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Simposio Apollodoro: Credo proprio di essere ben preparato per soddisfare la vostra
curiosità. L'altro giorno, infatti, venivo in città da casa mia, al Falero,
quando uno che conosco, dietro di me, mi chiama da lontano in tono scherzoso: "Ehi tu, del Falero, Apollodoro, mi aspetti un
momento?" Mi fermo e l'aspetto. E quello: "Apollodoro, t'ho cercato ovunque. Volevo domandarti
dell'incontro di Agatone, di Socrate, di Alcibiade e degli altri che erano con
loro al simposio, e così sapere quali discorsi lì si son fatti sull'amore. Mi
ha già raccontato qualcosa un altro, che ne aveva sentito parlare da Fenice, il
figlio di Filippo; mi ha detto che tu eri al corrente di tutto, ma lui,
purtroppo, non poteva dir niente di preciso. E quindi ti prego, racconta:
nessuno meglio di te può riportare i discorsi del tuo amico. Ma dimmi, per
cominciare: eri presente a quella riunione o no?" "Si vede bene - rispondo io - che quel tizio non ti ha
raccontato niente di preciso, se credi che la riunione che ti interessa sia
avvenuta da poco, e io abbia potuto parteciparvi." "Io credevo così." "Ma com'è possibile, Glaucone? Sono molti anni - non lo
sai? - che Agatone manca da Atene. E poi sono passati meno di tre anni da quando
io frequento Socrate e sto attento tutti i giorni a quello che dice e che fa.
Prima me ne andavo di qua e di là, credendo di fare chissà che cosa, ed ero
invece l'essere più vuoto che ci sia, come te adesso, che credi che qualsiasi
occupazione vada meglio della filosofia." "Non mi prendere in giro - disse - e dimmi piuttosto
quando c'è stata quella riunione." "Noi eravamo ancora dei ragazzini - gli rispondo -. Fu
quando Agatone vinse il premio con la sua prima tragedia, il giorno successivo a
quello in cui offrì, con i coreuti, il sacrificio in onore della sua
vittoria". "Ma allora son passati molti anni. E a te chi ne ha
parlato? Socrate stesso?" "No, per Zeus, - dico io - ma la stessa persona che l'ha
raccontato a Fenice, un certo Aristodemo, del distretto di Cidateneo, uno
mingherlino, sempre scalzo. C'era anche lui alla riunione: era uno degli
ammiratori più appassionati di Socrate, allora, a quel che sembra. Io poi non
ho certo mancato di chiedere a Socrate su ciò che avevo sentito da Aristodemo:
e lui stesso mi ha confermato che il suo racconto era esatto." "E allora racconta, presto. La strada per la città
sembra fatta apposta per chiacchierare, mentre andiamo." Ed eccoci dunque in cammino, parlando di queste cose: è per
questo che sono così preparato, come v'ho detto all'inizio, per parlarne
adesso. Se dunque questo racconto deve essere fatto anche a voi, son ben felice
di farlo. Del resto, quando parlo io di filosofia, o altri ne parlano in mia
presenza, provo la gioia più grande. Al contrario, quando sento parlare certe
persone, e soprattutto i ricchi, i banchieri, quelli che parlano d'affari, la
gente come voi, allora mi annoio e ho anche un po' pena per voi, che credete di
fare chissà cosa e invece fate cose che non valgono niente. Da parte vostra,
del resto, mi giudicate un poveretto, e forse lo sono davvero. Ma che siate voi
dei poveretti, questo non lo sapete affatto, e io invece lo so. Amico di
Apollodoro:
Sei sempre lo stesso, Apollodoro. Dici sempre male di te e
degli altri. Tu hai l'aria di pensare che, Socrate a parte, tutti gli altri
siano dei poveretti, a cominciare da te stesso. Da dove ti viene il soprannome
di "Tranquillo", proprio non si sa. Tu non cambi proprio mai: ce l'hai
sempre con te stesso e con tutti gli altri, a parte Socrate. Apollodoro:
Ma carissimo, non è evidente? Questa opinione che ho di me e
degli altri non prova forse quanto sia folle, quanto deliri? Amico di
Apollodoro:
Dai,
Apollodoro, non val la pena adesso di star qui a
litigare. Fa' piuttosto quel che ti abbiamo chiesto e raccontaci: che discorsi
si fecero quella notte? Apollodoro:
E va bene, ti racconterò più o meno cosa si disse. Ma forse
è meglio che parta dall'inizio e cerchi di rifare per voi, a mia volta, il
racconto di Aristodemo. Incontrai Socrate, mi disse, che usciva dal bagno e si era
messo dei sandali, contro le sue abitudini. Gli domandai dove andasse, visto che
si era fatto così bello. E lui mi rispose: "Vado a cena da Agatone. Ieri alla festa in onore della
sua vittoria me ne son venuto via, perché mi dava fastidio tutta quella gente.
Ma ho accettato di andar da lui oggi e così mi son fatto bello: voglio esser
bello per andare da un bel giovane. E tu? Che ne pensi di venire anche se non
sei stato invitato?" Io risposi: "Ai tuoi ordini!" "Allora seguimi, mi disse. Per questa volta faremo una
piccola modifica al proverbio e diremo che le persone per bene vanno a cena
senza invito dalle persone per bene. Del resto anche Omero non solo l'ha
modificato questo proverbio, ma ha quasi rischiato di capovolgerlo. Rappresenta
Agamennone come un guerriero di prim'ordine e Menelao come un guerriero senza
coraggio; ma poi al pranzo offerto da Agamennone dopo un sacrificio ci fa vedere
che arriva anche Menelao, che viene alla festa senza esser stato invitato:
l'uomo che val poco che va al festino di un uomo valoroso!". E a questo Aristodemo mi disse di aver risposto così: "Allora corro proprio un bel rischio, ma non per quel che
dici tu, Socrate; credo piuttoso di essere, come in Omero, il pover'uomo che si
presenta senza invito dal grand'uomo. Vedrai tu che mi ci porti quali scuse
trovare, perché io non dirò certo di non essere stato invitato, dirò che mi
hai invitato tu". "Due che vanno insieme, mi rispose, l'uno
provvede all'altro: e allora andiamo, che per via penseremo a cosa
dire". "E con questo proposito, mi disse, ci mettemmo in
cammino. Ma Socrate, concentrato nei suoi pensieri, rimaneva indietro. Quando
l'aspettavo, mi diceva di andar pure avanti. Arrivo da Agatone, la porta è
aperta e mi trovo subito in una situazione un po' comica: uno schiavo mi viene
incontro dalla casa e mi porta nella sala dove gli altri avevano già preso
posto, già pronti per la cena. Mi vede Agatone e mi dice: "Aristodemo, arrivi al momento gusto per cenare con noi.
Se sei venuto per qualcos'altro, rimanda tutto a più tardi, perchè ieri ho
cercato di invitarti ma non t'ho trovato. E Socrate? non è con te?" Allora mi volto, mi disse Aristodemo, e non lo vedo più. Non
mi era dietro. Spiego dunque di essere venuto con Socrate, e che era stato lui
ad invitarmi alla cena. "Ben fatto, disse Agatone. Ma lui dov'è?" "Era dietro a me sino ad un'istante fa! dove può essere
finito?" "Ragazzo, disse allora Agatone ad un servo, va ben a
vedere dov'è Socrate e portalo da noi. Tu Aristodemo intanto prendi posto su
questo divano a fianco d'Erissimaco". E raccontava che mentre un domestico gli lava i piedi per
potersi stendere sul divano, un altro arriva dicendone una nuova: "Questo Socrate di cui parlate s'è rintanato nel
vestibolo dei vicini, ed è fermo là; ho avuto un bel chiamarlo, non è voluto
venire". "Certo che è ben strano, disse Agatone. Ritorna subito a
chiamarlo e non lasciarlo lì". "Non fate niente, dissi io, lasciatelo là piuttosto. E'
un'abitudine che ha quella di mettersi in un angolo, non importa dove, e di
restare là dov'è. Verrà presto, penso; non disturbatelo, lasciatelo
tranquillo". "E va bene, facciamo così, disse Agatone, se lo dici tu!
Quanto a noi, ragazzi portateci da mangiare. Voi portate sempre da mangiare quel
che vi pare, quando non c'è nessuno a controllare - cosa che io peraltro non ho
mai fatto nella mia vita! Ma oggi, fate finta che io e i miei amici siamo vostri
invitati e portateci il meglio, tanto da meritare i nostri complimenti!" E così, disse Aristodemo, eccoci a tavola, ma Socrate non
veniva. Agatone insisteva tutti i momenti per mandarlo a chiamare, ma io lo
fermavo. Alla fine arrivò, diciamo verso la metà del pranzo, senza essersi poi
fatto troppo aspettare, come spesso faceva. Allora Agatone, che si trovava da
solo sull'ultimo divano, gli disse subito: "Vieni qui, Socrate, mettiti accanto a me, che io possa
apprendere subito per contatto diretto i tuoi pensieri là nel vestibolo; a
qualcosa devono pure aver condotto le tue riflessioni, se no saresti ancora là".
