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PLATONE
E L'EROS: "L'UNO CHE ERAVAMO". L'AMORE E LA MORTE TRA ORFEO, EURIDICE,
DON GIOVANNI.
Panofsky
in Studies on Iconology commenta un quadro di uno sconosciuto autore barocco:
Cupido viene dipinto bendato da un lato e dall'altro cieco. E' l'immagine
dell'irrazionalità, il cieco che acceca. L'amore è il contrario di razionalità
e conoscenza: questo nel '600, ma tale contrapposizione tra eros e conoscenza
non è presente nel pensiero occidentale che passa in questo senso per tappe
decisive: Platone, S. Agostino, S. Tommaso, Kierkegaard.
Secondo questi filosofi non solo non c'è contrapposizione tra amore e
conoscenza, ma c'è anzi un rapporto incrementale: l'amore è la base della
conoscenza come la conoscenza lo è dell'amore.
Platone tratta dell'amore in tre dialoghi: Simposio, Fedro, Liside. Per il
filosofo greco l'amore si identifica con "l'amore verso il sapere",
dunque con la filosofia.
"Filosofia" è "amore della conoscenza". Dunque l'amore e la
conoscenza si unificano e si identificano in essa.
Nel Fedro si succedono due diversi discorsi di Socrate sull'amore. Il primo
discorso Socrate dice di averlo ascoltato da Lisia: l'amore è "manìa","follia
sacra". Il filosofo riconferma questo carattere ma mostra come l'amore,
proprio in quanto "sacra follia", aiuta gli uomini nel processo di
redenzione, di "ritorno indietro", là dove l'anima si libera dal
corpo e contempla la pura essenza dell'essere. La "manìa"è il più
grande tra i doni divini, è una forma di "mantiké, è possessione da
parte del dio. Eros non ci incatena, ma ci consente di affrancarci dal
"soma - sema" il "corpo - tomba":attraverso la bellezza
fisica, ci spinge a contemplare la bellezza dell'intelligibile.
Nel Simposio, dove il rigore dell'analisi si accompagna all'intento educativo,
amore e filosofia sono indissolubili. Vi è un itinerario razionale e
misteriosofico da percorrere per colui che vuole entrare nel tempio in cui è
svelata la verità sull'amore. Il dialogo avviene nell'ambito del "simposion",
un rito con le sue regole, presieduto da Dioniso, la divinità più enigmatica
che la cultura greca abbia proposto. Il simposio avviene una volta che il
banchetto è terminato:gli uomini di condizione libera, di età matura,
sorseggiano del vino. Il discorso si svolge in maniera tale che ognuno dica la
sua sull'amore, tra gli altri è presente il commediografo Aristofane, che non
può parlare perché afflitto dal singhiozzo. Allora Platone si rivolge a
Erissimaco, medico della tradizione ippocratica. Erissimaco consiglia ad
Aristofane di starnutire per ristabilire il "kosmos", l'armonia
naturale del suo corpo. Calmato il singhiozzo, il commediografo può dire la sua
sull'amore. Egli racconta un mito: la nostra antica natura non è quella che noi
abbiamo oggi, poiché in origine gli uomini avevano forma sferica, quattro arti
interiori, quattro arti superiori, due teste e due sessi, erano "forti,
fortissimi, perfetti". Si muovevano come saltimbanchi, ruotando sugli arti.
Per la loro forza si comportarono con "hybris", "tracotanza"
verso Zeus. Egli li punì e, per ridurne la superbia, intervenne tagliando a metà
gli uomini originari. Da quel momento ciascuno di noi è un "simbolon",
"ciò che è per essere ricostituito in unità". Ciascuno anela a
ricostruire l'intero di cui siamo solo una parte, "e mai ci si potrà
placare nella ricerca di quell'uno che eravamo".
Eros ci spinge verso questo obiettivo finale, che è anche "l'arché",
il principio da cui veniamo. L'amore non è dunque malattia, ma ciò che ci
conduce a risanarci dal 'taglio' originario. Pensiamo di perdere una parte di
noi nel rapporto di coppia, ma, in realtà, solo nel rapporto con l'altro
acquistiamo l'altra parte di noi. Nessun amore --- dice Aristofane --- è contro
natura, poiché ogni uomo può formare il suo "tutto" in maniera
differente. Eros è la forza che ci spinge a trovare la completezza perduta, non
qualcosa che ci svilisce.
Simone Weil diceva di Platone: "Platone è un mistico, l'ultimo dei mistici
dell'età d'oro greca, erede dei misteri pitagorici e orfici".
