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"Erissimaco,
figlio d'Acumeno, non avevo forse ragione? Non ho parlato in modo profetico
prima, quando ho detto che Agatone avrebbe parlato divinamente e io, dopo, sarei
stato in imbarazzo?" "Sul
primo punto - rispose Erissimaco - sei stato buon profeta, io credo, dicendo che
Agatone avrebbe parlato bene. Ma che tu sia in imbarazzo adesso, questo non lo
credo proprio." "E
come si potrebbe non esserlo, carissimo Erissimaco, - riprese Socrate - dovendo
parlare dopo un discorso così bello, così seducente! Non è stato tutto
perfetto, questo è vero; ma nella conclusione chi può non esser stato preso
dall'incanto delle parole e delle frasi? Io mi riconosco subito incapace di
avvicinarmi a tanta bellezza con le mie parole, e per un po' ho anche pensato di
sgattaiolar via senza dir nulla. Ma non è possibile farlo. Il discorso di
Agatone mi ha ricordato Gorgia, al punto da farmi temere quel che dice Omero: ho
quasi creduto che Agatone alla fine del suo discorso gettasse sulla mia la testa
di Gorgia, il terribile oratore, e mi trasformasse in pietra, facendomi
diventare muto. Ho
capito allora di esser stato proprio un ingenuo quando vi ho promesso di fare
anch'io, al mio turno, l`elogio di Eros, e quando ho detto di essere ben esperto
delle cose d'amore: in effetti, devo confessare di non sapere affatto fare un
elogio. Credevo, nella mia piena ignoranza, che si dovesse dire la verità
sull'oggetto del proprio elogio, che questo fosse fondamentale: che bisognasse
scegliere le verità più belle e disporle nell'ordine più elegante. Ero,
naturalmente, tutto fiero al pensiero che avrei parlato bene: non conoscevo
forse la vera maniera di fare un elogio? Ma, stando a quanto ho sentito, il
metodo corretto di fare un elogio non è questo: bisogna piuttosto attri buire
all'oggetto del proprio discorso le più grandi e le più belle qualità - che
le abbia davvero o non le abbia non importa affatto. A quanto sembra il nostro
accordo era di giocare a far le lodi di Eros, non di lodarlo veramente per quel
che è. Ecco perché, io penso, voi muovete cielo e terra per attribuire ad Eros
ogni cosa bella e proclamare l'eccellenza della sua natura come la grandezza
delle sue opere: voi volete così farlo apparire il più bello e il più buono
possibile - ma non si ingannano coloro che sanno. E certo è una bella cosa un
elogio simile. Ma io ignoravo evidente mente questo modo di far le lodi, e
siccome lo ignoravo, promisi anch'io di pronunciare un elogio al mio turno: ma
la lingua promise, non certo il mio cuore. Dunque, addio alla mia promessa!
Io un elogio così non ve lo faccio, non ne sono capace. Però, a condizione di
dir solo la verità, io accetto se lo desiderate di prender la parola, alla mia
maniera e senza rivaleggiare con l'eleganza dei vostri discorsi, perché non ho
nessuna intenzione di diventare ridicolo. Vedi tu, Fedro, se c'è ancora bisogno
di un discorso di questo genere, che lasci intendere la verità su Eros - ma con
le parole e lo stile che mi verranno al momento." Allora
- disse Aristodemo - Fedro e gli altri lo pregarono di parlare come riteneva di
dover fare. "Ancora
un momento, Fedro, - disse Socrate -: lasciami porre alcune piccole domande ad
Agatone, in modo che possa mettermi d'accordo con lui prima di cominciare il mio
discorso." "Ti
lascio fare - disse Fedro -; domanda pure." E
così - disse Aristodemo - Socrate cominciò pressappoco con queste parole: "Per
la verità, mio buon Agatone, io dico che tu hai aperto bene la via dichiarando
che bisognava innanzitutto mostrare qual è la natura dell'amore e come agisce:
io trovo questo inizio davvero eccellente. Andiamo avanti, però, ti prego; dopo
tutto quello che hai detto di bello e di buono sulla natura di Eros, rispondi a
questa domanda: "E' nella natura dell'Eros essere amore di qualche cosa,
oppure di niente?" Io non ti domando se la sua natura è di essere amore
per una madre o un padre, perché sarebbe comico domandare se l'Eros è una
forma d'amore che si rivolge a una madre o a un padre. Ma se, a proposito del
padre in quanto padre io domandassi: "Il padre è padre di qualcuno o
no?", tu mi risponderesti senza dubbio - se volessi darmi una buona
risposta - che il padre è padre di un figlio, o di una figlia. Non è
vero?" "Certo",
disse Agatone. "E
non dirai la stessa cosa della Madre?" - Agatone ne convenne. "Rispondi
ancora - disse Socrate - ad alcune domande, per meglio comprendere dove voglio
arrivare. Se io domandassi: "Il fratello, in quanto fratello, è fratello
di qualcuno o no?" Rispose
che lo era. "Dunque
è fratello di un fratello o di una sorella?" - Agatone fu d'accordo. "Prova
allora - riprese Socrate - a far la stessa domanda per l'Eros: Eros è amore di
niente o di qualcosa?" "Di
qualcosa, evidentemente." "Tieni
bene a mente questo carattere dell'Eros, allora, e dimmi ancora se egli desidera
ciò che ama." "Lo
desidera certamente", disse. "Quando
possiede ciò che desidera, è allora che l'ama, o quando non lo possiede?"
"Quando
non lo possiede: è probabile che sia così" - disse. "Ma
pensa bene - disse Socrate - se invece che probabile non è una certezza: non
dobbiamo forse dire che desidera ciò che non possiede, e che non desidera
affatto ciò che possiede già? Per me, mio caro Agatone, questo è chiarissimo.
Tu che ne pensi?" "Sono
dello stesso avviso", disse. "E
fai bene ad esserlo. Dunque un uomo che è grande potrà forse desiderare di
esser grande? O di esser forte se è forte?" "E
impossibile, visto quel che abbiamo detto." "Non
potrebbe infatti mancare di queste qualità, poiché ce le ha." "E
così." "Però
supponiamo - disse Socrate - che un uomo forte voglia esser forte, che un uomo
agile voglia esser agile, che un uomo in buona salute voglia essere in buona
salute. Si potrebbe forse pensare, per quel che riguarda queste qualità e tutte
quelle dello stesso genere, che gli uomini che le hanno desiderano averle
ancora. Lo dico per difenderci contro questo possibile errore. Se ci pensi,
Agatone, è necessario che essi abbiano, al momento, ciascuna delle qualità che
hanno, che le vogliano o meno: com'è possibile desiderare ciò che si ha già?
Ma se qualcuno ci dicesse "Io sono adesso in buona salute, e desidero
esserlo; io sono ricco, e desidero esserlo, desidero possedere quel che già
possiedo", allora noi gli risponderemmo: "Tu hai la ricchezza, la
salute, la forza; quel che desideri, è di averle ancora in futuro, perché per
il presente, che tu lo voglia o no, le hai già. Dunque quando dici: io desidero
ciò che adesso ho già, queste parole significano semplicemente: ciò che io ho
adesso, desidero averlo anche per l'avvenire." Sei d'accordo, non è
vero?" Agatone
- disse Aristodemo - lo riconobbe, e Socrate proseguì: "Se
tutto questo è vero, desiderare le cose che non si hanno ancora, che non si
possiedono, non è forse volere per l'avvenire che queste cose ci siano
conservate?" "Certo",
disse. "Quindi
l'uomo che si trova in questa situazione, e cioè chiunque provi un desiderio,
desidera ciò che non ha ancora e che non è nel presente. E ciò che egli non
ha, ciò che egli stesso non è, quel che gli manca, insomma, ecco l'oggetto del
suo desiderio e del suo amore." "Sicuramente
è così" - disse. "Andiamo
avanti, allora - disse Socrate. Ricapitoliamo i punti su cui siamo d accordo.