Socrate si siede e fa: "Sarebbe una buona cosa, Agatone, se i pensieri potessero
scivolare da chi ne ha più a chi ne ha meno per contatto diretto, quando siamo
accanto, tu ed io; come l'acqua che, attraverso un filtro, passa dalla coppa più
piena alla più vuota. Se è così, voglio subito mettermi al tuo fianco, perché
la tua grande e bella saggezza possa riempire la mia coppa. Che per la verità
è un po' così, incerta come un sogno, mentre la tua sapienza è limpida e può
sfavillare ancora di più, lei che ha brillato con lo splendore della tua
giovinezza e ier l'altro ha fatto faville davanti a più di trantamila greci,
che prendo tutti a miei testimoni!" "Che fai, mi prendi in giro, Socrate?, disse Agatone.
Sulla saggezza faremo i conti più tardi, te ed io, e prenderemo Dioniso a
nostro giudice. Ma intanto pensiamo a cenare". E così, disse Aristodemo, Socrate prese posto sul divano.
Dopo aver cenato, e gli altri con lui, e dopo aver fatto le libagioni, i canti
in onere del dio e le cerimonie d'uso, ci si preparò a bere. Fu Pausania,
allora, a prendere la parola per dire più o meno così: "Carissimi, come si fa adesso a bere senza star male? io,
ve lo dico subito, non mi sento troppo bene dopo la festa di ieri, perché ho
bevuto un po' troppo e vorrei andarci piano stasera; del resto voi dovreste
essere più o meno tutti nelle mie condizioni, perché c'eravate anche voi ieri.
Allora, come possiamo fare per bere senza star male?" Intervenne
Aristofane: "Ben detto, Pausania. Ti do proprio ragione, anch'io
vorrei andarci piano a bere perché sono di quelli che ieri sera hanno forse un
po' esagerato!" A queste parole, disse Aristodemo, intervenne Erissimaco, il
figlio di Acumeno: "Avete ragione, disse, ma sentiamo gli altri: tu che ne
dici, Agatone, hai ancora la forza di bere?" "Per nulla, rispose, non ce la faccio proprio". "A quanto sembra, disse Erissimaco, è proprio una
fortuna per tutti - per me, per Aristodemo, per Fedro, per tutti quanti - che
voi, i migliori bevitori, dobbiate adesso rinunciare, perché noi non ce la
faremmo a starvi dietro. Farei un'eccezione per Socrate: è tanto bravo a bere
che a non bere, per lui andrà sempre bene, qualunque cosa decidiamo. E, visto
che nessuno qui mi sembra disposto a bere del gran vino, forse riuscirò a non
essere sgradito a nessuno dicendovi la verità sull'ubbriachezza. Come medico
devo subito dirvi che è evidente che ubriacarsi fa male. Del resto io non mi
sento portato a bere fuori misura, né a consigliare ad un altro di farlo,
soprattutto se ha la testa ancora pesante per il giorno prima". Poi intervenne Fedro, quello di
Mirrinunte: "Quanto a me, io ti credo sempre se parli di medicina, ma
oggi ti crederanno tutti, se non son matti". Queste parole furono ascoltate e all'unanimità si decise che
non si sarebbe passata la serata ad ubiacarsi e che ciascuno avrebbe bevuto
quanto si sentiva. "E dunque, riprese Erissimaco, visto che siamo d'accordo
che ciascuno beva quanto vuole, senza nessun obbligo, io proporrei adesso di
congedare la nostra giovane flautista che è appena entrata: per stasera suoni
da sola o, se lo desidera, per le donne di casa. Noi, invece, passeremo la
serata chiacchierando. Di cosa possiamo parlare? Io quasi quasi un'idea ce
l'avrei, se volete ve la dico". Tutti furono d'accordo, disse Aristodemo, e chiesero a
Erissimaco di fare la sua proposta. Questi riprese dicendo: "Parlerò, per cominciare, alla maniera della Melanippe
di Euripide, "perché non son mie queste parole", che adesso vi
dirò, ma di Fedro, che è lì. Lui mi dice sempre, tutto indignato: "Non
è strano, Erissimaco, che per tutti gli altri dèi vi siano inni e peana
composti dai poeti e che in onore dell'Eros, un dio così potente, così grande,
non vi sia stato ancora un solo poeta, tra tutti, che abbia composto il più
piccolo elogio? Prendi, se vuoi, i sofisti di fama: scrivono in prosa l'elogio
di Eracle, e d'altri ancora, come ha fatto l'ottimo Prodico. Ma c'è di peggio.
Non mi è capitato l'altro giorno di vedere il libro di un sapiente che faceva
l'elogo del sale, per la sua utilità? Ed altre cose dello stesso genere, lo
sappiamo, sono state fatte oggetto di elogio. Ci si è data molta pena di
trattare di parecchi argomenti, ma l'Eros, lui non ha trovato ancora nessuno
sino ad ora che abbia avuto il coraggio di onorarlo come merita! Ecco come ci si
dimentica di un grande dio!" Ebbene, io credo che su questo Fedro abbia
ragione. Desidero dunque, da parte mia, portare il mio contributo onorandolo,
facendo qualcosa che gli sia gradito; adesso quindi potremmo fare tutti un
elogio di questo dio. Se siete d'accordo, avremmo così un argomento senza alcun
dubbio davvero assai interessante con cui passare il nostro tempo. Potremmo,
cominciando da sinistra verso destra, fare un elogio dell'Eros, il più
bell'elogio di cui siamo capaci. Fedro parlerà per primo, perché è al primo
posto ed è allo stesso tempo il padre di quest'idea". "Nessuno, mio caro Erissimaco, disse Socrate, voterà
contro la tua proposta. Non sarò io ad oppormi, che dichiaro subito di non
saper nulla di nulla, ma dell'Eros son proprio esperto; non Agatone o Pausania,
e certo neppure Aristofane, che non si occupa d'altro che di Dioniso e di
Afrodite, né gli altri che vedo qui stasera. Certo il compito è più difficile
per noi che occupiamo gli ultimi posti. Ma se quelli che parlano prima di noi lo
faranno davvero bene, ne saremo soddisfatti. Che Fedro cominci, con i nostri
auguri! che faccia l'elogio dell'Eros!". Furono subito tutti d'accordo e tutti si unirono all'invito di
Socrate. Aristodemo non si ricordava più esattamente ciò che ciascuno disse e
io stesso non ricordo più bene ciò che lui mi raccontò. Le cose più
importanti, o quel che a me è sembrato più degno di essere ricordato, adesso
ve lo riporterò nella forma in cui ciascuno l'ha detto. E così, secondo Aristodemo, il primo a parlare fu Fedro,
cominciando il suo discorso più o meno in questi termini: "E' un gran dio l'Eros, un dio che merita tutta
l'ammirazione degli uomini e degli dèi per diverse ragioni, non ultima la sua
origine. E' annoverato tra i più antichi dèi, e questo, aggiunse, è un onore.
Di questa antichità abbiamo una prova: l'Eros non ha né padre né madre, e
nessuno, né in poesia né in prosa, glielo ha mai attribuito. Esiodo ci dice
che innanzitutto vi fu il Caos, "e la Terra dall'ampio seno, / sicura
sede per tutti i viventi e l'Eros...". E, in accordo con Esiodo, anche
Acusilao dice che dopo il Caos sono nati questi due esseri, la Terra e l'Eros.
Quanto a Parmenide, parlando della generazione dice che "di tutti gli dèi,
l'amore fu il primo che la dea partorì". Così c'è ampio accordo nel
dire che l'Eros è uno degli dèi più antichi. Essendo così antico, è per noi la sorgente dei più grandi
beni. Per me, io lo affermo, non c'è più grande bene nella giovinezza che
avere un amante virtuoso e, se si ama, trovare eguale amore in chi si ama.
