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cv2.jpg     Marina Ivanovna Cvetaeva nacque a Mosca il 26 settembre (9 ottobre) 1892.
A sei anni cominciò a scrivere poesie. Ebbe modo di soggiornare a lungo all'estero (in Italia nel 1902; in seguito Marina e Asja studiarono dapprima a Losanna, poi a Friburgo). Dopo la morte della madre, avvenuta nel 1906, Marina si iscrisse a un ginnasio di Mosca.
Precocissima, si avvicinò a Pushkin, Goethe, Heine, Hölderlin, Hauff, Dumas-padre, Rostand. Nel 1910, ancora studentessa liceale, pubblicò
Vecernij al'bom (Album serale). Il volumetto attirò l'attenzione di poeti come Brjusov, Gumilëv, Voloshin. L'attività poetica di Marina fu inarrestabile sin dagli inizi. 1912: Volsebnyj fonar' (Lanterna magica). 1913: Iz dvuch knig (Da due libri).
Poté tornare a Mosca solo dopo il '56.  Aiutata da pochissimi amici fedeli, la donna sopravvisse grazie a sporadici lavori di traduzione. Nonostante l'abbattimento e la disperazione di quel periodo di miseria e solitudine, continuò a lavorare a una raccolta della propria produzione poetica che non vide mai la luce.
 Il 31 agosto, mentre il figlio e i padroni di casa si trovavano al lavoro in un campo vicino, Marina Cvetaeva si impiccò a una trave dell'isba. Il suo corpo fu sepolto in una fossa comune.

 

L’analisi di una tra le più notevoli rivisitazioni del mito, l’Euridice a Orfeo fu di di Marina Cvetaeva. Partendo da questi versi, vorremmo inoltre prendere in esame i meccanismi narrativi che accomunano i testi di Browning, della Doolittle e della stessa Cvetaeva, formulando alcune considerazioni generali relative alla loro struttura e ai loro contenuti. Riportiamo, intanto, la poesia della Cvetaeva:

Per chi ha sciolto gli ultimi brandelli
del velo (né guance, né labbra!…)
non è forse abuso di potere
Orfeo che scende nell’Ade?
Per chi ha slegato gli ultimi anelli
del terrestre… e sul talamo ha lasciato
l’alta menzogna del vedere in volto
e in dentro guarda - il nuovo incontro è spada.
È già pagato - con tutte
le rose del sangue - questo dovizioso taglio
d’immortalità…
Fino all’alto Lete
amante tu - io chiedo a te la pace
della smemoria… Giacché in questa casa
illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera
io, morta… Che posso dirti - oltre:
“Dimentica e abbandonami!”
Non riuscirai a turbarmi! Non mi farò portare!
Non ho neanche le mani! Né labbra
da posare! Dal morso di vipera dell’immortalità
la passione di donna prende fine.
È già pagata - ricorda le mie urla! -
questa distesa estrema.
Orfeo non deve scendere a Euridice.
I fratelli - turbare le sorelle.

Proponiamo di cominciare dal titolo, Euridice a Orfeo, la cui forma è quella tipica delle didascalie drammatiche che introducono il discorso di un personaggio ad un altro. Già dal titolo, dunque, è possibile intuire il tipo di fictio mitologica che queste versioni moderne mettono in scena, le quali fingono tutte che Euridice si rivolga in prima persona ad Orfeo, rompendo con un appassionato moe la struttura narrativa è quella del monologo, è prevedibile che le argomentazioni del personaggio monologante abbiano a che fare con i suoi pensieri più intimi, e che descrivano, di preferenza, l’agitarsi profondo dei suoi sentimenti. Non ci sorprende, dunque, che Euridice discorra di sé e della sua sorte, che confessi i suoi desideri oppure i suoi aspri risentimenti. Ma poiché essa si rivolge a noi vivi, e ovviamente ad Orfeo, sostenendo le ragioni dei morti, anche i suoi pensieri arrivano a subire lo stesso rovesciamento prospettico. Ciò è ben rappresentato nei versi seguenti della Cvetaeva, che vertono sul contrasto degli opposti significati verità e illusione, oblio e memoria: «Fino all’alto Lete / amante tu - io chiedo a te la pace della smemoria… Giacché in questa casa / illusoria tu, vivo, sei fantasma, e vera / io, morta… Che posso dirti oltre: “Dimentica e abbandonami!”». Per effetto di questo rovesciamento, l’intervento di Orfeo è qui considerato nei termini di una intromissione funesta, un atto di prevaricazione maschile e un «abuso di potere». La sua presenza, infatti, lungi dall’essere salvifica, ha l’effetto di risvegliare in Euridice la memoria sopita della vita, ma per chi oramai abita tra i morti e, come sostiene il personaggio della Cvetaeva, «[…] ha slegato gli ultimi anelli del terrestre… e sul talamo ha lasciato / l’alta menzogna del vedere in volto / e in dentro guarda -», il ricordo delle passioni terrene non può che riemergere dirompente e doloroso. Dal punto di vista di Euridice, la presenza di Orfeo giunge qui a significare l’estremo impedimento alla serenità della morte. In questo senso, la coazione a ricordare, talvolta, può assumere in lei le proporzioni solenni di un castigo divino, una seconda punizione che segue a quella violenta della prima morte, come si può evincere da questi versi perentori della Cvetaeva: «È già pagata - ricorda le mie urla! - questa distesa estrema»; oppure, come per il personaggio della Doolittle, può rappresentare un tormento che sfinisce e alimenta i rancorinologo l’ossequiente silenzio a cui ella è stata condannata, per secoli, dalla tradizione letteraria.