Non è forse vero, innanzitutto, che l'Eros si indirizza verso certe cose e, in
secondo luogo, che queste cose sono quelle di cui sente la mancanza?" "Sì",
disse. "E
adesso, Agatone, ricordati cosa hai detto nel tuo discorso sulle cose verso cui
si indirizza l'Eros. Se vuoi, te lo ricordo io stesso: più o meno, tu ci hai
detto, credo, che gli dèi hanno risolto i loro conflitti grazie all'amore per
la bellezza, perché non ci può essere amore verso quel che è brutto. Son più
o meno le tue parole, non è vero?" "Certo",
disse Agatone. "Tu
rispondi come si deve, mio caro - disse Socrate -, e se le cose stanno come tu
ci hai detto, I'Eros dovrebbe amare la bellezza, non certo la bruttezza, non è
vero?" Agatone
fu d'accordo. "Ma
non ci siamo trovati d'accordo anche su questo, che si ama ciò di cui si sente
la mancanza e che non si possiede?" "Sì",
ammise. "L'Eros
manca quindi della bellezza e non la possiede?" "Per
forza", disse. "Ma
come? Chi manca della bellezza e non la possiede affatto, tu lo chiami
bello?" "No
di certo." "E
allora, se le cose stanno così, sei ancora dell'avviso che l`Eros sia
bello?" "Temo
proprio - disse Agatone - di aver parlato senza sapere quel che dicevo." "Però
il tuo discorso era molto elegante, Agatone. Ma ancora una piccola domanda: le
cose buone sono allo stesso tempo belle, secondo te?" "Lo
sono, a mio avviso." "Allora
se all'Eros manca la bellezza e se le cose buone sono anche belle, all'Eros deve
per forza mancare anche la bontà". "Di
sicuro, Socrate - disse Agatone -, io non sono in grado di contraddirti: ammetto
quel che tu dici. " "No,
carissimo Agatone - disse Socrate -, non me, ma la verità tu non puoi
contraddire: Socrate, lui sì che è facile contraddirlo. Adesso
ti lascerò un po' in pace. Ecco il discorso sull'Eros che ho ascoltato un
giorno da una donna di Mantinea, Diotima, molto competente su questo come su
tanti altri argomenti. Fu lei che una volta, prima della peste, fece fare agli
Ateniesi quei sacrifici che ritardarono di dieci anni l'epidemia. Proprio lei mi
ha fatto capire molte cose su Eros. Adesso
cercherò di fare del mio meglio per riportarvi le sue parole, partendo da tutto
quello su cui Agatone ed io ci siamo trovati d'accordo. Come tu stesso hai
detto, Agatone, bisogna innanzitutto chiarire la natura dell'Eros, i suoi
attributi e le sue azioni. Forse la cosa più semplice è seguire nella mia
esposizione lo stesso ordine che seguì la straniera nell'esame che mi fece. Io,
infatti, le rispondevo un po' come adesso ha fatto Agatone con me: io dichiaravo
che Eros è un grande dio e che ama le cose belle. Lei mi dimostrava che ero in
errore con le stesse argomentazioni di cui mi sono servito discutendo con
Agatone: Diotima diceva che Eros non è né bello, per usare le mie parole, né
buono. E io le dicevo: "Ma
come Diotima? allora Eros è cattivo e brutto?" "Che
dici? Questa è una bestemmia! - mi rispose -. Credi forse che tutto ciò che
non è bello debba essere per forza brutto?" "Ma
certo!" "E
perché mai? Chi non è sapiente deve per forza essere ignorante? Non ti sei mai
accorto che c'è una via di mezzo tra la sapienza e l'ignoranza?" "E
qual è?" "Avere
un'opinione giusta, senza però saperla giustificare. Questo non è vero sapere:
come posso parlare di scienza, se non so dimostrare che è vero quello che
penso? Ma non è neppure piena ignoranza, perché per caso la mia opinione
potrebbe corrispondere ai fatti. L'opinione giusta è quindi, suppongo, simile a
quel che dicevo: sta a metà strada tra la piena conoscenza e
l'ignoranza"34. "E'
vero", risposi. "Dunque
chi non è bello non per questo è per forza brutto, né chi non è buono deve
essere cattivo. E così è per l'Eros: poiché tu sei d'accordo con me che non
può essere né buono né bello, non devi per questo credere che sia
necessariamente cattivo e brutto. Eros - così mi disse Diotima - è a metà tra
questi estremi." "Però
- ripresi io - tutti concordano nel pensare che Eros sia un dio potente." "Dicendo
tutti, parli degli ignoranti o di coloro che parlano sapendo cosa dicono?" "Io
parlo proprio di tutti." Diotima
si mise a ridere. "Come possono dire di lui che è un dio potente se dicono
che non è affatto un dio?" "Ma
chi dice questo?" dissi io. "Tu
per esempio - disse - ed anch'io!" Ed
io: "Ma cosa dici?" "E'
tutto semplice - rispose -. Dimmi: non sei forse convinto che tutti gli dèi
sono felici e belli? o oseresti sostenere che qualcuno degli dèi non è né
bello né felice?" "lo
non oserei proprio", risposi. "Ma
chi è felice? non è chi possiede cose buone e belle?" "Certo."
"Ma
tu hai riconosciuto che Eros, mancando delle cose buone e belle, le desidera
proprio perché gli mancano." "E
vero, ero d'accordo con te su questo." "E
allora come può essere un dio se le cose buone e belle gli mancano?" "Sembra
impossibile, in effetti." "Come
vedi - disse -, anche tu ritieni che Eros non sia un dio." "Chi
sarà dunque Eros? un mortale?" "No
di certo." "E
allora?" "E
come negli esempi precedenti, la sua natura è a mezza via tra il mortale e
l'immortale". "Che
vuoi dire, Diotima?" "E'
un dèmone potente, Socrate. I demoni, infatti, hanno una natura intermedia tra
quella dei mortali e quella degli dèi." "Ma
qual è il suo potere?" chiesi. "Eros
interpreta e trasmette agli dèi tutto ciò che viene dagli uomini, e agli
uomini ciò che viene dagli dèi: da un lato le preghiere e i sacrifici degli
uomini, dall'altro gli ordini degli dèi e i loro premi per i sacrifici
compiuti; e in quanto è a mezza via tra gli uni e gli altri, contribuisce a
superare la distanza tra loro, in modo che il Tutto sia in se stesso ordinato e
unito. Da lui viene l'arte divinatoria, ed anche il sapere dei sacerdoti sui
sacrifici, le iniziazioni, gli incantesimi, tutto quel che è divinazione e
magia. Il divino non si mescola con ciò che è umano, ma, grazie ai dèmoni, in
qualche modo gli dèi entrano in rapporto con gli uomini, parlano loro, sia
nella veglia che nel sonno. L'uomo che sa queste cose è vicino al potere dei dèmoni,
mentre chi sa altre cose - chi possiede un'arte, o un mestiere manuale - resta
un artigiano qualsiasi o un operaio. Questi dèmoni sono numerosi e d'ogni tipo:
uno di essi è Eros". "Chi
è suo padre - domandai - e chi sua madre?" "E'
una lunga storia - mi disse -. Adesso te la racconto. Il giorno in cui nacque
Afrodite, gli dèi si radunarono per una festa in suo onore. Tra loro c'era
Poros, il figlio di Metis. Dopo il banchetto, Penìa era venuta a mendicare,
com'è naturale in un giorno di allegra abbondanza, e stava vicino alla porta.
Poros aveva bevuto molto nettare (il vino, infatti, non esisteva ancora) e, un
po' ubriaco, se ne andò nel giardino di Zeus e si addormentò. Penìa, nella
sua povertà, ebbe l'idea di avere un figlio da Poros: così si sdraiò al suo
fianco e restò incinta di Eros. Ecco perché Eros è compagno di Afrodite e suo
servitore: concepito durante la festa per la nascita della dea, Eros è per
natura amante della bellezza - e Afrodite è bella. Proprio
perché figlio di Poros e di Penìa, Eros si trova nella condizione che dicevo:
innanzitutto è sempre povero e non è affatto delicato e bello come si dice di
solito, ma al contrario è rude, va a piedi nudi, è un senza-casa, dorme sempre
sulla nuda terra, sotto le stelle, per strada davanti alle porte, perché ha la
natura della madre e il bisogno l'accompagna sempre. D'altra parte, come suo
padre, cerca sempre ciò che è bello e buono, è virile, risoluto, ardente, è
un cacciatore di prim'ordine, sempre pronto a tramare inganni; desidera il
sapere e sa trovare le strade per arrivare dove vuole, e così impiega nella
filosofia tutto il tempo della sua vita, è un meraviglioso indovino, e ne sa di
magie e di sofismi. E poi, per natura, non è né immortale né mortale. Nella
stessa giornata sboccia rigoglioso alla vita e muore, poi ritorna alla vita
grazie alle mille risorse che deve a suo padre, ma presto tutte le risorse
fuggon via: e così non è mai povero e non è mai ricco. Vive
inoltre tra la saggezza e l'ignoranza, ed ecco come accade: nessun dio si occupa
di filosofia e nessuno desidera diventare sapiente, perché tutti lo sono già.
Chiunque possegga davvero il sapere, infatti, non fa filosofia; ma anche chi è
del tutto ignorante non si occupa di filosofia e non desidera affatto il sapere.