Infatti i sentimenti che devono guidare per tutta la vita gli uomini destinati a
vivere nel bene non possono ispirarsi né alla nobiltà della nascita né agli
onori né alla ricchezza, né a null'altro: devono ispirarsi ad Eros. Ora, mi
chiedo, quali sono questi sentimenti? La vergogna per le cattive azioni,
l'attrazione per le azioni belle. Senza questo, nessuna città, nessun individuo
potranno far mai nulla di grande e di buono. Così, io lo dichiaro, un uomo che
ama, se sorpreso in flagrante a commettere un'azione malvagia o a subire per
vigliaccheria, senza difendersi, una grave offesa, soffrirà certamente se a
scoprirlo saranno suo padre o i suoi amici o chiunque altro; ma soffrirà molto
di più se a scoprirlo sarà il suo amante. Ed è lo stesso per l'amato: è
davanti al suo amante, noi lo sappiamo bene, che egli sentirà la più grande
vergogna, quando sarà sorpreso a fare qualcosa di cui vergognarsi. Se esistesse
un mezzo per mettere insieme una città o un esercito fatti solo da amanti e dai
loro amici, essi si darebbero certamente il miglior governo che ci sia:
allontanerebbero infatti da loro tutto ciò che è cattivo e rivaleggerebbero
sulla via dell'onore. E se questi amanti combattessero l'uno di fianco all'altro
potrebbero vincere, per così dire, il mondo intero, anche se fossero soltanto
un piccolo gruppo, perché sarebbero molto uniti tra loro. Infatti per un
innamorato sarebbe più intollerabile abbandonare i ranghi o gettare le armi
sotto gli occhi del suo amante che sotto gli occhi del resto dell'esercito;
preferirebbe piuttosto morire cento volte. Quanto ad abbandonare chi si ama, a
non aiutarlo in caso di pericolo, nessuno è così vigliacco che l'Eros non
riesca a ispirargli una forza divina rendendolo eguale a quelli che per natura
hanno grande coraggio. Esattamente come in Omero il dio viene a ispirare
l'ardore per la battaglia a certi eroi, così l'Eros fa questo dono agli
innanmorati, ed essi lo accettano da lui. Meglio ancora: morire per l'altro. Soltanto gli amanti
accettano questo, non solo gli uomini, ma anche le donne. La figlia di Pelia,
Alcesti, ha dato ai Greci un esempio chiarissimo di ciò che dico. Soltanto essa
acconsentì a morire per il suo sposo, che pure aveva un padre e una madre. La
sua figura si eleva così in alto su di loro per la forza nata dal suo amore da
farli apparire estranei al loro stesso figlio, senza altro legame con lui che il
nome. Avendo agito in questo modo, il suo gesto è sembrato bellissimo, non solo
agli uomini ma anche agli dèi. Essi concedono davvero a pochi il privilegio di
richiamare in vita la loro anima dal fondo dell'Ade, una volta morti. Ebbere fra
tanti eroi, autori delle più belle azioni, concessero questo privilegio proprio
ad Alcesti ricordandosi del suo gesto che avevano tanto ammirato. A tal punto
gli dèi onorano la dedizione e il coraggio al servizio dell'Eros. Al contrario
essi mandarono via dall'Ade Orfeo, figlio di Eagro, senza ottenere nulla: gli
mostrarono soltanto un'immagine della donna per la quale era venuto, senza
concedergliela. La sua anima, infatti, sembrava loro debole, perché altri non
era che un suonatore di cetra; non aveva avuto il coraggio di morire, come
Alcesti, per il suo amore, ma aveva cercato con tutti i mezzi di penetrare da
vivo nel regno dei morti. E' certamente per questa ragione che essi gli hanno
inflitto questa punizione e hanno fatto in modo che morisse per mano delle
donne. Non hanno agito nello stesso modo con Achille, il figlio di Teti: l'hanno
trattato con onore, aprendogli la via per le isole dei beati. Achille infatti,
avvertito dalla madre che sarebbe morto se avesse ucciso Ettore, e sarebbe
invece tornato al suo paese finendo i suoi giorni da vecchio se non lo avesse
fatto, scelse con coraggio di restare al fianco di Patroclo, il suo amante,
vendicandolo: scelse non di morire per salvarlo, perché era già stato ucciso,
ma di seguirlo sulla via della morte. Così gli dèi, pieni di ammirazione, gli
hanno tributato onori eccezionali, per aver posto così in alto il suo amante. Eschilo scherza quando pretende che Achille sia l'amante di
Patroclo: Achille era più bello non soltanto di Patroclo, ma anche di tutti gli
altri eroi messi insieme; era un ragazzo, non aveva ancora la barba, ed era
quindi assai più giovane di Patroclo, come dice Omero. Così se gli dèi
onorano soprattutto questo particolare tipo di coraggio che si mette al servizio
dell'amore, essi ammirano, stimano, ricompensano ancor di più la tenerezza
del'amato per l'amante che quella dell'amante per i suoi amati. L'amante,
infatti, è più vicino al dio dell'amato, perché un dio lo possiede. Ecco
perché gi dèi hanno onorato Achille più che Alcesti, aprendogli la via per le
isole dei beati. Ecco dunque, io lo dichiaro, l'Eros è tra gli dèi il più
antico e il più degno, ha i maggiori titoli per guidare l'uomo sulla via della
virtù e della felicità, sia in vita che nel regno del'aldilà" Fu questo pressappoco, secondo Aristodemo, il discorso di
Fedro. Dopo Fedro parlarono altri, ma lui non si ricordava bene. Non me ne ha
parlato e invece mi ha riportato il discorso di Pausania, che si espresse in
questi termini: "Io credo, Fedro, che l'argomento sia mal posto quando ci
si domanda semplicemente di fare l'elogio dell'Eros. Se di Eros ve ne fosse uno
solo, potrebbe anche andar bene. Ma non è così: non ce n'è uno soltanto, e
allora è bene prima spiegare di quale Eros dobbiamo tessere l'elogio. Cercherò
dunque, da parte mia, di chiarire le cose su questo punto, di precisare
innanzitutto quale amore si debba lodare e quindi pronuncerò un elogio che sia
degno di questo dio. Tutti sappiamo che non c'è Afrodite senza Eros. Se dunque non
vi fosse che una Afrodite, non vi sarebbe che un solo Eros. Ma essa è duplice,
e quindi, necessariamente, abbiamo due Eros. Come negare che esistano due dee?
L'una, senza dubbio la più antica, non ha madre: è figlia di Urano, e la
chiamiamo quindi la dea del cielo, Afrodite Urania; l'altra, la più giovane, è
figlia di Zeus e di Dione, e la chiamiamo quindi la dea popolare, Afrodite
Pandemia. E allora necessariamente l'Eros che serve l'una dovrà chiamarsi Eros
Pandemio, quello che serve l'altra Eros Uranio. Certo, bisogna lodare tutti gli
dèi; ma, detto questo, qual è il dominio dei due dèi? E' questo che dobbiamo
provare a dire. Ogni azione si caratterizza per questo, che in sé non è né
bella né brutta. In quello che adesso facciamo, bere, cantare, chiacchierare,
non c'è nulla di bello in sé; è piuttosto il modo in cui si compie un'azione
a dar questo o quel risultato, e così seguendo le regole della bellezza e della
rettitudine un'azione diventa bella, al contrario senza rettitudine diventa
brutta. E lo stesso avviene per l'atto d'amore, e quindi non tutto l'amore è
bello e degno di elogio: lo è soltanto quello che porta ad amare bene. Ora l'Eros compagno di Afrodite Pandemia certo è volgare e
opera a casaccio: è proprio degli uomini da poco. Intanto queste persone si
innamorano sia delle ragazze che dei ragazzi, indifferentemente; e poi amano i
corpi, non l'anima, e preferiscono le persone meno intelligenti: vogliono
arrivare dritto al loro scopo, non gl'importa il modo - che sia bello o brutto.
Capita quindi che si imbattano nel bene, e capita anche il contrario. Come è
ovvio, questo Eros si unisce alla più giovane delle due dee, che sin dal suo
concepimento partecipa sia del maschile che del femminile. L'altro Eros, invece,
partecipa dell'Afrodite Urania che da sempre è estranea all'elemento femminile
e partecipa soltanto del maschile; e poi è la più antica e non conosce alcun
impulso brutale. Per questa ragione quanti sono ispirati da questo Eros sono
attratti dall'elemento maschile: essi amano teneramente il sesso per natura più
forte e intelligente. E proprio da questa inclinazione ad innamorarsi dei
ragazzi si possono riconoscere quanti sono posseduti con purezza da questo Eros,
perché essi non amano i giovani prima che abbiano dato prova d'intelligenza.