«if you had let me wait / I had grown from listlessness / into peace, / if you had let me rest with the dead, / I had forgot you / and the past»; e più avanti: «yet for all your arrogance / and your glance, / I tell you this: / such a loss is no loss, / such terror, such coils and strands and pitfalls / of blackness / such terror / is no loss…». Viceversa, dove l’intervento di Orfeo è concepito nei termini di una illusoria o reale redenzione, come nel testo di Browning, la memoria della vita conserva il suo valore terreno, e per questo umanamente tragico, di resistenza all’oblio.

Il contrasto tra oblio e memoria sembra dunque rappresentare un tema ricorrente di molte rivisitazioni moderne, un argomento di cui si servono gli autori per segnalare il grado di distacco di Euridice dalle passioni terrene, o, in altre parole, il suo grado di adesione al mistero della morte. Adesione che si rivela massima nell’Euridice rilkiana pienamente assuefatta alla morte, la sola tra quelle da noi proposte che riesca a raggiungere una soggettività diversa, senza memoria. Tornando al testo della Cvetaeva e soffermandoci sul penultimo verso, «Orfeo non deve scendere a Euridice», riscontriamo che dietro la ferma negazione di questa forma imperativa si nasconde, in primo luogo, il fallimento di Orfeo, ma si cela anche l’importanza dell’episodio virgiliano dello sguardo disobbediente quale ispiratore di queste versioni moderne del mito, episodio che sancisce in modo definitivo, e irreparabile, quel fallimento. Ora, proprio nel trattamento specifico di questo episodio dal punto di vista di Euridice, queste versioni divergono alquanto dalla matrice virgiliana.

Dopo averci descritto il successo di Orfeo nel persuadere le divinità infernali e il percorso privo di ostacoli della sua risalita, Virgilio introduce l’episodio specifico ormai al culmine del suo racconto, come a voler disattendere con un colpo di teatro il nostro crescente ottimismo, che è poi lo stesso di Orfeo, circa l’esito dell’impresa. Il tono di tutto l’episodio è di genere tragico, poiché racconta di un fallimento inevitabile e nondimeno inatteso. Neppure l’esperienza straordinaria della catabasi risulta di qualche aiuto ad Orfeo, dal momento che non arriva a fornire al pellegrino infero nessuna conoscenza arcana. «Lungi da riportare una conoscenza più profonda della morte e una prospettiva più ampia circa la propria missione nella vita […] – sostiene Segal – Orfeo resta totalmente immerso nel dolore e nel cordoglio della morte.Di fatto egli non ha appreso alcunché dall’Ade».10 Nelle versioni da noi selezionate, al contrario, l’episodio virgiliano non è affatto inatteso, né è introdotto con l’intento di smentire in conclusione le nostre aspettative, bensì si configura come premessa necessaria al discorso di Euridice, le cui parole d’amore o di sfida già nascono sotto i segni nefasti della sua caduta, e hanno già conosciuto, o quantomeno prevedono,il fallimento di Orfeo. Abbiamo affermato poc’anzi che per l’Orfeo virgiliano l’esperienza della catabasi denota una sconfitta rovinosa e inattesa. In rapporto al personaggio di Euridice quel fallimento, al contrario, sembrerebbe risolversi in modo proficuo, poiché, partendo da quella sconfitta, ella viene a ricomporre di nuovo la sua integrità di persona o, nei termini della nostra indagine, di personaggio. Di fatto nelle versioni di Browning, della Doolittle e della Cvetaeva, Euridice ostenta una propria coscienza e si avvale di una propria voce, ottenute dilatando quell’istante effimero di consapevolezza che già le aveva attribuito Virgilio. È chiaro che il dono di questa coscienza non è privo di prezzo, ma qualunque sia la pena che spetta a Euridice, essa risulta già scontata dal principio, pagata cioè con l’amara certezza di una seconda morte.
A questo punto resterebbe da decidere sulla base dei versi della Cvetaeva - ma questo, forse, è compito dei poeti prima che di noi lettori – se, chiamato ancora alla sua missione, l’amante e il poeta Orfeo non debba più scendere a Euridice.