E questo è proprio quel che non va nell'essere ignoranti: non si è né belli,
né buoni, né intelligenti, ma si crede di essere tutte queste cose. Non si
desidera qualcosa se non si sente la sua mancanza". "Ma
allora chi sono i filosofi, se non sono né i sapienti né gli ignoranti?" "E'
chiaro chi sono: anche un bambino può capirlo. Sono quelli che vivono a metà
tra sapienza ed ignoranza, ed Eros è uno di questi esseri. La scienza, in
effetti, è tra cose più belle, e quindi Eros ama la bellezza: è quindi
necessario che sia filosofo e, come tutti i filosofi, è in posizione intermedia
tra i sapienti e gli ignoranti. La causa di questo è nella sua origine, perché
è nato da un padre sapiente e pieno di risorse e da una madre povera tanto di
conoscenze quanto di risorse. Così,
mio caro Socrate, è fatta la natura di questo dèmone. L'idea, però, che tu ti
eri fatta dell'Eros non mi sorprende per nulla: da quel che capisco dalle tue
parole, tu credevi che Eros fosse l'amato, non l'amante. Per questa ragione,
senza dubbio, ti sembrava che fosse pieno di ogni bellezza. Infatti l'oggetto
dell'amore è sempre bello, delicato, perfetto, sa dare ogni felicità. Ma
l'essenza di chi ama è differente: è quella che ti ho prima descritto". Io
allora ripresi: "E
sia, straniera: tu hai proprio ragione. Ma se questa è la natura dell'Eros, a
cosa può esser utile a noi uomini?" "Adesso
cercherò di spiegartelo, Socrate. Eros ha dunque questo carattere e questa
origine: ama le cose belle, come tu ben sai. Ora, prova a domandarti: che cos'è
l'amore per le cose belle? o più chiaramente: chi ama le cose belle, le
desidera; ma in che cosa consiste esattamente il desiderio che si prova quando
si ama?" "Noi
desideriamo che l'oggetto del nostro amore ci appartenga", risposi io. "Questa
tua risposta - disse - apre un nuovo problema: che cosa accade all'uomo che
possiede le cose belle?" Io
dichiarai che non ero affatto capace di rispondere a una domanda simile. "E
allora - disse lei - parliamo del bene invece che del bello. Cosa mi dici se ti
domando: chi ama le cose buone, le desidera: ma cosa desidera?" "Che
siano sue", risposi. "E
cosa accade all'uomo che le possiede?" "In
questo caso posso rispondere più facilmente - dissi -: sarà felice". "In
effetti proprio possedere ciò che è buono fa la felicità delle persone. Così
non abbiamo più bisogno di domandarci che cosa vuole chi vuole essere felice,
perché parlando della felicità abbiamo già toccato il fine ultimo del
desiderio." "E'
vero", dissi. "Ma
questa volontà, questo desiderio, tu pensi sia comune a tutti gli uomini? Tutti
vogliono sempre possedere ciò che è buono? Dimmi cosa ne pensi." "E'
così, questa volontà è comune a tutti." "Ma
allora, Socrate - riprese -, perché non diciamo che tutti gli uomini amano, se
tutti desiderano sempre le stesse cose? Come mai, al contrario, diciamo che
alcuni uomini amano ed altri non amano affatto?" "Sono
stupito anch'io di questo", risposi. "Non
devi stupirti, però - disse -. Il fatto è che l'amore ha molte forme, ma noi
prendiamo una sola di queste forme e le diamo il nome generico di amore come se
fosse l'unica. Questo nome andrebbe dato a tutte, ma per le altre forme usiamo
nomi diversi." "Mi
fai un esempio?", chiesi. "Certo.
Tu sai che la capacità creativa delle persone può manifestarsi in molti campi.
La creatività entra in gioco tutte le volte che qualche cosa viene prodotta,
perché prima non c'era e poi c'è; così le opere degli artigiani, in tutti i
campi, sono frutto della creatività e gli uomini che le fanno sono tutti dei
creativi, degli artisti." "E'
vero." "Però
- continuò - tu sai che non li chiamiamo tutti artisti, ma diamo loro altri
nomi. Tra tutti quelli che svolgono attività che hanno a che fare con la
creatività, soltanto ad alcuni diamo il nome di artisti, di poeti: solo a
quelli che compongono musica e versi. In realtà tutti lo sono. Solo i versi in
musica chiamiamo arte, e soltanto questo è il dominio che riconosciamo agli
artisti." "E'
vero", dissi. "Ed
è lo stesso per l'amore. In generale, ogni desiderio di ciò che è buono, che
è bello, è per tutti "amore possente, Eros ingannevole". Il
desiderio umano ha mille forme diverse: alcune persone hanno la passione del
denaro, o dello sport, o dello studio, ma noi non diciamo che amano, che sono
innamorati. Altri, che seguono una particolare forma d'amore, ebbene solo per
loro usiamo le parole che dovremmo usare per tutti: amore, amare,
innamorati." "Sei
proprio convincente", risposi. "Molti
dicono, però, che amare significa cercare la propria metà. Io non sono
d'accordo, perché non c'è affatto amore né per la metà né per l'intero, mio
buon amico, se l'oggetto del nostro desiderio non è buono: le persone accettano
di farsi tagliare anche i piedi o le mani, se sono convinte che queste parti
possono portare dei mali. Io non credo affatto che ciascuno si affezioni a ciò
che gli appartiene, a meno che non sia convinto che ciò che è suo sia buono e
ciò che gli è estraneo sia cattivo. Gli uomini. infatti, non desiderano altro
che il bene. Non la pensi così anche tu?" "Certo,
per Zeus", risposi. "Allora
possiamo dire semplicemente che gli uomini desiderano ciò che è buono?" "Sì."
"E
non dobbiamo forse aggiungere che essi desiderano possedere ciò che è
buono?" "Certo
che dobbiamo." "E
non soltanto possederlo, ma possederlo sempre." "Dobbiamo aggiungere
anche questo." "Quindi
- disse - l'amore è il desiderio di possedere sempre ciò che è buono?" "E'
così", dissi. "Se
è dunque chiaro - disse - che l'amore è questo, dimmi in quale forma, in quale
genere di attività, l'ardore, la tensione estrema che accompagna lo sforzo di
raggiungere questo fine, deve ricevere il nome di amore. Di quale tipo d'azione
si tratta? Me lo sai dire?" "Certamente
no - risposi -. Se lo sapessi, non sarei così pieno d'ammirazione davanti al
tuo sapere e non verrei da te come allievo per imparare quel che sai." "Allora
- riprese -, te lo dirò io: amare, sia per il corpo che per l'anima, significa
creare nella bellezza." "Bisognerebbe
essere degli indovini per capire cosa vuoi dire con queste parole, e io non lo
sono affatto." "Mi
esprimerò più chiaramente. Tutti gli uomini, mio caro Socrate, hanno capacità
creative sia nel corpo che nell'anima. Tutti noi, quando abbiamo raggiunto una
certa età, per natura proviamo il desiderio di generare, ma non si può
generare nulla nella bruttezza: si può solo nella bellezza. Nell'unione
dell'uomo e della donna c'è qualcosa di creativo, qualcosa di divino. Tutte le
creature viventi sono mortali, ma in loro c'è una scintilla d'immortalità: è
la fecondità dei sessi, la capacità di generare nuovi esseri viventi. Ma
questo non può avvenire se non c'è armonia: e non c'è armonia tra la
bruttezza e tutto ciò che è divino, perché solo la bellezza è in armonia con
gli dèi. Dunque nel concepire una nuova vita, la dea della Bellezza fa da Moira
e da Ilitia, la dea della nascita. Per questo, chi ha dentro di sé qualcosa di
creativo, quando si avvicina a ciò che è bello prova gioia nel suo cuore, si
apre al fascino della bellezza. E' il momento della generazione: egli crea. Ma
quando si avvicina a ciò che è brutto, allora si chiude in se stesso scuro in
volto e triste, cerca di allontanarsi, e così non crea affatto, anche se porta
ancora dentro il suo seme fecondo, e ne soffre. Per questo chi sente la propria
creatività pronta alla vita, è fortemente attratto dalla bellezza: soltanto
chi possiede la bellezza è libero dalle sofferenze che ogni atto creativo
comporta. E dunque Eros - concluse - non desidera affatto la bellezza, mio caro
Socrate, come tu credi." "E
cosa allora?" "Desidera
creare e far nascere nuova vita nella bellezza." "Ammettiamolo'',
dissi. "E
proprio così - ripeté -. Ma perché creare nuova vita? Perché per qualsiasi
essere mortale l'eternità e l'immortalità possono consistere solo in questo:
nel creare nuova vita. Ora, il desiderio d'immortalità accompagna
necessariamente quello del bene - lo sappiamo, ormai - se è vero che l'amore è
desiderio di possedere per sempre il bene. E così da tutto quello che abbiamo
detto segue questo, che l'amore ha come proprio oggetto l'immortalità." Ecco
quello che Diotima mi insegnava, parlando delle cose d'amore. Un giorno mi
chiese: "Quale
pensi che sia, Socrate, la causa dell'amore e del desiderio? Non vedi in che
strano stato sono gli animali, quando il loro istinto li spinge a procreare?