Ora, questo è impossibile che accada prima che i giovani siano abbastanza
grandi da avere la prima barba. E' questa l'età, io credo, in cui è bene
cominciare a rivolgere ad essi attenzioni d'amore, per restare poi con loro per
tutta la vita, per legare le proprie esistenze, piuttosto che abusare della
credulità di un giovane sciocco, farsi gioco di lui e piantarlo poi per correre
dietro ad un altro. Ci vorrebbe una legge che proibisse di amare i ragazzi
troppo giovani: così non si sprecherebbero tante cure per un risultato
imprevedibile. Non è infatti possible prevedere che cosa ne sarà di un
ragazzino, se avrà vizi o virtù sia nel corpo che nell'anima. L'uomo che vale
si pone senza dubbio da sé, e di buon grado, questa legge. Ma bisognerebbe
anche che chi coltiva amori volgari abbia un limite, simile a quello che nella
misura del possibile è imposto dalla legge che impedisce di avere relazioni
d'amore con donne di condizione non servile. Sono proprio questi amanti volgari,
infatti, che hanno screditato l'Eros e dato a certuni il coraggio di dire che è
una vergogna cedere ad un amante. Chi dice questo, lo fa perché ha davanto agli
occhi la mancanza di tatto e di onestà di questi amanti volgari, mentre nessun
gesto al mondo merita d'essere criticato quando la convenienza e la legge sono
rispettate. Ancora di più: la regola di condotta, per quel che concerne
l'Eros, è facile da comprendere nelle altre città, perché la sua definizione
è semplice. Nell'Elide, presso i Beoti, e nelle altre città in cui i cittadini
non sono abili nel far grandi discorsi, la regola ammessa è semplice: è un
bene cedere agli amanti e nessuno, giovane o vecchio, dirà mai che c'è da
vergognarsi. Il fine, credo, è di evitare l'imbarazzo di dover convincere i
giovani con la parola, perché non sono gran parlatori. Nella Ionia, al
contrario, e in diverse altre zone, la regola dice che questo non va bene: sono
paesi dominati dai Barbari. Presso i Barbari, infatti, a causa dei loro regimi
tirannici, il giudizio comune è che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante:
lo stesso giudizio si dà per l'amore per il sapere e per l'esercizio fisico.
Senza dubbio, ai loro capi non conviene che nascano grandi intelligenze tra i
sudditi, e neppure grandi amicizie e società saldamente unite, come in effetti
l'Eros, più di ogni altra cosa al mondo, sa produrre. Di questo hanno fatto
esperienza anche i tiranni qui da noi: l'amore di Aristogitone e l'amicizia di
Armodio, sentimenti solidi, hanno distrutto il loro potere. Così là dove si
ritiene che ci sia da vergognarsi a cedere a un amante, questa convinzione è
nata dalla debolezza morale della gente: desiderio di dominio presso i capi,
vigliaccheria presso i sudditi. Là invece dove la regola ammette in tutta
semplicità che è cosa buona, essa è nata per la pigrizia dell'animo di quella
gente. Presso di noi la regola è molto più bella e, come ho detto,
non è facile da comprendere. C'è da rifletterci, in effetti: è più bello, si
dice, amare apertamente piuttosto che in segreto, e soprattutto amare i giovani
di nascita migliore e di meriti più alti, anche se meno belli di altri; di più,
chi è innamorato è straordinariamente incoraggiato da tutti, e nessuno pensa
che faccia qualcosa di cui vergognarsi: il successo è il suo onore, lo scacco
è la sua vergogna; e nei tentativi di conquista la regola elogia gli amanti per
delle stravaganze che esporrebbero alle critiche più severe chiunque osasse
comportarsi così per altri scopi. Supponiamo infatti che uno voglia ottenere
del denaro da qualcuno, che voglia esercitare una magistratura, o una qualsiasi
funzione importante: se accetta di fare ciò che fanno gli amanti per i loro
amati - assillarli con preghiere e suppliche, pronunciare grandi giuramenti,
dormire dietro le loro porte, abbassarsi volontariamente ad ogni sorta di
schiavitù che nessuno schiavo accetterebbe di buon grado - ebbene tutto questo
gli sarà impedito sia dai suoi amici che dai suoi nemici: questi gli
rimprovereranno la sua adulazione e la sua bassezza, quelli lo faranno ragionare
e arrossiranno per lui. Queste cose, invece, sono ben viste per l'innamorato e
la nostra regola non le critica affatto: sono qualcosa che si sta ad ammirare. E
la cosa più strana è, secondo il detto popolare, che lui solo può giurare e
ottenere grazia davanti agli dèi se tradisce i suoi giuramenti: dinnanzi ad
Afrodite, a quanto si dice, nessun giuramento vale. Così gli dèi e gli uomini
danno agli innamorati una libertà totale: lo dice la nostra regola. E questo
porta a pensare che la regola nella nostra città giudichi cose perfette la
bellezza e l'amore, e l'amicizia che ricompensa gli amanti. Ma quando d'altra
parte i padri fanno sorvegliare dai pedagoghi i loro figlioli innamorati, in
modo che non possano parlar d'amore con i loro amanti; quando i giovani della
loro età, i loro amici, li rimproverano per il loro amore; quando gli adulti
non si oppongono a queste critiche e non le biasimano come fuori luogo; allora
se si considera tutto questo si potrebbe credere, al contrario, che questo tipo
di amore goda presso di noi di cattiva fama. Ecco, io credo, come stanno le cose. La faccenda non è per
nulla semplice, come ho già detto all'inizio: in se stessa non è né bella né
brutta. E' bella se le azioni sono belle, è brutta se le azioni sono brutte. E'
cosa brutta cedere ad un uomo cattivo e per cattivi motivi; è cosa bella cedere
ad un uomo di valore e per bei motivi. Ora chi si comporta male è, come prima
dicevo, l'amante volgare, che ama il corpo più che l'anima. Non ha costanza,
perché l'oggetto del suo amore è incostante. All'affievolirsi della bellezza
del corpo che ama, egli "s'invola e va via", e tradisce senza
vergogna alcuna tante belle parole, tante promesse. Ma chi ama il carattere di
una persona per le sue alte qualità, resta fedele tutta la vita perché il suo
amore riposa su qualcosa di costante. Le nostre regole si propongono di mettere
gli uomini alla prova della serietà e dell'onestà, perché si ceda agli uomini
che valgono e si fuggano gli altri. Incoraggiano quindi a sceglier bene tra il
cedere e il fuggire, creando delle prove che permettano di riconoscere di che
natura sia l'amante, di che natura sia la sua anima. Su questo si fonda
evidentemente la massima: "a ceder subito c'è da vergognarsi". Più
tempo passa, infatti, più si ha la prova, sembra, della serietà dell'amore.
Una seconda massima, poi, dice che c'è da vergognarsi a cedere per denaro o per
averne vantaggi politici, sia che ci si intimorisca di fronte ad un'azione
decisa, che rende incapaci di reagire, sia che non si respingano con sdegno le
lusinghe della ricchezza e del successo politico: niente di tutto ciò ha l'aria
d'essere solido e stabile, e dunque non può venirne alcuna generosa amicizia. Non resta dunque, secondo la nostra regola, che una via onesta
perché l'amato possa cedere all'amante. Presso di noi la regola è la seguente:
come tra gli amanti non c'è nulla di umiliante nel far di se stessi degli
schiavi consenzienti, secondo quella forma di schiavitù che prima dicevo, e non
c'è il rischio di essere criticati, nello stesso modo rimane una sola altra
forma di schiavitù volontaria che sfugga a ogni critica: quella che ha la virtù
come proprio oggetto. La nostra regola infatti dice questo, che se si accetta di
essere al servizio di un altro pensando di diventare migliori grazie a lui, nel
sapere o in un'altra virtù, qualunque sia, questa servitù liberamente accolta
non ha niente di cattivo e non è umiliante. Bisogna dunque riunire in una sola
queste due regole, quella che riguarda l'amore verso i ragazzi e quella che
riguarda l'amore per il sapere o per tutte le altre forme di virtù, se vogliamo
che si abbia un bene dal fatto che l'amato ceda all'amante. Infatti quando le
vie dell'amante e dell'amato si incontrano, ed essi insieme seguono la stessa
regola, il primo di rendere al suo amato tutti i servizi compatibili con la
giustizia, il secondo di dare all'uomo che cerca di farlo diventare saggio e
buono tutte le forme di assistenza compatibili con la giustizia - l'uno potendo
contribuire a dare l'intelligenza e tutte le forme di virtù, l'altro avendo
bisogno di progredire nell'educazione e più in generale nel sapere -, allora in
verità quando queste regole convergono, e in questo caso solamente, questa
coincidenza fa sì che sia cosa bella che l'amato ceda all'amante. Altrimenti,
è da escludere. Nel bene, anche se chi cede è completamente vittima della
situazione, non c'è alcun disonore, ma in tutti gli altri casi, che si sia
vittime o meno, c'è di che vergognarsi. Infatti se c'è qualcuno che per
arricchirsi ha ceduto a un'amante che crede ricco, e viene poi ingannato e non
ottiene nulla, perché il suo amante si rivela povero, la cosa rimane
riprovevole anche se si è una vittima. Un simile uomo sembra mostrare il fondo
della sua anima: per denaro si presta a tutto verso il primo venuto, e questo
non è affatto bello. Secondo lo stesso ragionamento se si cede a qualcuno
credendolo pieno di qualità e pensando di diventare migliori legandosi a questo
amante, e se in seguito ci si trova ingannati scoprendo la sua malvagità,
quanto sia povero nella virtù, ebbene chi è stato ingannato non ha nulla di
cui vergognarsi. Anche in questo caso, infatti, sembra rivelarsi la qualità
dell'anima: la virtù e il progresso morale, in tutto e per tutto, sono
l'oggetto della propria passione - e questa è la cosa più bella che ci sia.
