeva, formulando alcune considerazioni generali
relative alla loro struttura e ai loro contenuti. Riportiamo, intanto, la poesia
della Cvetaeva: Per
chi ha sciolto gli ultimi brandelli Proponiamo
di cominciare dal titolo, Euridice a Orfeo, la cui forma è quella tipica
delle didascalie drammatiche che introducono il discorso di un personaggio ad un
altro. Già dal titolo, dunque, è possibile intuire il tipo di fictio
mitologica che queste versioni moderne mettono in scena, le quali fingono tutte
che Euridice si rivolga in prima persona ad Orfeo, rompendo con un appassionato
moe la struttura narrativa è quella del monologo, è prevedibile che le
argomentazioni del personaggio monologante abbiano a che fare con i suoi
pensieri più intimi, e che descrivano, di preferenza, l’agitarsi profondo dei
suoi sentimenti. Non ci sorprende, dunque, che Euridice discorra di sé e della
sua sorte, che confessi i suoi desideri oppure i suoi aspri risentimenti. Ma
poiché essa si rivolge a noi vivi, e ovviamente ad Orfeo, sostenendo le ragioni
dei morti, anche i suoi pensieri arrivano a subire lo stesso rovesciamento
prospettico. Ciò è ben rappresentato nei versi seguenti della Cvetaeva, che
vertono sul contrasto degli opposti significati verità e illusione, oblio e
memoria: «Fino all’alto Lete / amante tu - io chiedo a te la pace della
smemoria… Giacché in questa casa / illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera /
io, morta… Che posso dirti oltre: “Dimentica e abbandonami!”». Per
effetto di questo rovesciamento, l’intervento di Orfeo è qui considerato nei
termini di una intromissione funesta, un atto di prevaricazione maschile e un «abuso
di potere». La sua presenza, infatti, lungi dall’essere salvifica, ha
l’effetto di risvegliare in Euridice la memoria sopita della vita, ma per chi
oramai abita tra i morti e, come sostiene il personaggio della Cvetaeva, «[…]
ha slegato gli ultimi anelli del terrestre… e sul talamo ha lasciato /
l’alta menzogna del vedere in volto / e in dentro guarda -», il ricordo delle
passioni terrene non può che riemergere dirompente e doloroso. Dal punto di
vista di Euridice, la presenza di Orfeo giunge qui a significare l’estremo
impedimento alla serenità della morte. In questo senso, la coazione a
ricordare, talvolta, può assumere in lei le proporzioni solenni di un castigo
divino, una seconda punizione che segue a quella violenta della prima morte,
come si può evincere da questi versi perentori della Cvetaeva: «È già pagata
- ricorda le mie urla! - questa distesa estrema»; oppure, come per il
personaggio della Doolittle, può rappresentare un tormento che sfinisce e
alimenta i rancorinologo l’ossequiente silenzio a cui ella è stata
condannata, per secoli, dalla tradizione letteraria. «if
you had let me wait / I had grown from listlessness / into peace, / if you had
let me rest with the dead, / I had forgot you / and the past»; e più avanti:
«yet for all your arrogance / and your glance, / I tell you this: / such a loss
is no loss, / such terror, such coils and strands and pitfalls / of blackness /
such terror / is no loss…». Viceversa,
dove l’intervento di Orfeo è concepito nei termini di una illusoria o reale
redenzione, come nel testo di Browning, la memoria della vita conserva il suo
valore terreno, e per questo umanamente tragico, di resistenza all’oblio. Il
contrasto tra oblio e memoria sembra dunque rappresentare un tema ricorrente di
molte rivisitazioni moderne, un argomento di cui si servono gli autori per
segnalare il grado di distacco di Euridice dalle passioni terrene, o, in altre
parole, il suo grado di adesione al mistero della morte. Adesione che si rivela
massima nell’Euridice rilkiana pienamente assuefatta alla morte, la sola tra
quelle da noi proposte che riesca a raggiungere una soggettività diversa, senza
memoria. Tornando al testo della Cvetaeva e soffermandoci sul penultimo verso,
«Orfeo non deve scendere a Euridice», riscontriamo che dietro la ferma
negazione di questa forma imperativa si nasconde, in primo luogo, il fallimento
di Orfeo, ma si cela anche l’importanza dell’episodio virgiliano dello
sguardo disobbediente quale ispiratore di queste versioni moderne del mito,
episodio che sancisce in modo definitivo, e irreparabile, quel fallimento. Ora,
proprio nel trattamento specifico di questo episodio dal punto di vista di
Euridice, queste versioni divergono alquanto dalla matrice virgiliana. Dopo
averci descritto il successo di Orfeo nel persuadere le divinità infernali e il
percorso privo di ostacoli della sua risalita, Virgilio introduce l’episodio
specifico ormai al culmine del suo racconto, come a voler disattendere con un
colpo di teatro il nostro crescente ottimismo, che è poi lo stesso di Orfeo,
circa l’esito dell’impresa. Il tono di tutto l’episodio è di genere
tragico, poiché racconta di un fallimento inevitabile e nondimeno inatteso.
Neppure l’esperienza straordinaria della catabasi risulta di qualche aiuto ad
Orfeo, dal momento che non arriva a fornire al pellegrino infero nessuna
conoscenza arcana. «Lungi da riportare una conoscenza più profonda della morte
e una prospettiva più ampia circa la propria missione nella vita […] –
sostiene Segal – Orfeo resta totalmente immerso nel dolore e nel cordoglio
della morte.Di fatto egli non ha appreso alcunché dall’Ade».10
Nelle versioni da noi selezionate, al contrario, l’episodio virgiliano non è
affatto inatteso, né è introdotto con l’intento di smentire in conclusione
le nostre aspettative, bensì si configura come premessa necessaria al discorso
di Euridice, le cui parole d’amore o di sfida già nascono sotto i segni
nefasti della sua caduta, e hanno già conosciuto, o quantomeno prevedono,il
fallimento di Orfeo. Abbiamo affermato poc’anzi che per l’Orfeo virgiliano
l’esperienza della catabasi denota una sconfitta rovinosa e inattesa. In
rapporto al personaggio di Euridice quel fallimento, al contrario, sembrerebbe
risolversi in modo proficuo, poiché, partendo da quella sconfitta, ella viene a
ricomporre di nuovo la sua integrità di persona o, nei termini della nostra
indagine, di personaggio. Di fatto nelle versioni di Browning, della Doolittle e
della Cvetaeva, Euridice ostenta una propria coscienza e si avvale di una
propria voce, ottenute dilatando quell’istante effimero di consapevolezza che
già le aveva attribuito Virgilio. È chiaro che il dono di questa coscienza non
è privo di prezzo, ma qualunque sia la pena che spetta a Euridice, essa risulta
già scontata dal principio, pagata cioè con l’amara certezza di una seconda
morte. |