Tutti gli animali - che si muovano sulla terra o volino nell'aria - sembrano
impazziti, l'amore li tormenta, e li spinge ad accoppiarsi. Poi quando viene il
momento di nutrire i loro piccoli, sono sempre pronti a combattere per
difenderli: anche i più deboli affrontano animali più forti di loro e sono
pronti a sacrificarsi per amore dei loro piccoli. Soffrono loro le torture della
fame, pur di sfamare i figli e far tutte le altre cose necessarie. Presso gli
uomini si può pensare che tutto questo sia il frutto di una riflessione
razionale. Ma presso gli animali, da dove proviene questo amore che li mette in
tale stato? Puoi dirmelo?" Ancora
una volta risposi che non ne sapevo nulla. E allora riprese: "E
tu pensi di diventare un giorno davvero esperto nelle cose d'amore senza sapere
questo?" "Ma
è ben per quello, Diotima, come ti dico sempre, che ti sto vicino, perché so
di avere bisogno di una guida. Allora dimmi perché accade tutto questo e
quant'altro riguarda l'amore." "Se
sei convinto - disse - che l'oggetto naturale dell'amore è quello sul quale
abbiamo più volte discusso, non devi certo meravigliarti. Infatti su questo
punto la natura mortale segue sempre lo stesso principio quando cerca, nella
misura dei suoi mezzi, di perpetuare la vita e divenire immortale. E non può
farlo che in questo modo, attraverso l'amore, che fa sì che un nuovo essere
prenda il posto del vecchio. Riflettiamo: quando si dice che ciascun essere
vivente rimane se stesso (per esempio che dalla nascita alla vecchiaia permane
la sua identità), ebbene questo essere non ha mai in sé le stesse cose.
Diciamo sì che è sempre lo stesso, ma in realtà non cessa mai di rinno varsi
ogni momento in certe parti, come i capelli, le ossa, il sangue, insomma in
tutto il suo corpo. E
questo non è vero soltanto per il suo corpo, ma anche per la sua anima: i
sentimenti, il carattere, le opinioni, i desideri, i piaceri, i dolori, i
timori, niente di tutto questo rimane costante per ciascuno di noi, ma tutto in
noi nasce e muore. E accadono cose più strane ancora. Non solo in generale
certe conoscenze nascono in noi mentre altre spariscono - e quindi nel campo
della conoscenza noi non rimaniamo mai gli stessi - ma ciascuna conoscenza in
particolare subisce la stessa sorte. Infatti noi dobbiamo esercitarci nello
studio proprio perché alcune conoscenze ci sfuggono continuamente: le
dimentichiamo, tendono ad andare via, e con lo studio, inversamente, fissando
nella memoria ciò che vogliamo ricordare, le conserviamo. E' per questo che
sembrano le stesse: in realtà le conserviamo rinnovandole. E' così che tutti
gli esseri mortali si conservano: non sono sempre esattamente se stessi, come
l'essere divino. Sembrano conservare la loro identità perché ciò che
invecchia e va via è subito sostituito da qualcosa di nuovo, molto simile. Ecco
in che modo - Socrate - ciò che è mortale partecipa dell'immortalità, nel suo
corpo e in tutto il resto; non c'è altro modo. Non meravigliarti dunque se
ciascun essere è dominato dall'amore e si preoccupa tanto dei propri figli,
perché questo è nella natura dei viventi: è al servizio dell'immortalità".
Queste
parole mi riempirono di stupore e glielo dissi: "Ma
come, saggia Diotima, le cose stanno veramente così?" Ella
mi rispose col tono serio di chi insegna: "Devi
esserne certo, Socrate. Pensa alle ambizioni che hanno molte persone e ti
meraviglierai senza dubbio della loro assurdità; se rifletti, meditando sulle
mie parole, ti accorgerai di quanto è strano lo stato di coloro che desiderano
diventar celebri e acquistar gloria immortale per l'eternità: sono disposti per
questo a correre ogni rischio, più ancora che per difendere i loro figli. Sono
pronti a mettere in gioco il loro denaro, ad affrontare tutti i disagi, a
rischiare la loro stessa vita. Pensi forse che Alcesti sarebbe morta per Admeto,
che Achille avrebbe seguito Patroclo sulla via della morte, che il vostro re
Codro avrebbe affrontato la morte per conservare il regno ai suoi figli, se essi
non avessero creduto di lasciare l'immortale ricordo del loro valore, che è
giunto sino a noi? E' così, disse. A mio avviso, è per rendere immortale il
loro valore, per acquisire un nome glorioso, che gli uomini fanno quel che
fanno, e questo tanto più se le loro qualità personali sono alte - perché è
l'immortalità che essi desiderano. Allora,
disse, gli uomini fecondi nel corpo pensano soprattutto alle donne: il loro modo
d'amare è tutto nel cercare di generare dei figli e così assicurare alla loro
persona l'immortalità - questo essi credono - e la memoria di sé e la felicità
per tutto il tempo a venire. Altre persone, però, sono feconde nell'anima: c'è
infatti una fecondità propria del nostro spirito che a volte è superiore a
quella del corpo. Ecco qual è: è la forza creativa della saggezza e delle
altre virtù in cui il nostro spirito eccelle. Questa fecondità eccelle nei
poeti e in tutte le altre persone che per il loro mestiere devono usare la
creatività. Ma dove la saggezza tocca le vette più alte e più belle è
nell'ordinamento e nell'amministrazione della città attraverso la prudenza e la
giustizia. Quando un uomo fecondo nel suo animo, simile agli dèi, coltiva sin
da giovane il proprio spirito, e divenuto adulto sente il desiderio di mettere a
frutto le sue capacità, allora cerca in ogni modo la bellezza - perché mai
potrà essere creativo nella bruttezza. I suoi sentimenti si dirigono allora
verso le cose belle piuttosto che verso le brutte, proprio perché la sua anima
è feconda. Se incontra un'anima bella e generosa e sensibile, allora le dà
tutto il suo cuore: davanti a lei saprà trovare le parole giuste per esprimere
la sua forza interiore, per esaltare i doveri e le azioni di un uomo che vale:
così potrà guidarla educandola. E secondo me, attraverso il contatto con la
bellezza dell'anima dell'altro, con la sua costante presenza, potrà venire alla
luce quanto di meglio portava in sé da tempo: in questo senso la sua anima
crea, genera nuova vita. Che sia presente o assente, il suo pensiero va sempre
all'altro che ama e così nutre ciò che nel rapporto con lui in sé ha
generato. Tra gli esseri di questa natura si crea così una comunione più
intima di quella che si ha con una donna quando si hanno dei bambini, un affetto
più solido. Son più belle, in effetti, ed assicurano meglio l'immortalità, le
creature che nascono dalla loro unione. Chiunque vorrà senza dubbio mettere al
mondo simili creature piuttosto che bambini, se si pensa ad Omero, ad Esiodo e
agli altri grandi poeti. Si osserverà con invidia quale discendenza essi hanno
lasciato, capace di assicurar loro l'immortalità della gloria e della memoria,
perché anche i figli spirituali di quei grandi sono immortali. O ancora, se
vuoi - disse -, puoi pensare quale eredità Licurgo abbia lasciato agli Spartani
per la salvezza della loro città e, si può dire, della Grecia intera. Per le
stesse ragioni voi onorate Solone, il padre delle vostre leggi, e in tutti i
paesi - greci e barbari - sono onorati gli uomini che hanno prodotto grandi
opere, mettendo a frutto le più alte capacità del loro spirito. In onore di
quello che queste persone hanno saputo creare si sono già innalzati molti
templi, mentre questo non è mai accaduto fino ad oggi, per i figli nati
dall'amore di un uomo e di una donna. Ecco,
Socrate, le verità sull'amore alle quali tu puoi certamente essere iniziato. Ma
le rivelazioni più profonde e la loro contemplazione - il fine ultimo della
ricerca su Eros - non so se sono alla tua portata. Voglio però parlartene
egualmente, senza diminuire il mio sforzo. Cerca di seguirrni, almeno finché
puoi. Chi inizia il cammino che può portarlo al fine ultimo, sin da giovane
deve essere attento alla bellezza fisica. In primo luogo, se chi lo dirige sa
indirizzarlo sulla giusta strada, si innamorerà di una sola persona e troverà
con lei le parole per i dialoghi più belli. Poi si accorgerà che la bellezza
sensibile della persona che ama è sorella della bellezza di tutte le altre
persone: se si deve ricercare la bellezza che è propria delle forme sensibili,
non si può non capire che essa è una sola, identica per tutti. Capito questo,
imparerà a innamorarsi della bellezza di tutte le persone belle e a frenare il
suo amore per una sola: dovrà imparare a non valutare molto questa prima forma
dell'amore, a giudicarla di minor valore. Poi, imparerà a innamorarsi della
bellezza delle anime piuttosto che della bellezza sensibile: a desiderare una
persona per la sua anima bella, anche se non è fisicamente attraente. Con lei
nasceranno discorsi così belli che potranno elevare i giovani che li ascoltano.