Quindi è bellissimo cedere, quando si cede per la virtù. Questo Eros viene
dall'Afrodite Urania, ed è davvero divino e prezioso per la città come per gli
individui, perché esige dall'amante e dall'amato che entrambi veglino su se
stessi, per essere ricchi di virtù. Quanto agli altri, essi rivelano il legame
con l'altra dea, l'Afrodite Pandemia. Ecco, mio caro Fedro: io non ho fatto che improvvisare; è
questo il mio tributo per Eros". Dopo la pausa di Pausania - uso questo gioco di parole sullo
stile dei maestri della parola - era venuto il turno di Aristofane, mi diceva
Aristodemo. Ma caso volle che, o per la cena troppo abbondante o per qualche
altra ragione, avesse il singhiozzo e non ruscisse a parlare. Chiese allora a
Erissimaco, il medico, di parlare lui al posto suo: "Bisogna, Erissimaco, o che tu fermi il mio singhiozzo, o
che tu parli al mio posto in attesa che mi passi". "E va bene, rispose Erissimaco, farò l'uno e l'altro.
Parlerò al tuo posto e tu parlerai al mio quanto ti sarà passato il
singhiozzo. Mentre parlo, se trattieni a lungo il respiro il tuo singhiozzo si
deciderà ad andarsene. Se non se ne va, fai dei gargarismi con dell'acqua. E se
non se ne va ancora, cerca qualcosa per solleticarti il naso e starnutire. Se lo
farai una o due volte, per quanto tenace sia il tuo singhiozzo, se ne andrà".
"A te parlare, dunque, disse Aristofane, io seguirò i
tuoi consigli". Allora Erissimaco prese la parola. "Io credo, Pausania,
che dopo un buon inizio tu non abbia risposto del tutto alle esigenze del
soggetto trattato, ed è quindi necessario che io cerchi, da parte mia, di
completare il suo discorso. La tua distinzione tra i due tipi di amore mi sembra
eccellente. Ma essa non riguarda soltanto le anime degli uomini nei loro
rapporti con le persone belle; riguarda anche i rapporti tra altri oggetti
d'amore, tra altri esseri, che si tratti dei corpi degli animali o delle piante
che la terra nutre: in una parola, tutti gli esseri viventi. La medicina, la
nostra arte, credo mi consenta questa osservazione. Essa permette di vedere che
Eros è un grande dio, un dio meraviglioso, e che la sua azione si estende su
tutto, sia nell'ordine dell'umano che del divino. Comincerò dalla medicina, per fare onore alla mia arte. La
natura dei corpi comporta un duplice amore. Ciò che è sano nel corpo è ben
diverso e dissimile da ciò che è malato, questo lo ammettono tutti. Ora, il
dissimile ama e desidera il dissimile: l'amore che è proprio della parte sana
è dunque diverso dall'amore che proprio della parte malata. Dunque, proprio
come Pausania diceva che è cosa bella accordare i propri favori agli uomini che
se lo meritano ed è cosa brutta cedere ai dissoluti, così quando si tratta dei
corpi stessi favorire ciò che vi è di buono e di sano in ciascuno è cosa
bella e necessaria, ed è questo che chiamiamo medicina, mentre bisogna
rifiutarsi di favorire ciò che è malvagio e malsano, se si vogliono seguire le
regole dell'arte. La medicina infatti, se vogliamo definirla in una parola, è
la scienza dei fenomeni d'amore propri dei corpi, nei loro rapporti con il
riempirsi e il vuotarsi, e chi da questi fenomeni sa diagnosticare il buono e il
cattivo amore, ebbene questi è il miglior medico. Chi sa operare dei
cambiamenti grazie ai quali si acquista un amore al posto dell'altro; chi sa far
nascere l'amore nei corpi in cui manca e sa eliminarlo quando è di troppo;
ebbene costui è dvvero padrone di quest'arte. Senza alcun dubbio. Il medico
deve essere capace di ristabilire l'amicizia e il mutuo amore tra gli elementi
del corpo che più si odiano. Ora, gli elementi che più si odiano sono quelli
contrari: il freddo e il caldo, l'amaro e il dolce, il secco e l'umido, e così
via. E' per avere saputo mettere l'amore e la concordia tra questi elementi che
il nostro antico padre Asclepio - a quel che dicono i nostri poeti, e io lo
credo - è il fondatore della nostra arte. La medicina è dunque, come dicevo, tutta quanta governata da
questo dio. E questo vale anche per la ginnastica e per l'agricoltura. Quanto
alla musica, non occorre una grande riflessione per vedere che è la stessa
cosa. Senza dubbio è questo che vuol dire Eraclito, benché la sua espressione
non sia felice. Egli dichiara infatti che "l'uno in sé discorde con se
stesso si accorda, come l'armonia dell'arco e della lira." Ora, è molto illogico affermare che l'armonia consiste in una
opposizione o che essa è composta da elementi che si oppongono ancora. Ma egli
voleva forse dire che a partire da una opposizione originaria, tra l'acuto e il
grave, i due elementi in seguito si accordano e l'armonia si realizza grazie
alla musica. Infatti, se veramente l'acuto e il grave si opponessero ancora, non
si vede come potrebbe nascere l'armonia. L'armonia infatti è una consonanza, e
una consonanza è una sorta di accordo. Ora, l'accordo di elementi opposti, se
permangono opposti, è impossibile, e d'altro canto non può esserci armonia tra
ciò che si oppone e non si accorda: nello stesso modo il ritmo nasce dal rapido
e dal lento, cioè da elementi all'inizio opposti che in seguito si accordano. E
come prima la medicina, adesso è la musica che introduce l'accordo tra tutti
questi elementi, creando amore reciproco e accordo. E dunque la musica è essa
stessa, nell'ordine dell'armonia e del ritmo, una scienza dei fenomeni
dell'amore. Ora, se nella costituzione dell'armonia e del ritmo i fenomeni
dell'amore possono essere osservati facilmente, questo accade perché non vi
sono due specie d'amore. Ma quando per il pubblico si eseguono ritmi e armonie,
sia componendole (in quella che si chiama composizione musicale) sia servendosi
a seconda dei casi di composizioni melodiche o metriche composte da altri (in
quella che si chiama educazione musicale), allora la cosa diventa difficile e si
ha bisogno di un uomo del mestiere, che sia abile. Ecco allora tornare il
discorso di prima: se bisogna cedere, è bene farlo con uomini dai costumi ben
regolati, proprio per migliorarsi quando ancora non si hanno le stesse qualità;
l'amore di questi uomini deve essere ben difeso e bisogna quindi rivolgersi
all'Eros bello, all'Eros Uranio, quello della Musa Urania. L'altro è quello di
Polimnia, l'Eros Pandemio, che bisogna offrire con prudenza a chi viene ad
offrirlo a noi, in modo da trarne piacere senza strafare; è come nella nostra
arte, la medicina, che deve saper ben dosare il gusto per la buona cucina, per
imparare a goderne senza ammalarsi. Così dunque in musica, in medicina, in
tutto l'ordine delle cose divine e umane, è necessario proteggere nella misura
del possibile l'uno e l'altro amore, poiché vi si trovano entrambi. Anche l'ordine delle stagioni dell'anno è riempito da questi
due amori, e quando gli elementi di cui parlavo prima - il caldo e il freddo, il
secco e l'umido - incontrano nei loro reciproci rapporti l'amore ben regolato,
essi si armonizzano combinandosi nella giusta misura, allora portano
l'abbondanza e la sanità agli uomini, agli animali, alle piante, senza causare
alcun danno. Ma quando nelle stagioni dell'anno prevale l'amore senza misura,
rovina ogni cosa ed è causa di grandi disastri. La pestilenza, infatti, ha
origine da questi fenomeni e così le più varie malattie che aggrediscono
animali e piante: gelo, grandine, i mali delle piante, provengono dal desiderio
senza limiti e misura nelle relazioni reciproche fra questi fenomeni, governate
dall'amore. C'è una scienza che tratta nello stesso tempo del movimento degli
astri e delle stagioni dell'anno: si chiama astronomia. Tutti i sacrifici, poi, e tutto ciò che ha a che fare con la
divinazione (cioè tutto ciò che mette in comunicazione gli dèe e gli uomini)
non hanno altro scopo che quello di proteggere l'amore e di guarirlo. L'empietà
nasce abitualmente dal non cedere all'amore ben regolato, dal non onorarlo, dal
non riverirlo con ogni propria azione, ma dall'onorare l'altro amore, nei
rapporti sia con i propri genitori, viventi o morti, sia con gli dèi. Questo è
il compito assegnato alla divinazione: sorvegliare coloro che amano e guarirli.
