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VECCHIONI Euridice(da "Blumun", 1993)
Il testo della canzone si riferisce, come rivela il titolo, al mito di Orfeo e Euridice. Orfeo è un celebre cantore greco, figlio della Musa Calliope e di Apollo, o di Eagro, sposo di Euridice. La mitologia narra che il suo canto era così toccante che non solo incantava gli esseri umani, ma inteneriva gli animali e commuoveva anche la natura inanimata. Quando Euridice morì, egli discese agli Inferi e riuscì, grazie al suo canto, a commuovere Persefone stessa, regina del regno dei morti, e a ottenere che Euridice lo seguisse sulla terra a condizione che egli non si voltasse mai a guardarla lungo il cammino. Arrivarono così fino alle porte degli Inferi quando Orfeo, cedendo all’impazienza dell’amore, si voltò a guardare la sposa; essa svanì per sempre nel regno delle ombre. Orfeo, inconsolabile, errò attraverso il mondo fino al giorno in cui le Menadi, seguito del dio Dioniso, inasprite dall’amore esclusivo che egli portava alla sua sposa, lo fecero a pezzi. Le sue membra e la sua lira furono gettate nell’Ebro e furono sospinte fino all’isola di Lesbo. Quella presentata da Vecchioni non è però la versione tradizionale del mito: il suo Orfeo decide di voltarsi, sceglie deliberatamente di abbandonare Euridice con un atto della volontà, non la perde fortuitamente a motivo soltanto della propria debolezza. Il carattere monolitico del personaggio mitico conosce la lacerazione che la decisione e la libera scelta comportano, agisce in seguito a una riflessione: è anzi proprio la riflessione a costituire il nucleo attorno al quale si costruisce il testo della canzone, come dimostrano i tempi verbali delle azioni principali, impiegati alla prima persona singolare dell’indicativo futuro ("Morirò di paura", "Canterò", "Non avrò più la forza", "Mi volterò"). Nasce un nuovo Orfeo, un Orfeo moderno, in quanto gli si concede la facoltà di decidere autonomamente e l’attitudine a riflettere, caratteristiche estranee ai personaggi mitici, generalmente privi di quello che si definisce come "libero arbitrio", le cui veci sono generalmente svolte dall’intervento delle divinità. Qui il mutamento del carattere di Orfeo fa cambiare decisamente le sorti della vicenda mitica: il cantore abbandona la sposa negli Inferi. Non si tratta tuttavia di una invenzione del tutto nuova da parte del cantautore; il mito di Orfeo e Euridice è infatti stato soggetto a numerose rielaborazioni nel corso del tempo: tra queste, quella fornita da Cesare Pavese, ne "L’inconsolabile", uno dei "Dialoghi con Leucò" (1947), presenta particolari analogie con quella offerta da Vecchioni. Anche Pavese fa ammettere a Orfeo la decisione spontanea di contravvenire al divieto di voltarsi per abbandonare Euridice negli Inferi. La forma scelta da Pavese è quella del dialogo: Orfeo è a colloquio con una Menade, Bacca, e racconta a posteriori l’esperienza nel regno dei morti. (Parlano Orfeo e Bacca) "ORFEO: E’ andata così. Salivamo il sentiero tra il bosco delle ombre. Erano già lontani il Cocito, lo Stige, la barca, i lamenti. S’intravedeva sulle foglie il barlume del cielo. Mi sentivo alle spalle il fruscio del suo passo. Ma io ero ancora laggiù e avevo addosso quel freddo. Pensavo che un giorno avrei dovuto tornarci, che ciò che è stato sarà ancora. Pensavo alla vita con lei, com’era prima ; che un’altra volta sarebbe finita. Ciò che è stato sarà. Pensavo a quel gelo, a quel vuoto che avevo traversato e che lei si portava nelle ossa, nel midollo, nel sangue. Valeva la pena di rivivere ancora? Ci pensai, e intravidi il barlume del giorno. Allora dissi: "Sia finita" e mi voltai. Euridice scomparve come si spegne una candela. Sentii soltanto un cigolio, come d’un topo che si salva." In seguito Orfeo rivela: "L’Euridice che ho pianto era una stagione della vita. Io cercavo ben altro laggiù che il suo amore.": Orfeo riconosce impossibile, con il ritorno di Euridice, il recupero della giovinezza. Nel testo di Vecchioni il tema del tempo che scorre inesorabilmente è senza dubbio presente: la perifrasi per indicare Ade, il signore del regno dei morti, è proprio "maledetto padrone/ del tempo che fugge/ del buio e del freddo"; Euridice "aveva vent’anni"; le sue mani sono "passeri di mare", gli occhi "incanti d’onde/ scivolanti ai bordi delle sere": accanto alla grazia e alla vitalità, le immagini pongono l’accento sulla fugacità degli equilibri descritti ("passeri", "mare", "onde", "scivolanti"); gli uomini sono "aggrappati alla vita che se ne va". L’abbandono di Euridice non è però solo rinuncia al disperato tentativo di rivivere una stagione della vita, anche se rispetto alla rielaborazione di Pavese è possibile scorgere altre analogie (in particolare la