E giunto a questo punto, potrà imparare a riconoscere la bellezza in quel che
fanno gli uomini e nelle leggi: scoprirà che essa è sempre simile a se stessa,
e così la bellezza dei corpi gli apparirà ben piccola al confronto. Dalle
azioni degli uomini, poi, sarà portato allo studio delle scienze, per coglierne
la bellezza, gli occhi fissi sull'immenso spazio su cui essa domina. Cesserà
allora di innamorarsi della bellezza di un solo genere, d'una sola persona o di
una sola azione - una forma d'amore che lo lascia ancora schiavo - e rinuncerà
così alle limitazioni che lo avviliscono e lo impoveriscono. Orientato ormai
verso l'infinito universo della bellezza, che ha imparato a contemplare, le sue
parole e i suoi pensieri saranno pieni del fascino che dà l'amore per il
sapere. Finché, reso forte e grande per il cammino compiuto, giungerà al punto
da fissare i suoi occhi sulla scienza stessa della bellezza perfetta, di cui
adesso ti parlerò. Sforzati
- mi disse Diotima - di dedicarti alle mie parole con tutta l'attenzione di cui
sei capace. Guidato fino a questo punto sul cammino dell'amore, il nostro uomo
contemplerà le cose belle nella loro successione e nel loro esatto ordine;
raggiungerà il vertice supremo dell'amore e allora improvvisamente gli apparirà
la Bellezza nella sua meravigliosa natura, quella stessa, Socrate, che era il
fine di tutti i suoi sforzi: eterna, senza nascita né morte. Essa non si
accresce né diminuisce, né è più o meno bella se vista da un lato o
dall'altro. Essa è senza tempo, sempre egualmente bella, da qualsiasi punto di
vista la si osservi. E tutti comprendono che è bella. La Bellezza non ha forme
definite: non ha volto, non ha mani, non ha nulla delle immagini sensibili o
delle parole. Non è una teoria astratta. Non è uno dei caratteri di qualcosa
di esteriore, per esempio di un essere vivente, o della Terra o del cielo, o non
importa di cos'altro. No, essa apparirà all'uomo che è giunto sino a lei nella
sua perfetta natura, eternamente identica a se stessa per l'unicità della sua
forma. Tutte le cose belle sono belle perché partecipano della sua bellezza, ma
esse nascono e muoiono - divenendo quindi più o meno belle - senza che questo
abbia alcuna influenza su di lei. Iniziando il proprio cammino dal primo gradino
della bellezza sensibile, l'uomo si eleva coltivando il suo fecondo amore per i
giovani e così impara a percepire in loro i segni della pura e perfetta
bellezza: allora potrà dire di non essere lontano dalla meta. Così, da soli o
sotto la guida di un altro, la perfetta via dell'amore ha inizio con la bellezza
sensibile ed ha per fine la contemplazione della Bellezza pura: l'uomo deve
salire come su una scala, da una sola persona bella a due, poi a tutte, poi
dalla bellezza sensibile alle azioni ben fatte e alla scienza, fino alla pura
conoscenza del bello, e ancora avanti sino alla contemplazione della Bellezza in
sé. Questo, mio caro Socrate - mi disse la straniera di Mantinea -, è il
momento più alto nella vita di una persona: l'attimo in cui si contempla la
Bellezza pura. Se la vedrai un giorno, al suo confronto sfioriranno le
ricchezze, i bei vestiti, i bei ragazzi che ti fanno girar la testa: eppure tu e
tanti altri accettereste di non mangiare né bere, per così dire, pur di
poterli ammirare e poter stare con loro. Cosa proverà l'anima allora nel
fissare la Bellezza pura, semplice, senza alcuna impurità, del tutto estranea
all'imperfezione umana, ai colori, alle vanità sensibili? Cosa proverà il
nostro spirito nel contemplare la Bellezza divina nell'unicità della sua forma?
Credi forse che possa ancora essere vuota la vita di un uomo che abbia fissato
sulla Bellezza il suo sguardo, contemplandola pur nei limiti dei mezzi che
possiede, ed abbia vissuto in unione con essa? Non pensi, disse, che solamente
allora, quando vedrà la bellezza con gli occhi dello spirito ai quali essa è
visibile, quest'uomo potrà esprimere il meglio di se stesso? Non una falsa
immagine egli contempla, infatti, ma la virtù più autentica, in piena verità.
Egli coltiva in sé la vera virtù e la nutre: non sarà forse per questo amato
dagli dèi? non diverrà tra gli uomini immortale?" Ecco,
Fedro, e voi tutti che mi ascoltate, quel che mi disse Diotima. Ed è riuscita a
convincermi, così come io - a mia volta - cerco di convincere gli altri: per
dare alla natura umana il possesso di ciò che è bene, non si troverà miglior
aiuto dell'Eros. Così - io lo dichiaro - ogni uomo deve onorare Eros; io onoro
l'amore che è in me, io mi consacro all'Eros ed esorto gli altri a fare
altrettanto. Per quanto è in mio potere fare, ora e sempre voglio esaltare la
forza dell'Eros, e il suo valore. Ecco il mio discorso, Fedro. Consideralo, se
vuoi, un elogio dell'Eros, altrimenti dagli il nome che vorrai." Questo
disse Socrate. Mentre tutti si complimentavano con lui e Aristofane cercava di
dirgli qualcosa perché Socrate di sfuggita aveva fatto una allusione al suo
discorso, ecco che si sentì bussare alla porta dell'atrio, e un gran vociare di
gente allegra, e la voce di una suonatrice di flauto. "Ragazzi
- disse Agatone - andate a vedere, presto. Se è uno dei miei amici, invitatelo
ad entrare. Altrimenti dite che abbiamo già finito di bere e che stiamo andando
a dormire." Un
istante più tardi si sentì nell'atrio la voce di Alcibiade, non più molto in
sé per il vino, che urlava a squarciagola. Domandava dove fosse Agatone, voleva
essere accompagnato da lui. E così lo accompagnarono nella sala e stava in
piedi solo perché la suonatrice di flauto e qualcun altro dei suoi compagni lo
sostenevano. Fermo sulla soglia, portava in capo una corona di edera e di viole,
la testa avvolta nei nastri: "Signori
- disse - buona sera! Accettereste un uomo completamente ubriaco per bere con
voi? oppure dobbiamo limitarci a mettere questa corona in testa ad Agatone e
andar via subito? Siamo venuti per questo, infatti. Ieri, in effetti non son
potuto venire. Vengo adesso con i nastri sulla testa per passarli dalla mia alla
testa dell'uomo che - nessuno si offenda - è il più sapiente e il più bello:
voglio proprio incoronarlo. Ah, ridete di me perché sono ubriaco! Ridete,
ridete, tanto lo so che è vero. Allora, mi volete rispondere? posso entrare o
no? volete o no bere con me?" Allora
tutti si misero ad applaudirlo, e gli dissero di entrare e prender posto in
mezzo a loro. Agatone lo chiamò, Alcibiade si diresse vero di lui, aiutato dai
suoi compagni, e cominciò a togliersi i nastri dalla fronte per incoronare
Agatone. Anche se ce l'aveva sotto gli occhi non si accorse di Socrate e andò a
sedersi accanto ad Agatone, quasi addosso a Socrate che dovette fargli posto. Si
sedette dunque in mezzo a loro, abbracciò Agatone e gli mise la corona sulla
testa. "Ragazzi
- disse Agatone - slacciate i sandali ad Alcibiade, che sia terzo in mezzo a
noi." "Benissimo
- disse Alcibiade - ma chi è terzo con noi?" Dicendo
così si voltò e c'era Socrate. Appena lo vide fece un balzo indietro e disse: "Per
Eracle, chi c'è qui? Socrate? Che tiro mi hai teso! sdraiato accanto a me! Ti
par questa la maniera di comparire quando uno meno se l'aspetta? E che ci vieni
a fare qui? Potevi metterti accanto ad Aristofane o a un altro che voglia far lo
spiritoso! E' che tu hai trovato il modo di sdraiarti accanto al più bello
della compagnia!" "Agatone,
per favore difendimi tu - dice Socrate -. Voler bene a quest'uomo non mi costa
certo poco. Dal giorno in cui mi sono invaghito di lui non ho più il diritto di
guardare un solo bel ragazzo, nemmeno di rivolgergli la parola. E' geloso,
invidioso, mi fa delle scene, me ne dice di tutti i colori e poco manca che me
le dia. Dunque, attenzione! Che non faccia adesso una scenata! Tenta di
riconciliarci tu o, se tenta di picchiarmi, difendimi perché la sua ira e la
sua follia d'amore mi fanno una paura terribile." "No
- disse Alcibiade -, è impossibile: tra te e me nessuna riconciliazione. E per