Ed è ancora lei, la divinazione, che permette l'amicizia tra gli dèi e gli
uomini, perché essa conosce, nell'ordine degli umani, quei fenomeni d'amore che
tendono al rispetto degli dèi e alla pietà. Questa è la molteplice, l'immensa o piuttosto l'universale
potenza che è propria dell'Eros nella sua universalità. E' lui ad agire, con
moderazione e giustizia, per produrre delle opere buone, sia tra noi che tra gli
dèi, con la più grande potenza: ci procura ogni felicità e ci rende capaci di
vivere in società, di legare con vincoli di amicizia gli uni con gli altri ed
anche con quegli esseri a noi superiori, gli dèi. Anch'io, senza dubbio ho tralasciato alcune cose nel mio
elogio dell'Eros, ma non l'ho fatto apposta. Se ho dimenticato qualche punto,
spetta a te, Aristofane, di colmare la lacuna. Però, se ti proponi di lodare il
dio in un altro modo, fai pure, visto che il tuo singhiozzo se n'è
andato." Allora, disse Aristodemo, Aristofane prese la parola: "Il fatto è che se n'è sì andato, ma ho dovuto proprio
applicare il tuo rimedio e starnutire. Non è strano che il buon ordine del mio
corpo abbia bisogno di rumori e di solletico per starnutire? Sta di fatto, però,
che il singhiozzo è passato appena ho starnutito!" "Aristofane, amico mio, che dici?, riprese Erissimaco. Ci
fai ridere un attimo prima di fare il tuo discorso? Così mi costringi a
sorvegliar bene le tue parole, che tu non abbia ad esser comico proprio quando
puoi parlare in tutta tranquillità". "Aristofane si mise a ridere e disse: "Hai ragione Erissimaco, ritiro tutto. Ma non mi
sorvegliare. Nel discorso che farò, infatti, dovrò dire non poche cose che
faranno un po' ridere - e questo è un vantaggio, perché così la mia Musa si
troverà su un terreno familiare -, ma ho proprio paura di essere un po' preso
in giro!" "Eh, Aristofane, tu prima lanci una frecciatina poi te ne
vuoi scappare, non è vero? Ma t'avverto, parla piuttosto come un uomo che deve
render conto di quel che dice! Sta' tranquillo, però, da parte mia ti farò
grazia, ma solo se vorrò!" "A dir la verità, Erissimaco, - disse Aristofane -, ho
intenzione di parlare diversamente da te e da Pausania. Infatti mi sembra che
gli uomini non si rendano assolutamente conto della potenza dell'Eros. Se se ne
rendessero conto, certamente avrebbero elevato templi e altari a questo dio, e
dei più magnifici, e gli offrirebbero i più splendidi sacrifici. Non sarebbe
affatto come è oggi, quando nessuno di questi omaggi gli viene reso. E invece
niente sarebbe più importante, perché è il dio più amico degli uomini: viene
in loro soccorso, porta rimedio ai mali la cui guarigione è forse per gli
uomini la più grande felicità. Dunque cercherò di mostrarvi la sua potenza, e
voi fate altrettanto con gli altri. Ma innanzitutto bisogna che conosciate la natura della specie
umana e quali prove essa ha dovuto attraversare. Nei tempi andati, infatti, la
nostra natura non era quella che è oggi, ma molto differente. Allora c'erano
tra gli uomini tre generi, e non due come adesso, il maschio e la femmina. Ne esisteva un terzo, che aveva entrambi i caratteri degli
altri. Il nome si è conservato sino a noi, ma il genere, quello è scomparso.
Era l'ermafrodito, un essere che per la forma e il nome aveva caratteristiche
sia del maschio che della femmina. Oggi non ci sono più persone di questo
genere. Quanto al nome, ha tra noi un significato poco onorevole. Questi ermafroditi erano molto compatti a vedersi, e il dorso
e i fianchi formavano un insieme molto arrotondato. Avevano quattro mani,
quattro gambe, due volti su un collo perfettamente rotondo, ai due lati
dell'unica testa. Avevano quattro orecchie, due organi per la generazione, e il
resto come potete immaginare. Si muovevano camminando in posizione eretta, come
noi, nel senso che volevano. E quando si mettevano a correre, facevano un po'
come gli acrobati che gettano in aria le gambe e fan le capriole: avendo otto
arti su cui far leva, avanzavano rapidamente facendo la ruota. La ragione per
cui c'erano tre generi è questa, che il maschio aveva la sua origine dal Sole,
la femmina dalla Terra e il genere che aveva i caratteri d'entrambi dalla Luna,
visto che la Luna ha i caratteri sia del Sole che della Terra. La loro forma e
il loro modo di muoversi era circolare, proprio perché somigliavano ai loro
genitori. Per questo finivano con l'essere terribilmente forti e vigorosi e il
loro orgoglio era immenso. Così attaccarono gli dèi e quel che narra Omero di
Efialte e di Oto, riguarda gli uomini di quei tempi: tentarono di dar la scalata
al cielo, per combattere gli dèi. Allora Zeus e gli altri dèi si domandarono quale partito
prendere. Erano infatti in grave imbarazzo: non potevano certo ucciderli tutti e
distruggerne la specie con i fulmini come avevano fatto con i Giganti, perché
questo avrebbe significato perdere completamente gli onori e le offerte che
venivano loro dagli uomini; ma neppure potevano tollerare oltre la loro
arroganza. Dopo aver laboriosamente riflettuto, Zeus ebbe un'idea. "lo
credo - disse - che abbiamo un mezzo per far sì che la specie umana sopravviva
e allo stesso tempo che rinunci alla propria arroganza: dobbiamo renderli più
deboli. Adesso - disse - io taglierò ciascuno di essi in due, così ciascuna
delle due parti sarà più debole. Ne avremo anche un altro vantaggio, che il
loro numero sarà più grande. Essi si muoveranno dritti su due gambe, ma se si
mostreranno ancora arroganti e non vorranno stare tranquilli, ebbene io li
taglierò ancora in due, in modo che andranno su una gamba sola, come nel gioco
degli otri." Detto questo, si mise a tagliare gli uomini in due, come si
tagliano le sorbe per conservarle, o come si taglia un uovo con un filo. Quando
ne aveva tagliato uno, chiedeva ad Apollo di voltargli il viso e la metà del
collo dalla parte del taglio, in modo che gli uomini, avendo sempre sotto gli
occhi la ferita che avevano dovuto subire, fossero più tranquilli, e gli
chiedeva anche di guarire il resto. Apollo voltava allora il viso e,
raccogliendo d'ogni parte la pelle verso quello che oggi chiamiamo ventre, come
si fa con i cordoni delle borse, faceva un nodo al centro del ventre non
lasciando che un'apertura - quella che adesso chiamiamo ombelico. Quanto alle
pieghe che si formavano, il dio modellava con esattezza il petto con uno
strumento simile a quello che usano i sellai per spianare le grinze del cuoio.