La scoperta dell'alterità è la via privilegiata per la riscoperta di se
stessi. Heidegger definiva l'amore "tensione all'alterità, verso qualcosa
che è indicibilmente, irriducibilmente lontano: gli amanti si guardano da
lontano".
Un mito che si può ricollegare all'androgino platonico è quello di Orfeo ed
Euridice.
La vicenda ci viene testimoniata per la prima volta in un passo dell' Alcesti di
Euripide. Nel Simposio Platone accenna al mito come esempio del fatto che solo
chi ama è disposto a morire per l'altro. Platone cita due esempi per confermare
questo asserto: 1) il caso di Alcesti, capace di sacrificare la propria vita per
l'amato. Perciò gli dei permettono che la sua anima torni dall'Ade. 2) Il mito
di Orfeo: di lui si dice che "si era mostrato troppo fiacco e non aveva
avuto il coraggio di morire per amore come Alcesti". Alcesti verrà
premiata, Orfeo ucciso. Troviamo il nome di Orfeo nelle ricostruzioni fatte nel
periodo arcaico del viaggio degli Argonauti.:anche lui faceva parte di questa
spedizione che tentava l'impossibile. Secondo un'altra tradizione Orfeo sarebbe
l'eponimo dei miti orfici, alternativa alla religione olimpica. Egli appare
sempre nel contesto di imprese spinte al limite dell'umano. Infatti i miti e i
riti orfico - pitagorici e il mito degli Argonauti si pongono "in
limine" nel rapporto tra la vita e la morte. Orfeo appare come una figura
di transito che ci accompagna nel passaggio attraverso la morte, "il
tenebroso luminoso". E' anche l'eponimo della musica, colui che avrebbe
inventato la cetra. Conone di Samo, astronomo - letterato alessandrino, connette
il mito di Orfeo ed Euridice a quello di Eco e Narciso: Orfeo, alla ricerca di
Euridice, riesce ad intenerire col canto le divinità ctonie. In prossimità
dell'uscita dell'Ade inopinatamente si volta ed Euridice è risucchiata
dagl'Inferi. Egli sarebbe divenuto, secondo Conone, inventore della pederastia
per consolarsi della perdita dell'amata e poi sarebbe stato ucciso durante un
rito di "sparagmos", "squartamento", dalle Baccanti. Dunque
il mito ha un esito infelice a causa del "guardare": anche nella
storia notissima di Narciso il "guardare" è fonte di un esito
infelice. Secondo numerosi studiosi, in origine il mito di Orfeo aveva una
simile conclusione.
Le uniche versioni complete del mito si devono a Virgilio (Georgiche, libro IV)
e Ovidio (Metamorfosi). In Virgilio il mito di Orfeo ed Euridice è suggello
delle Georgiche. L'epillio in cui viene introdotta la storia di Orfeo è
l'episodio di Aristeo, inventore della "bugonìa", processo per il
quale dal corpo in decomposizione di un animale morto nascevano le api, dunque
la vita. Aristeo, inseguendo Euridice preso dalla voglia di possederla, ne
provoca la morte. Scopre la "bugonìa" che gli consente di ricreare la
vita, non quella di Euridice, ormai perduta per sempre, ma quella delle api,
simbolo esse stesse di giovinezza e di riproduzione. Attraverso questo mito
Virgilio intende esaltare la coltivazione dei campi, impegnato com'è a
cooperare nel disegno di Augusto di rigenerazione dell'impero, a tracciare le
regole morali e religiose di un "kosmos" ordinato. Plutone e
Proserpina sono i custodi delle leggi dell'Ade: Orfeo guarda l'amata perché la
ama: "respicere", il verbo usato da Virgilio, vuol dire non solo
"guardare", ma anche, in senso polivalente, "prendersi cura della
persona che si guarda" (Bettini). Il patto sigillato tra Orfeo e l'Ade è
impossibile da mantenere. Ade e Proserpina hanno ingannato Orfeo, stipulando,
con la finzione di volerlo aiutare, un patto che non si potrà realizzare. Il
messaggio che Virgilio intende dare, attraverso la presentazione del mito, si
ricollegherebbe al rapporto tra il poeta e la politica augustea: bisogna
accettare le leggi irremovibili. Orfeo è costretto a vivere nel patto con l'Ade
una grande contraddizione, che si materializzerà nell' apice finale, lo "sparagmos"
delle Baccanti.