quel che hai detto faremo i conti un'altra volta. Per il momento. Agatone,
passami qualcuno di quei nastri, che cinga la sua testa, questa testa
meravigliosa. Voglio evitare che poi si lamenti che ho incoronato te mentre ho
lasciato senza corona lui, che per i suoi discorsi vince tutti sempre, e non
solamente una volta come te ieri." Dicendo
questo prese dei nastri, incoronò Socrate e poi si sdraiò. Si mise comodo e
disse: "Amici
miei, avete proprio l'aria di voler far gli astemi. Ma questo non vi è
permesso: bisogna bere, l`abbiamo convenuto tra noi! Sarò io il re del
simposio, finché voi non avrete bevuto a sufficienza. Allora, Agatone, fammi
portare una coppa, una grande, se c'è. No, no, non c'è bisogno. Ragazzo - dice
- portami quel vaso per tenere il vino in fresco." Ne
aveva appena visto uno, che teneva otto cotili abbondanti. Lo fece riempire e
bevve per primo. Poi ordinò di servire Socrate, dicendo: "Con
Socrate, amici miei, non c'è niente da fare: quanto vorrà bere berrà, e non
ci sarà verso di farlo ubriacare." Il
servo allora portò il vino a Socrate che si mise a bere, mentre Erissimaco
chiedeva: "E
poi cosa facciamo, Alcibiade? Restiamo così, senza parlare di niente, la coppa
in mano, senza cantare niente? beviamo soltanto, come degli assetati?" "Erissimaco
- gli fa Alcibiade -, grande figlio di un padre grande e saggio, io ti
saluto." "Ti
saluto anch'io - dice Erissimaco -. E adesso cosa dobbiamo fare?" "Siamo
tutti ai tuoi ordini perché un medico, da solo, vale molti uomini. Obbediremo
dunque ai tuoi desideri." "E
allora ascoltami - dice Erissimaco -. Prima che tu arrivassi, avevamo deciso che
ciascuno al suo turno, andando da sinistra verso destra, avrebbe fatto un
discorso sull'Eros, il più bel discorso d'elogio. Noi l'abbiamo già fatto,
adesso tocca a te, perché hai bevuto ed è giusto che anche tu faccia il tuo
discorso. Poi ordina a Socrate quel che vuoi, e lui farà lo stesso con chi sta
alla sua destra e così via." "Ben
detto, Erissimaco - risponde Alcibiade -. Solo che se uno ha bevuto troppo, non
può dire cose che stanno alla pari con chi è sobrio. E poi c'è Socrate: credi
forse una sola parola di quel che ha appena detto? non lo sai che è tutto il
contrario? Perché lui, se in sua presenza faccio l'elogio di qualcuno, d'un dio
o di un'altra persona che non sia lui, non ci pensa due volte a menarmi." "Ma
che dici!", gli fa Socrate. "Per
Poseidone - dice Alcibiade -, è inutile che protesti, perché in tua presenza
io non posso fare l'elogio di nessuno, se non di te." "E
allora fa così - dice Erissimaco -, se vuoi: fa un elogio di Socrate." "Che
dici? - riprese Alcibiade - tu credi che dovrei... Vuoi che me la prenda con un
tipo così e mi vendichi davanti a voi?" "Ma
ragazzo, che ti passa per la testa? - dice Socrate. Perché mai vuoi fare il mio
elogio? per prendermi in giro?" "Voglio
solo dire la verità: a te accettare o meno." "La
verità? Benissimo, allora accetto. Anzi ti chiedo io di dirla." "Presto
fatto - dice Alcibiade -. Quando a te, ti assegno un compito: se dico qualche
cosa che non è vera, tronca a metà le mie parole, se vuoi, e dimmi che su
quella cosa lì io mento, perché io volontariamente non racconterò certo delle
balle. Però mescolerò un po' tutto nel mio discorso, e tu non meravigliarti,
perché tu sei proprio un bel tipo e non è certo facile nello stato in cui
sono, ricordare con ordine proprio tutto. Per
fare l'elogio di Socrate, amici, ricorrerò a delle immagini. Son sicuro che lui
penserà che voglia scherzare, e invece sono serissimo, perché voglio dire la
verità. Io dichiaro dunque che Socrate è in tutto simile a quelle statuette
dei sileni che si vedono nelle botteghe degli scultori, con in mano zampogne e
flauti. Se si aprono, dentro si vede che c'è la statua di un dio. E aggiungo
che ha tutta l'aria di Marsia, il satiro: eh sì, Socrate, gli somigli proprio,
non vorrai negarlo! E non solo nell'aspetto! Ascoltami bene: non sei forse
sempre tracotante? Se lo neghi, io produrrò dei testimoni. Ma,
si dirà, Socrate è forse un suonatore di flauto? Sì, e ben più bravo di
Marsia. Lui incantava tutti con quel che riusciva a fare col flauto, tanto che
ancora oggi chi vuol suonare le sue arie deve imitarlo. Anche le musiche di
Olimpo, io dico che erano di Marsia, il suo maestro. Le sue arie, suonate da un
grande artista o da una ragazzina alle prime armi, sono sempre le sole capaci di
incantarci, di farci sentire quanto bisogno abbiamo degli dèi: ci vien voglia
di essere iniziati ai misteri, perché quelle musiche sono divine. Tu, Socrate,
sei diverso da Marsia solo in questo, che non hai affatto bisogno di strumenti
musicali per ottenere gli stessi risultati: ti bastano le parole. Una cosa è
certa e dobbiamo dirla: quando ascoltiamo un altro oratore, il suo discorso non
interessa quasi nessuno. Ma ascoltando te, o un altro - per mediocre che sia -
che riporta le tue parole, tutti, ma proprio tutti, uomini, donne, ragazzi,
siamo colpiti al cuore: qualcosa che non ci fa star tranquilli si impadronisce
di noi. Quanto
a me, amici, non vorrei sembrarvi del tutto ubriaco, ma bisogna che vi dica -
come se fossi sotto giuramento - quale impressione ho avuto nel passato, ed ho
ancora, ad ascoltare i suoi discorsi. Quando lo sento parlare, il mio cuore si
mette a battere più forte di quello dei Coribanti in delirio e mi emoziono sino
alle lacrime: e ne ho vista di gente provare le stesse emozioni. Ora, ascoltando
Pericle ed altri grandi oratori, mi accorgevo certo che parlavano bene, ma non
provavo niente di simile: la mia anima non era travolta, non sentiva il peso
della schiavitù in cui era ridotta. Ma lui, questo Marsia, mi ha spesso messo
in un tale stato da farmi sembrare impossibile vivere la mia vita normale - e
questo, Socrate, non dirai che non è vero. E ancora adesso - lo so benissimo -
se accettassi di prestar ascolto alle sue parole, non potrei fanne a meno:
proverei le stesse emozioni. Socrate con i suoi discorsi mi obbliga a
riconoscere i miei limiti: io non cerco di migliorare me stesso, e continuo lo
stesso ad occuparmi degli affari degli Ateniesi. Devo quindi fare violenza a me
stesso, tapparmi le orecchie come se dovessi fuggire dalle Sirene, devo andar
via per evitare di passare con lui il resto dei miei giorni. Soltanto davanti a
lui ho provato un sentimento che nessuno si aspetterebbe di trovare in me: io ho
avuto vergogna di me stesso. Socrate è il solo uomo davanti al quale io mi sia
vergognato. E questo perché mi è impossibile - ne sono perfettamente cosciente
- andargli contro, dire che non devo fare quello che mi ordina; ma appena mi
allontano, cedo al richiamo degli onori della folla intomo a me. Allora mi
nascondo, come uno schiavo scappo via, ma quando lo rivedo mi vergogno per quel
che prima ero stato costretto ad ammettere. Ci sono volte che non vorrei più
vederlo al mondo, ma se questo accadesse so che sarei infelicissimo. Così, io
non so proprio che cosa fare con quest'uomo. Ecco
l'effetto delle sue arie da flauto, su di me e su tanti altri: ecco cosa questo
satiro ci fa subire. Ma ascoltate ancora: voglio proprio mostrarvi come somigli
alle statuette a cui l'ho già paragonato, e come il suo potere sia
straordinario. Sappiatelo per certo: nessuno di voi lo conosce davvero e io,
siccome ho già cominciato, voglio mostrarvelo sino in fondo. Guardatelo:
Socrate ha un debole per i bei ragazzi, non smette mai di girar loro attorno,
perde la testa per loro. D'altra parte lui ignora tutto, non sa mai niente -
questa almeno è l'immagine che vuol dare. Non è questa la maniera di fare di
un sileno? Sì certo, perché questa è l'immagine esterna, come quella della
statuetta di sileno. Ma all'interno? Una volta aperta la statuetta, avete idea
della saggezza che nasconde? Amici miei, sappiatelo: che uno sia bello, a lui
non interessa affatto, non se ne accorge neppure - da non credersi - e lo stesso
accade se uno è ricco o ha tutto quello che la gente ritiene invidiabile avere.