Lasciava però qualche piega, soprattutto nella regione del ventre e
dell'ombelico, come ricordo della punizione subìta. Quando dunque gli uomini primitivi furono così tagliati in
due, ciascuna delle due parti desiderava ricongiungersi all'altra. Si
abbracciavano, si stringevano l'un l'altra, desiderando null'altro che di
formare un solo essere. E così morivano di fame e d'inazione, perché ciascuna
parte non voleva far nulla senza l'altra. E quando una delle due metà moriva, e
l'altra sopravviveva, quest'ultima ne cercava un'altra e le si stringeva addosso
- sia che incontrasse l'altra metà di genere femminile, cioè quella che noi
oggi chiamiamo una donna, sia che ne incontrasse una di genere maschile. E così
la specie si stava estinguendo. Ma Zeus, mosso da pietà, ricorse a un nuovo
espediente. Spostò sul davanti gli organi della generazione. Fino ad allora
infatti gli uomini li avevano sulla parte esterna, e generavano e si
riproducevano non unendosi tra loro, ma con la terra, come le cicale. Zeus
trasportò dunque questi organi nel posto in cui noi li vediamo, sul davanti, e
fece in modo che gli uomini potessero generare accoppiandosi tra loro, l'uomo
con la donna. Il suo scopo era il seguente: nel formare la coppia, se un uomo
avesse incontrato una donna, essi avrebbero avuto un bambino e la specie si
sarebbe così riprodotta; ma se un maschio avesse incontrato un maschio, essi
avrebbero raggiunto presto la sazietà nel loro rapporto, si sarebbero calmati e
sarebbero tornati alle loro occupazioni, provvedendo così ai bisogni della loro
esistenza. E così evidentemente sin da quei tempi lontani in noi uomini è
innato il desiderio d'amore gli uni per gli altri, per riformare l'unità della
nostra antica natura, facendo di due esseri uno solo: così potrà guarire la
natura dell'uomo. Dunque ciascuno di noi è una frazione dell'essere umano
completo originario. Per ciascuna persona ne esiste dunque un'altra che le è
complementare, perché quell'unico essere è stato tagliato in due, come le
sogliole. E' per questo che ciascuno è alla ricerca continua della sua parte
complementare. Stando così le cose, tutti quei maschi che derivano da quel
composto dei sessi che abbiamo chiamato ermafrodito si innamorano delle donne, e
tra loro ci sono la maggior parte degl adulteri; nello stesso modo, le donne che
si innamorano dei maschi e le adultere provengono da questa specie; ma le donne
che derivano dall'essere completo di sesso femminile, ebbene queste non si
interessano affatto dei maschi: la loro inclinazione le porta piuttosto verso le
altre donne ed è da questa specie che derivano le lesbiche. I maschi, infine,
che provengono da un uomo di sesso soltanto maschile cercano i maschi. Sin da
giovani, poiché sono una frazione del maschio primitivo, si innamorano degli
uomini e prendono piacere a stare con loro, tra le loro braccia. Si tratta dei
migliori tra i bambini e i ragazzi, perché per natura sono più virili. Alcuni
dicono, certo, che sono degli spudorati, ma è falso. Non si tratta infatti per
niente di mancanza di pudore: no, è i loro ardore, la loro virilità, il loro
valore che li spinge a cercare i loro simili. Ed eccone una prova: una volta
cresciuti, i ragazzi di questo tipo sono i soli a mostrarsi veri uomini e a
occuparsi di politica. Da adulti, amano i ragazzi: il matrimonio e la paternità
non li interessano affatto - è la loro natura; solo che le consuetudini li
costringono a sposarsi ma, quanto a loro, sarebbero bel lieti di passare la loro
vita fianco a fianco, da celibi. In una parola, l'uomo cosiffatto desidera
ragazzi e li ama teneramente, perché è attratto sempre dalla specie di cui è
parte. Queste persone - ma lo stesso, per la verità, possiamo dire
di chiunque - quando incontrano l'altra metà di se stesse da cui sono state
separate, allora sono prese da una straodinaria emozione, colpite dal sentimento
di amicizia che provano, dall'affinità con l'altra persona, se ne innamoranc e
non sanno più vivere senza di lei - per così dire - nemmeno un istante. E
queste persone che passano la loro vita gli uni accanto agli altri non
saprebbero nemmeno dirti cosa s'aspettano l'uno dall'altro. Non è possibile
pensare che si tratti solo delle gioie dell'amore: non possiamo immaginare che
l'attrazione sessuale sia la sola ragione della loro felicità e la sola forza
che li spinge a vivere fianco a fianco. C'è qualcos'altro: evidentemente la
loro anima cerca nell'altro qualcosa che non sa esprimere, ma che intuisce con
immediatezza. Se, mentre sono insieme, Efesto si presentasse davanti a loro con
i suoi strumenti di lavoro e chiedesse: "Che cosa volete l'uno
dalI'altro?", e se, vedendoli in imbarazzo, domandasse ancora: "Il
vostro desiderio non è forse di essere una sola persona, tanto quanto è
possibile, in modo da non essere costretti a separarvi né di giorno né di
notte? Se questo è il vostro desiderio, io posso ben unirvi e fondervi in un
solo essere, in modo che da due non siate che uno solo e viviate entrambi come
una persona sola. Anche dopo la vostra morte, laggiù nell'Ade, voi non sarete
più due, ma uno, e la morte sarà comune. Ecco: è questo che desiderate? è
questo che può rendervi felici?" A queste parole nessuno di loro - noi lo
sappiamo - dirà di no e nessuno mostrerà di volere qualcos'altro. Ciascuno
pensa semplicemente che il dio ha espresso ciò che da lungo tempo senza dubbio
desiderava: riunirsi e fondersi con l'altra anima. Non più due, ma un'anima
sola. La ragione è questa, che la nostra natura originaria è come
l`ho descritta. Noi formiamo un tutto: il desiderio di questo tutto e la sua
ricerca ha il nome di amore. Allora, come ho detto, eravamo una persona sola; ma
adesso, per la nostra colpa, il dio ci ha separati in due persone, come gli
Arcadi lo sono stati dagli Spartani. Dobbiamo dunque temere, se non rispettiamo
i nostri doveri verso gli dèi, di essere ancora una volta dimezzati, e
costretti poi a camminare come i personaggi che si vedono raffigurati nei
bassorilievi delle steli, tagliati in due lungo la linea del naso, ridotti come
dadi a metà. Ecco perché dobbiamo sempre esortare gli uomini al rispetto degli
dèi: non solo per fuggire quest'ultimo male, ma anche per ottenere le gioie
dell'amore che ci promette Eros, nostra guida e nostro capo. A lui nessuno
resista - perché chi resiste all'amore è inviso agli dèi. Se diverremo amici
di questo dio, se saremo in pace con lui, allora riusciremo a incontrare e a
scoprire l'anima nostra metà, cosa che adesso capita a ben pochi. E che
Erissimaco non insinui, giocando sulle mie parole, che intendo riferirmi a
Pausania e Agatone: loro due ci sono riusciti, probabilmente, ed entrambi sono
di natura virile. Io però parlo in generale degli uomini e delle donne,
dichiaro che la nostra specie può essere felice se segue Eros sino al suo fine,
così che ciascuno incontri l'anima sua metà, recuperando l'integrale natura di
un tempo. Se questo stato è il più perfetto, allora per forza nella situazione
in cui ci troviamo oggi la cosa migliore è tentare di avvicinarci il più
possibile alla perfezione: incontrare l'anima a noi più affine, e
innamorarcene. Se dunque vogliamo elogiare con un inno il dio che ci può far
felici, è ad Eros che dobbiamo elevare il nostro canto: ad Eros, che nella
nostra infelicità attuale ci viene in aiuto facendoci innamorare della persona
che ci è più affine; ad Eros, che per l'avvenire può aprirci alle più grandi
speranze. Sarà lui che, se seguiremo gli dèi, ci riporterà alla nostra natura
d'un tempo: egli promette di guarire la nostra ferita, di darci gioia e felicità.
Ecco, Erissimaco, questo è il mio discorso in onore di Eros.