scelta di evidenziare il "gelo" che avvolge Euridice e l’opposizione a esso delle stelle che si "intravedono" dal cunicolo infernale). Nel testo di Vecchioni Euridice viene lasciata nell’oltretomba perché lì è il suo posto: Euridice è e resta morta ("lei adesso è morta/ e là fuori ci sono/ la luce e i colori"), "le carezze sue di ieri/ non saranno mai più quelle": un eventuale ritorno comporterebbe solo sofferenza e "tutto quello che si piange/ non è amore"; "mi volterò perché già non ci sei", dice Orfeo: non sta abbandonando nessuno, non sta uccidendo nessuno, perché nessuno è riuscito a riportare in vita e voltarsi non è crudeltà, ma semplicemente naturale rifiuto di una ulteriore sofferenza. La struttura del testo della canzone consente di dividerla in due blocchi fondamentali, che ripetono la medesima struttura :
Questa costruzione speculare è resa meno schematica dall’inserimento, nella parte riguardante il canto di Orfeo, di una sequenza senza riscontro nel secondo blocco, sequenza che trascende la vicenda di Orfeo e Euridice per collocarsi su di un piano più elevato, che lascia spazio a considerazioni di carattere generale scaturite dal mito specifico: E canterò Al centro dell’attenzione non sono più i due protagonisti, ma gli uomini : di essi si evidenzia la solitudine, sono innanzitutto semidimenticati; sopraggiunge però un altro participio a contrastare la passività del primo, senza però far venire meno l’omeoteleuto (entrambi terminano con la medesima desinenza): aggrappati; fra i due participi, a separarli e, insieme, collegarli in modo da poterli cogliere con un unico sguardo, la metafora delle lacrime nella pioggia , che rende presente allo stesso tempo il senso di smarrimento degli uomini persi e dunque "semidimenticati" e la sofferenza che accompagna il precipitare di quelle gocce che finiscono per infrangersi e confondersi inevitabilmente, la stessa sofferenza di chi è "aggrappato alla vita che se va", e a essa è tanto più strettamente avvinghiato (ecco il "furore"), quanto più si avvicina il momento della separazione: è come l’ultimo bacio nell’ultimo giorno dell’ultimo amore. E’ lo stesso "furore" che consente a Orfeo di vincere Ade: il suo successo è descritto tramite una klimax ascendente, la cui efficacia è sottolineata dal crescendo musicale che accompagna i versi: E canterò finché tu piangerai La costruzione identica dei versi pone ulteriormente l’attenzione sul verbo finale, mentre il mutamento di posizione della congiunzione copulativa "e", che sempre precede l’azione di Orfeo, non all’inizio del terzo verso, come ci si aspetterebbe, ma del quarto, evidenzia il momento decisivo in cui Orfeo da soggetto del cantare diviene complemento di termine dell’azione del custode del regno dei morti, deciso finalmente a restituire a Orfeo la sposa. L’Euridice ritrovata non è però la stessa che Orfeo ha perso: "il gelo le ha preso la vita", come per Pavese; a testimoniarlo, basta un indizio: le sue mani, quando era viva, "erano passeri di mare", ma "le carezze sue di ieri/ non saranno mai più quelle" ; la scelta delle mani rinvia a diversi referenti letterari. L’Euridice di Virgilio (IV libro delle Georgiche) tende invano le mani verso Orfeo: esse testimoniano la tenerezza e l’affetto che legano ancora la sposa al marito: "Addio: mi riporta la notte alle sue rive grandi/ e vane tendo verso te, ahi non più tua, le mani". Rainer Maria Rilke, poeta tedesco dell’inizio del Novecento (1875-1926), rielabora il mito di Orfeo e Euridice rendendolo specchio del contrasto fra la vita e la morte: in questo caso Euridice, completamente estraniata dalla sua esperienza terrena, rifiuta ogni espressione di fisicità come appartenente a un mondo con cui ha reciso ogni legame. "Era in se stessa/ E la riempiva come una pienezza/ l’essere morta./ Come un frutto di buoi e di dolcezza/ era piena della sua grande morte/ così nuova che più non comprendeva." Questa Euridice ha cancellato ogni ricordo di Orfeo e dell’amore che li legava e procede per l’Averno scortata da Ermes senza comprendere ciò che le accade: addirittura "le sue mani s’erano alle nozze/ sì disusate, che del dio la guida/ e il contatto di levità infinita/ la turbava per troppa intimità." Un altro punto è preso in considerazione tanto da Virgilio, quanto da Rilke e Vecchioni: il tema della natura che piange la morte di Euridice. Virgilio scrive: "Le Driadi mandarono ai monti grida di pianto;/ piangevano le vette del Rodope e gli alti Pangei,/ la terra Marzia di Reso e l’Ebro e i Geti/ e l’attica Oritia." "Lei/ tanto amata che da una sola lira/ venne più pianto che da donne in lutto/ che dai lamenti venne un mondo in cui/ c’era ancora ogni cosa: boschi, valli, strade e paesi, e campi, e fiumi, e belve; e intorno alla terra