Per lui, tutto questo non ha alcun valore, e noi non siamo niente ai suoi occhi,
ve lo assicuro. Passa tutta la sua giornata a fare il sornione, trattando con
ironia un po' tutti. Ma quando diventa serio e la statuetta si apre, io non so
se avete mai visto che immagini affascinanti contiene. Io le ho viste, simili
agli dèi, preziose, perfette e belle, straordinarie: e così mi son sentito
schiavo della sua volontà. Ero
giovane, e credevo seriamente che lui fosse preso dalla mia bellezza; ho creduto
fosse una fortuna per me, e un'occasione da non lasciar scappare. Ero veramente
fiero della mia bellezza e così speravo che, ricambiando il suo interesse,
avrei potuto aver parte della sua saggezza. Convinto
di questo, una volta allontanai il mio servitore - di solito ce n'era sempre
qualcuno quando vedevo Socrate, e non eravamo mai soli - e così restai da solo
con lui. Devo proprio dirvi tutta la verità: ascoltatemi bene, e tu Socrate, se
non dico bene correggimi. Eccomi dunque con lui, amici, da soli. Io credevo che
avrebbe ben presto cominciato a parlare come si parla fra innamorati, e ne ero
felice. Invece non fa assolutamente niente. Parla con me come sempre, restiamo
tutto il giorno insieme, poi se ne va. Allora lo invitai a far esercizi di
ginnastica con me, e così ci esercitavamo insieme: io speravo proprio di
concludere qualcosa. Facemmo ginnastica insieme per un certo tempo, e spesso
facevamo la lotta, ed eravamo soli. Che dirvi? Nessun passo avanti. Non
riuscendo a niente con questi sistemi, pensai allora di puntar dritto al mio
scopo. Non volevo affatto lasciar perdere, dopo essenmi lanciato in questa
impresa: dovevo subito vederci chiaro. Lo invito dunque a cena, come un
innamorato che tende una trappola al suo amato. Ma non accettò subito, anzi ci
mise un po' di tempo a convincersi. La prima volta che venne, volle andar via
subito dopo cena. Io, che mi vergognavo un po', lo lasciai andare. Ma feci un
secondo tentativo: e in quell'occasione dopo cena io prolungai la conversazione,
senza tregua, fino a notte fonda. Così quando lui volle andarsene, con la scusa
che era tardi lo convinsi a restare. Era
dunque coricato sul letto accanto al mio, là dove avevamo cenato, e nessun
altro dormiva con noi. Fin qui, quel che ho raccontato potrei dirlo davanti a
tutti. Ma quel che segue voi non me lo sentireste affatto dire se, come dice il
proverbio, nel vino (bisogna o no parlare con la bocca dell'infanzia?) non ci
fosse la verità. Del resto non mi par giusto lasciare in ombra quel che di
meraviglioso fece Socrate, proprio adesso che ne sto facendo l'elogio. E poi io
sono come uno morso da una vipera: queste persone, si dice, non raccontano
affatto quel che han passato, se non ad altri che sono stati anch'essi morsi,
perché solo loro possono comprendere, e scusare tutto ciò che si è osato fare
o dire per l'angoscia del dolore. E io son stato morso da un dente più crudele,
e in una parte della persona che aumenta la crudeltà: nel cuore, nell'anima
(poco importa il nome). La filosofia con i suoi discorsi mi ha trafitto col suo
morso, che penetra più a fondo del dente della vipera quando si impadronisce
dell'anima di un giovane non privo di talento e gli fa fare e dire ogni sorta di
stravaganze - ed eccomi qua con Fedro, con Agatone, con Erissimaco, con
Pausania, con Aristodemo, ed anche con Aristofane, senza parlare di Socrate, e
con tanti altri, tutti attenti come me al delirio filosofico e alla sua forza
dionisiaca. Vi
chiedo dunque d'ascoltarmi perché certo mi perdonerete per quel che ho fatto
allora e per quel che dico oggi. E voi servitori, voi tutti che siete profani,
se state ascoltando, tappatevi le orecchie con le porte più spesse. E
allora, miei amici, quando la lampada fu spenta e i servi se ne furono andati,
io pensai che non dovevo più giocare d'astuzia con lui, ma dire francamente il
mio pensiero. Gli dissi allora, scuotendolo: "Dormi,
Socrate?" "Per
nulla", rispose. "Sai
cosa penso?" "Che
cosa?" "Penso
che tu saresti un amante degno di me, il solo che lo sia, e vedo che esiti a
parlarne. Quanto ai miei sentimenti, mi son convinto di questo: che è stupido,
io credo, non cedere ai tuoi desideri in questo, come in ogni cosa in cui tu
avessi bisogno, la mia fortuna o i miei amici. Niente, infatti, è più
importante ai miei occhi che migliorare il più possibile me stesso, e io penso
che su questa strada nessuno mi può aiutare più di te. Quindi mi vergognerei
dinnanzi alle persone sagge di non cedere ad un uomo come te più di quanto mi
vergognerei dinnanzi alla massa degli ignoranti di cedere." Mi
ascolta, prende la sua solita aria ironica e mi dice: "Mio
caro Alcibiade, se quel che dici sul mio conto è vero, se ho davvero il potere
di renderti migliore, devo dire che ci sai proprio fare. Tu vedi senza dubbio in
me una bellezza fuori del comune e ben differente dalla tua. Se l'aver visto
questo ti spinge a legarti a me e a scambiare bellezza con bellezza, il guadagno
che tu pensi di fare alle mie spalle non è affatto piccolo. Tu non vuoi più
possedere l'apparenza della bellezza, ma la bellezza reale, e quindi sogni di
scambiare - non c'è dubbio - il rame con l'oro. Eh no, mio bell'amico, guarda
meglio! T'illudi sul mio conto: io non sono niente. Lo sguardo della mente
comincia davvero a esser penetrante quando gli occhi cominciano a veder meno: e
tu sei ancora molto lontano da quel momento." Al
che io rispondo: "Per
quel che mi riguarda, sia ben chiaro, io non ho detto niente che non penso. A
te, adesso, decidere ciò che è meglio per te e per me." "Hai
ragione - mi fa -. Nei prossimi giorni noi ci chiariremo, e agiremo nella
maniera che sem brerà migliore ad entrambi, su questo punto come su tutto il
resto." Dopo
questo dialogo, io credevo di aver lanciato un dardo che l'avesse trafitto. Mi
alzai e, senza permettergli di reagire, stesi su di lui il mio mantello - era
inverno - e mi allungai sotto il suo, ormai vecchio, e presi tra le mie braccia
quest'essere veramente meraviglioso, divino, e restai con lui tutta la notte.
Adesso non dirai che mento, Socrate. Ma tutto questo dimostra quanto lui fosse
più forte: non degnò di uno sguardo la mia bellezza, non se ne curò affatto,
fu quasi offensivo in questo. E dire che credevo di non essere affatto male,
miei giudici (sì, giudici della tracotanza di Socrate). Ebbene sappiatelo - ve
lo giuro sugli dèi e sulle dee - io mi alzai dopo aver donmito a fianco di
Socrate senza che nulla fosse accaduto, come se avessi dormito con mio padre o
con mio fratello maggiore. Immaginate
il mio stato d'animo! Certo, mi ero quasi offeso, ma apprezzavo il suo
carattere, la sua saggezza, la sua forza d'animo. Avevo trovato un essere dotato
di un'intelligenza e di una fermezza che avrei credute introvabili: e così non
potevo prendermela con lui e privarmi della sua compagnia, né d'altra parte
vedevo come attirarlo dove volevo io. Sapevo bene che era totalmente
invulnerabile al denaro, più di Aiace davanti alle armi. Sul solo punto in cui
credevo si sarebbe lasciato catturare, ecco, era appena fuggito. Insomma,
completamente schiavo di quest'uomo, come mai nessuno lo è stato d'altri, gli
giravo vanamente attorno. Tutto
questo accadde prima della spedizione di Potidea. Entrambi vi partecipammo, e
prendemmo anche i pasti insieme. Quel che è certo, è che resisteva alle
fatiche non solo meglio di me, ma di tutti gli altri. Quando capitava che le
comunicazioni fossero intenrotte in qualche punto, e in guerra succede, e noi
restavamo senza mangiare, nessun'altro aveva tanta resistenza alla fame. Al
contrario, se eravamo ben riforniti, sapeva approfittarne meglio degli altri, in
particolare per bere; non che ci fosse portato, ma se lo si forzava un po', lui
poi superava tutti e - cosa assai strana - nessuno ha mai visto Socrate ubriaco.