Nel 1630 viene pubblicato l'archetipo del Don Giovanni, la commedia di Tirso de
Molina dal titolo originale El burlador de Sevilla. Tirso in realtà non è il
primo autore che si occupi della storia di don Giovanni: egli organizza infatti
una molteplicità di materiali folklorici. Carattere tipico del mito di don
Giovanni è la punizione da parte di un morto, l'"altro" che ritorna,
nella fattispecie della "statua del commendatore". Aristotele parla
dell'assassinio del re Miti: il suo uccisore viene punito dalla statua dello
stesso Miti che gli crolla addosso: il ritorno del morto, ucciso dal
protagonista, che torna per vendicarsi e uccide il suo uccisore, è elemento
mitico del don Giovanni, come anche la quantità di donne che lo circondano.
Si può tentare una periodizzazione del mito di don Giovanni:
1) 1630 - 1700: don Giovanni nasce e si consolida come personaggio teatrale,
vive nello spazio - tempo della rappresentazione, la commedia dell'arte.
2) 1730: don Giovanni diventa protagonista del melodramma di Mozart - Da Ponte.
3) 1800: l'800 vede una proliferazione dei poemi su don Giovanni.
4) 1900: G. B. Shaw scrive Man and superman in cui descrive un don Giovanni
diverso in radicale regressione, non è un seduttore, né un innamorato, vuole
piuttosto sfuggire alle donne che vorrebbero spingerlo alla riproduzione. Nel
1928 Max Frisch scrive Don Giovanni o l'amore per la geometria: la massima
ispirazione di don Giovanni è coltivare in pace la geometria, sfuggendo alle
donne che lo perseguitano.
Il titolo completo dell'opera di Tirso de Molina era El burlador de Sevilla y
convidado de piedra. Il protagonista si compiace della burla verso tutti, le
donne, il re, i parenti che vorrebberlo ricondurlo sulla retta via. La burla
diventa il centro dell'universo di don Giovanni, le donne ingannate si vendicano
restituendo l'inganno. Alla fine dell'opera don Giovanni appare arso vivo nelle
fiamme dell'Inferno.
Tirso si chiamava in realtà Gabriel Téllez, era un monaco dell'ordine della
Merced. Nel 1628 viene sospeso "a divinis" per la sua attività di
commediografo. Nella commedia don Giovanni si ravvede in punto di morte, ma
questo pentimento tardo non gli concede la salvezza. El burlador di Tirso venne
rappresentato in chiesa il venerdì santo. L'opera, se non la si guarda in
superficie con gli occhi del senso comune, appare come un impegnativo dramma
teologico: l' ultima burla di don Giovanni è l'oltraggio verso il morto, il
monumento sepolcrale del commendatore che egli stesso ha ucciso. Secondo la
simbologia patristico - scolastica il teschio è simbolo della morte come "dies
natalis". L'oltraggio di don Giovanni alla morte è dunque un oltraggio
alla vita. La commedia diventa lo specchio delle grandi controversie dell'epoca,
religiose e filosofiche: l'essenziale della storia è un morto che ritorna per
riaffermare un ordine e aprire le porte a una vera vita.
Il Dom Juan ou le festin de pierre di Molière (Parigi, 1665) viene
rappresentato per quindici sere consecutive nei giorni precedenti la Pasqua: la
rappresentazione viene interrotta e mai più ripresa, vivente Molière. Anche
dopo la morte di Molière la prima versione del Dom Juan viene rappresentata a
Parigi solo due secoli dopo. La censura ne ha tagliato le battute forti, la
parte centrale dell'atto III: don Giovanni e il suo servo si sono persi nella
foresta, incontrano un mendico che vive da dieci anni in eremitaggio. Don
Giovanni chiede al mendico la strada per uscire dal bosco ed egli replica
reclamando del denaro, don Giovanni gli domanda in cambio di bestemmiare. Il
povero si rifiuta, ed è irremovibile nella sua decsione, allora don Giovanni
gli dà un luigi d'oro "per amore dell'umanità, non per amore di
Dio". Questa è la scena cancellata. Il don Giovanni di Molière è ben
lontano dalla patina di seduttore che è stata imposta a questo personaggio.
Molière era allievo di Gassendi, filosofo scettico e libertino di gran fama,
allievo di René Descartes di cui Molière diceva che "l'unico principio di
fede in cui crede è che due più due fanno quattro". Don Giovanni appare
dunque piuttosto il simbolo della razionalità del '600, che intende i rapporti
sociali come guerra, anche l'amore, come incontro bellico. Giovanni Macchia
scrisse che quello di don Giovanni è "un machiavellismo dell'amore".
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