un sole errava/ e uno stellato silenzioso cielo/ un cielo in pianto e stelle sfigurate.": questa la descrizione di Rilke. Il testo della canzone condensa in apertura l’idea centrale, tramite un’immagine di semplice efficacia: "nei campi di maggio/ da quando è partita/ non cresce più un fiore". Si tratta però, per Vecchioni come nel caso di Rilke, di un dolore destinato a rimanere inconsolabile: Euridice non può più tornare a essere come prima della sua morte: di questo si accorge il personaggio di Orfeo nel testo di Vecchioni; è questo il tema già presente, sebbene velatamente, nella prima parte della canzone, all’interno della sequenza dedicata a ciò che sta oltre il contenuto del canto di Orfeo: Canterò le madri La sorte di queste madri è legata a quella di Orfeo in un duplice senso: come Orfeo, esse perdono coloro che amano più di ogni altra cosa, ma come Orfeo sono destinate a comprendere che non c’è altra via se non quella di volere esse stesse la separazione dai figli, proprio in nome dell’amore che le lega a essi: per questo le madri accompagnano i figli verso i loro sogni, perché il destino dei figli è lontano da loro, e esse l’hanno compreso. Sottrarsi a questa legge significherebbe soltanto procurare a sé e ai figli continue sofferenze, espresse mediante l’immagine delle vele nere che segnano i ritorni. Proprio per non vedere le vele nere che avrebbero inevitabilmente segnato il ritorno di Euridice, Orfeo sceglierà di accompagnarla verso il suo destino, lontano da lui. Euridice appartiene al regno dei morti, esattamente come Orfeo appartiene a quello dei vivi, e sa che "tutto quello che si piange/ non è amore": la sofferenza che inizia a assaporare sul sentiero degli Inferi è solo l’inizio di quella che lo attenderebbe se riportasse in vita la sposa: si tratterebbe di un atto di egoismo, come quello delle madri che trattengono disperatamente a sé i figli. Orfeo ha un’altra vita: "e ragazze sognanti/ mi aspettano a danzarmi il cuore": la vita lo chiama, esattamente come le stelle che intravede all’uscita dell’Averno ("e nel mondo su, là fuori/ si intravedono le stelle") con la voce delle ragazze: esse lo aspettano; vogliono danzargli il cuore: l’uso transitivo del verbo, solitamente intransitivo e che qui ammette anche il complemento di termine espresso dal pronome, serve a creare un’impressione piuttosto che una visione ben precisa: è la prospettiva della mente di Orfeo, che sente l’attrazione naturale verso la felicità e immagina la propria gioia. Oltre alle immagini, è possibile riscontrare, all’interno del testo della canzone, altri elementi che permettono di riscontrare la presenza di procedimenti assimilabili a quelli impiegati nella costruzione di un testo poetico. La scansione, evidenziata, in sequenze simmetriche, della prima e della seconda parte della canzone, infatti, non riguarda soltanto il contenuto e il ritmo della musica, ma trova corrispondenza nella costruzione delle strofe, formate da un uguale numero di versi.
Anche il numero delle sillabe all’interno dei versi risponde in alcuni casi a schemi rintracciabili: non accade però che questi siano sempre presenti, lasciando piuttosto che siano le parole e l’energia delle emozioni espresse a modellare il contenitore metrico o a traboccare rispetto a esso, come nella strofa centrale (vv. 24-31), in cui decasillabi e endecasillabi esprimono uno sfogo che senari e settenari, i versi maggiormente impiegati nel resto della canzone, non riescono a contenere. I versi iniziali rappresentano invece un caso di impiego di uno schema preciso: Mo/ri/rò/ di/ pa/u/ra (settenario) Ampiamente impiegate sono l’anafora e l’epifora (ripetizione di una medesima parola rispettivamente all’inizio e alla fine di due versi consecutivi). Due esempi fra i moltissimi: E mi volterò (Le carezze sue di ieri) E canterò In anafora e epifora si presentano le azioni cruciali di Orfeo: il ricorso a esse è utile anche per legare sequenze indipendenti fra loro: nel primo esempio l’anafora collega il quarto "mi volterò" al quinto, che segna l’inizio di una nuova sequenza; nel secondo caso intervengono la congiunzione e l’anadiplosi (ripetizione di una medesima parola alla fine di un verso e all’inizio del consecutivo). Spesso interviene l’omeoteleuto (uguaglianza di terminazione tra due o più parole), dovuto normalmente all’identità di desinenza: E canterò finché tu piangerai In alcuni casi interviene anche la rima, che non risponde però a nessuno schema preciso (amore/ fiore; cuore/ amore; quelle/ stelle; vita/ finita; inferno/ inverno); si riscontra anche la presenza dell’assonanza (somiglianza di suono tra due parole, data dall’uguaglianza delle vocali): sogni/ ritorni; forza/ morta.
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