E credo che questa notte stessa avrete la prova di quanto dico. Quanto al freddo
- e nella zona di Potidea gli inverni sono terribili - Socrate è del tutto
straordinario. Vi racconto un episodio. Era un giorno di terribile gelo, quanto
di peggio potete immaginare, uno di quei giorni in cui tutti evitano di uscire e
se lo fanno si infagottano tutti, i piedi avvolti in panni di feltro o in pelli
di agnello. Socrate se ne uscì coperto solo dal mantello che porta sempre
andando a piedi nudi sul ghiaccio con più tranquillità di quelli che avevano
le scarpe: e così i soldati lo guardavano di traverso, perché pensavano li
volesse umiliare. E
c'è dell'altro da dire. "E' straordinario ciò che fece e sopportò il
forte eroe", laggiù in guerra: val veramente la pena di sentire la
storia che ho da raccontare. Un giorno si mise a meditare sin dal primo mattino,
e restava fermo a seguire le sue idee. Non riusciva a venire a capo dei suoi
problemi, e così stava lì, in piedi, a riflettere. Era già mezzogiorno e gli
altri soldati l'osservavano, stupiti, e la voce che Socrate era in piedi a
riflettere sin dal mattino presto cominciò a circolare; finché, venuta la
sera, alcuni soldati della Ionia dopo cena portarono fuori i loro letti da campo
- era estate - e si sdraiarono al fresco, a guardar Socrate, per vedere se
avrebbe passato la notte in piedi. E così fece, sino alle prime luci del
mattino. Solo allora se ne andò, dopo aver elevato una preghiera al Sole. Adesso,
se volete, dobbiamo dir qualcosa della sua condotta in combattimento - perché
anche su questo punto bisogna rendergli giustizia. Quando ci fu lo scontro per
il quale i generali mi assegnarono un premio per il mio coraggio, riuscii a
salvarmi proprio per merito suo. Ero ferito, lui si rifiutò di abbandonarmi e
riuscì a salvare sia me che le mie armi. Allora io chiesi ai generali di
assegnare il premio a te: non potrai certo, Socrate, dire adesso che io mento, e
neppure rimproverarmi per quel che dico. Ma i generali, considerando la
posizione in cui ero, volevano dare a me il premio, e tu hai personahnente
insistito più di loro perché il premio invece andasse a me. Ricordo un'altra
occasione, amici, in cui valeva la pena di vedere Socrate: fu quando il nostro
esercito a Delio fu messo in rotta. In quell'occasione fu il caso a farmelo
incontrare. Io ero a cavallo, e lui era oplita. Stava ripiegando insieme a
Lachete, tra le truppe sbandate, quando io capito lì per caso, li vedo e per
incoraggiarli dico loro che non li avrei abbandonati. In quell'occasione ho
potuto osservare Socrate ancora meglio che a Potidea, perché avevo meno da
temere, essendo a cavallo. Aveva più sangue freddo di Lachete - e quanto! - e
dava l'impressione (uso le tue parole, Aristofane) di avanzare come se si
trovasse in una strada d'Atene "sicuro di sé, gettando occhiate di
fianco", osservando con occhio tranquillo amici e nemici e facendo
vedere chiaramente, e da lontano, che si sarebbe difeso sino in fondo se
qualcuno avesse voluto attaccarlo. E così andava senza mostrare alcuna
inquietudine, insieme con il suo compagno: gli opliti che, in simili situazioni,
si comportano in questa maniera di solito non vengono affatto attaccati dai
nemici, che invece inseguono chi scappa in disordine. Molti
altri aspetti del carattere di Socrate potrebbero essere oggetti di un elogio,
perehé sono veramente ammirevoli. Riguardo a queste cose, però, anche altri
uomini probabilmente meritano gli stessi elogi. C'è qualcosa in Socrate,
invece, che lo rende meravigliosamente unico, assolutamente diverso da tutti gli
altri uomini del passato e del presente. Infatti, volendo, si può trovare
l'immagine di Achille in Brasida e in altri, Pericle può ricordare Nestore o
Antenore, e questi casi non sono isolati: si possono fare paragoni simili a
proposito di tanti altri. Ma l'incredibile di quest'uomo è che lui e i suoi
discorsi non hanno paragoni né nel passato né oggi, per quanto si cerchi con
attenzione, a meno che non lo si voglia paragonare come facevo io prima: non ad
altri uomini, ma ai sileni e ai satiri - che si tratti di lui o delle sue
parole. Sì, perché c'è una cosa che ho dimenticato di precisare: anche i suoi
discorsi sono simili alle statuette dei sileni che si aprono. Infatti,
se si ascolta quel che dice Socrate, a prima vista le sue parole possono
sembrare quasi comiche, tutte intrecciate con strani discorsi: esteriormente
ricordano proprio gli intrecci della pelle di un satiro insolente. Parla di
asini da soma, di fabbri, di sellai, di conciatori di pelli, ed ha sempre l'aria
di dire le stesse cose con le stesse parole. Chi non sa o è poco attento, c'è
caso che rida dei suoi discorsi. Ma se li apri e li osservi bene, penetrandone
il senso, scopri che solo le sue parole hanno un loro senso profondo: parla come
un dio, e la folla delle immagini che usa, affascinanti, rimandano sempre alla
virtù. Chi lo ascolta è portato verso le cose più alte; anzi, meglio, è
guidato a tenere sempre davanti gli occhi tutto quel che è necessario per
diventare un uomo che vale. Ecco,
amici, il mio elogio di Socrate. Quanto ai rimproveri che ho da fargli, li ho
mescolati al racconto di quel che mi ha combinato. Del resto non sono il solo
che ha trattato in questo modo: ha fatto lo stesso con Carmide, il figlio di
Glaucone, con Eutidemo, il figlio di Dioele, tutta gente che ha ingannato con la
sua aria da innamorato, con la conseguenza che furono loro ad innamorarsi di
lui. Io ti avverto, Agatone: non farti ingannare da quell'uomo! Che la nostra
esperienza ti sia di monito! Che non accada come dice il proverbio: "l'ingenuo
fanciullo non impara che soffrendo". Quando
Alcibiade ebbe parlato così, l'ilarità fu generale, anche perché s'era capito
ch'era ancora innamorato di Socrate. E così Socrate gli disse: "Tu
non hai affatto l'aria d'aver bevuto, Alcibiade. Altrimenti non avresti fatto un
discorso così sottile, tutto fatto per nascondere il tuo vero obiettivo, che è
venuto fuori solo alla fine: ne hai parlato come se fosse una cosa secondaria, e
invece tu hai fatto tutto un lungo discorso solo per cercar di guastar
l'amicizia tra Agatone e me. E tutto perché sei convinto che io debba amare
solo te, nessun altro che te, e che Agatone debba essere amato soltanto da te,
da nessun altro che da te. Ma non t'è andata bene: il tuo dramma satiresco, la
tua storia di sileni, abbiamo capito tutti cosa significhi. E allora, mio caro
Agatone, bisogna che lui non vinca a questo gioco: sta ben attento che nessuno
possa mettersi tra me e te." E
Agatone di rimando: "Hai
detto proprio la verità, Socrate. E ne ho le prove: si è venuto a sdraiare
proprio tra te e me, per separarci. Ma non ci guadagnerà niente a far così,
perché io torno proprio a mettermi accanto a te." "Oh,
bene, - disse Socrate - ti voglio proprio vicino!" "Per
Zeus, - disse Alcibiade - quante me ne fa passare quest'uomo! Pensa sempre come
fare per aver l'ultima parola con me. Socrate, sei proprio straordinario! Ma
lascia almeno che Agatone stia tra noi due." "E'
impossibile - disse Socrate -. Perché tu hai appena fatto il mio elogio, e io
devo a mia volta far quello della persona che sta alla mia destra. Quindi, se
Agatone si mette al tuo fianco, alla tua destra, dovrà mettersi a fare il mio
elogio prima che io abbia fatto il suo. Lascialo piuttosto stare dov'è, mio
divino amico, e non essere geloso se faccio il suo elogio, perché desidero
proprio cantare le sue lodi." "Bravo!
- disse Agatone -. Lo vedi tu stesso, Alcibiade: non è proprio possibile che
resti qui. Voglio a tutti i costi cambiar posto, e ascoltare il mio elogio da
Socrate." "Ecco
- disse Alcibiade -, finisce sempre così. Quando c'è Socrate, non c'è posto
che per lui accanto ai bei ragazzi. Guarda che razza di ragione ha saputo
trovare adesso per farselo stare vicino!" Agatone
si era alzato per andarsi a mettere accanto a Socrate, quando all'improvviso
tutta una banda di gente allegra spuntò dalla porta. Qualcuno era uscito e
l'avevano trovata aperta, e così erano entrati e s'erano uniti alla compagnia.
Gran baccano in tutta la sala: senza più alcuna regola, si bevve allegramente
un sacco di vino. Allora,
mi disse Aristodemo, Erissimaco, Fedro e qualcun altro andò via. Lui,
Aristodemo, fu preso dal sonno e dormì tanto, perché le notti erano lunghe. Si
svegliò ch'era giorno e i galli già cantavano. Alzatosi, vide che gli altri
dormivano o erano andati via. Solo Agatone, Aristofane e Socrate erano ancora
svegli e bevevano da una gran coppa che si passavano da sinistra a destra. Socrate
chiacchierava con loro. Aristodemo non ricordava, mi disse, il resto della
conversazione, perché non aveva potuto seguire l'inizio e dormicchiava ancora
un po'. Ma in sostanza, disse, Socrate stava cercando di convincere gli altri a
riconoscere che un uomo può riuscire egualmente bene a comporre commedie e
tragedie, e che l'arte del poeta tragico non è diversa da quella del poeta
comico. Loro furono costretti a dargli ragione, ma non è proprio che lo
seguissero del tutto: stavano cominciando a dormicchiare. Il primo ad
addonmentarsi fu Aristofane, poi, ormai in pieno giorno, s'addormentò anche
Agatone. Allora
Socrate, visto che si erano addormentati, si alzò e andò via. Aristodemo lo
seguì, come sempre faceva. Socrate andò al Liceo, si lavò e passò il resto
della giornata come sempre faceva. Dopo, verso sera, se ne andò a casa a
riposare. |