T'ho già pregato, non prendermi in giro per quel che ho detto. Dobbiamo ancora
ascoltare, non dimenticarlo, i discorsi degli altri, di quelli che restano,
Agatone e Socrate." Erissimaco, riferì Aristodemo, rispose così: "Sì sì, farò proprio come tici tu, perché il tuo
discorso mi è piaciuto molto e anzi, se non sapessi che Socrate e Agatone sono
gran maestri nelle cose d'amore, penserei quasi quasi che siano a corto di
argomenti, tante sono le cose che sono state dette. Ma ho piena fiducia in
loro". E Socrate allora disse: "Dici così perché hai già fatto la tua parte,
Erissimaco. Ma se fossi al mio posto, ora o peggio ancora dopo il discorso di
Agatone - che ti figuri se non sarà bellissimo -, avresti una gran paura e
saresti proprio in imbarazzo, come me in questo momento". "Non mi fido mica di te Socrate, disse Agatone, tu vuoi
farmi tremare all'idea che il nostro pubblico sarà attentissimo e si aspetta da
me un discorso stupendo". "Ma Agatone, rispose Socrate, vuoi che mi dimentichi di
tutte le volte che ti ho visto sul palco coi tuoi attori, sicuro di te, mentre
ti rivolgevi ad un gran pubblico per presentare una tua opera? Non eri per
niente emozionato, affatto, e adesso dovrei credere che lo sei davanti a noi,
che siamo così pochi?" "Come, Socrate? disse Agatone. Non mi crederai, spero,
così innamorato del teatro da non capire che agli occhi di un uomo di buon
senso poche persone intelligenti sono più da temere di una folla
ignorante?" "Farei molto male se lo credessi, mio buon Agatone,
rispose Socrate, una simile mancanza di stile non ti si addice. Io so bene,
invece, che se trovi gente che ritieni saggia, dài loro molta più importanza
che alla folla. Però non credo affatto che noi siamo saggi. Perché c'eravamo
anche noi tra il pubblico, là tra la folla. Ma se trovassi altra gente, dei
saggi veri, ti vergogneresti, senza dubbio, davanti a loro al pensiero di far
qualcosa di cui ci sia da vergognarsi. Che ne dici?" "E' vero", rispose. "Ma davanti alla folla non ti vergogneresti se pensassi
di fare qualcosa di cui ci sia da vergognarsi?" Fedro a questo punto prese la parola e disse: "Mio caro Agatone, se rispondi, a Socrate non importerà
proprio nulla se la conversazione prenderà una piega o l'altra, perché a lui
basta avere qualcuno con cui chiacchierare, soprattutto se è un bel ragazzo.
Ora, a me piace moltissimo acoltare Socrate quando discute, ma adesso dobbiamo
proprio occuparci dell'Eros, dobbiamo raccogliere il tributo da ciascuno di noi:
i nostri discorsi in suo onore. Pagate il vostro debito verso il dio, poi
tornerete a chiacchierare tra voi". "Hai proprio ragione, Fedro, disse Agatone, e in effetti
niente mi impedisce di rimandare la risposta perché avrò ancora ben
l'occasione di chiacchiare con Socrate! C'è tempo. Voglio dirvi subito come intendo condurre il mio discorso,
prima di cominciare. Tutti coloro che hanno già parlato non hanno per nulla, mi
sembra, fatto l'elogio del dio. Hanno chiamato felici gli uomini per i beni che
gli devono, ma chi egli sia esattamente, per aver fatto loro questi doni, ecco
questo nessuno l'ha detto. Ora, il solo modo corretto per fare un elogio,
qualunque sia l'argomento, è quello di spiegare la natura dell'oggetto del
discorso e la natura di ciò di cui è responsabile. E così dobbiamo procedere
anche noi nell'elogio dell'Eros: mostrando innanzitutto la sua natura e quindi i
doni che ci ha fatto. Dichiaro dunque che tra tutti gli dèi, esseri felici, l'Eros
- mi sia permesso dirlo senza risvegliare la loro gelosia - è il più felice,
perché è il più bello e il migliore. E' il più bello perché questa è la
sua natura. Infatti, mio caro Fedro, è il più giovane tra gli dèi. Una grande
prova dimostra che quel che dico è vero, e ce la offre lui stesso: Eros fugge
la vecchiaia, che è rapida, si sa, e ci sorprende prima di quanto dovrebbe.
L'Eros, è chiaro, la odia e non le si avvicina nemmeno da lontano. Ma è sempre
in compagnia della giovinezza, le resta vicino. Ha ragione il vecchio detto:
"Il simile cerca il simile". Io sono spesso d'accordo con Fedro, ma
non trovo giusto dire che Eros sia più antico di Cronos e di Giapeto. Io
dichiaro, al contrario, che è il più giovane tra gli dèi, che è sempre
giovane e che le vecchie lotte tra gli dèi di cui parlano Esiodo e Parmenide
sono figlie della Necessità, ma non di Eros, se questi poeti hanno detto il
vero. Infatti gli dèi non si sarebbero mutilati l'un l'altro, non si sarebbero
messi in ceppi né fatto tanta violenza se l'Eros fosse stato tra loro.
Avrebbero conosciuto invece l'amicizia e la pace, come adesso, nel tempo in cui
sugli dèi l'Eros stende il suo dominio. Dunque, l'Eros è giovane, e non soltanto è giovane ma anche
delicato. A lui è mancato un poeta, un Omero, che ne sapesse far vedere la
delicatezza. Omero dice di Ate che essa è una dea e allo stesso tempo che è
delicata, o almeno che lo sono i suoi piedi. Dice: "Son delicati i suoi
piedi e non sfiorano il suolo, / ella avanza sfiorando le teste degli uomini".
Un chiaro indice della sua delicatezza, ai miei occhi: la dea non posa i piedi
sul duro, ma sul morbido. Utilizzeremo anche noi a proposito dell'Eros lo stesso
indizio per affermare che è delicato: non cammina infatti sulla terra, né
sulle teste, che poi tanto morbide non sono, ma si muove e abita in ciò che è
più tenero al mondo. Eros infatti ha stabilito la sua dimora nel cuore e
nell'anima degli uomini e degli dèi. Ma non senza distinzione in tutte le
anime. Se ne incontra una che abbia un carattere duro, fugge via e va ad abitare
in quelle in cui trova dolcezza. E' sempre a contatto, coi piedi e con tutto il
suo essere, con ciò che tra tutte le cose tenere è più tenero, ed è quindi
assai delicato, necessariamente. Ecco dunque, l'Eros è il più giovane e il più delicato
degli esseri. E inoltre dobbiamo ricordare la flessibilità della sua forma,
perché non potrebbe andare dappertutto né passare inosservato quando penetra
nelle anime e quando ne esce, se fosse rigido. Dell'armonia, della duttilità
della sua natura, ebbene di questo la sua grazia né dà una prova eclatante,
quella grazia che l'Eros possiede in massimo grado perché tra l'aspetto
sgraziato e l'Eros la reciproca ostilità c'è da sempre. E che dire della
bellezza della sua carnagione? Eros indugia tra i fiori. Su ciò che non
fiorisce, sul fiore appassito, nel corpo o nell'anima o in ogni altra cosa, Eros
non si posa: ma là dove i fiori e i profumi abbondano, là si posa, là sceglie
la sua casa. Sulla bellezza del dio basta così, anche se davvero resta
ancora molto da dire. Vorrei adesso parlare delle sue virtù. Ecco la più
importante: Eros non fa né subisce ingiustizia, non fa torto a nesuno, uomo o
dio, e non ne subisce da nessuno, né uomo né dio. La violenza non ha alcuna
parte in ciò che subisce, ammesso che subisca qualcosa, perché la violenza non
ha presa sull'Eros; non ne ha bisogno in tutto quel che fa perchè tutti in
tutto si mettono di buon grado al suo servizio. E gli accordi che si fanno di
buon grado sono chiamati giusti dalle "leggi, le regine della città".
E con la giustizia ecco la più grande temperanza. La
temperanza, si sa, è dominare piaceri e desideri. Ora, non c'è piacere più
grande dell'Eros: se i piaceri inferiori sono dominati dall'Eros, e s'egli li
domina, poiché domina piaceri e desideri, allora l'Eros deve essere temperante
in massimo grado. Quanto al coraggio, "Ares stesso non può lottare
contro Eros". Infatti non è Ares che domina su Eros, ma Eros possiede
Ares, se è vero che è innamorato di Afrodite, come dicono. Ora colui che si
impadronisce di qualcuno, è più forte di lui e chi riesce a possedere un altro
che è pieno di coraggio deve avere ancora più coraggio di lui. Fin qui ho parlato della giustizia, della temperanza e del
coraggio del dio. Rimane la sua scienza e, nella misura della mie forze, devo
proprio completare il mio elogio. Innanzitutto, poiché desidero onorare la mia
arte come Erissimaco ha fatto con la sua, dirò che il dio è poeta così
sapiente che rende poeti gli altri, a sua volta. Ogni uomo infatti diventa poeta
quando l'Eros lo possiede, "anche se prima non conosceva le Muse".
Questo fatto, è chiaro, deve essere per noi una prova che l'Eros è abilissimo
in tutte le arti governate dalle Muse. Infatti ciò che non si ha, o non si sa,
non lo si può certo dare o insegnare agli altri. Meglio ancora, nella creazione
degli esseri viventi, di tutti, chi oserà negare che l'Eros possiede una
scienza grazie a cui nascono e crescono tutti i viventi? Osserviamo d'altra
parte la pratica delle arti: non sappiamo forse che l'uomo che ha avuto questo
dio come maestro diviene celebre e illustre mentre quello che l'Eros non ha
nemmeno sfiorato non ha alcun successo? E certo: il tiro con l'arco, la
medicina, la divinazione sono delle abilità che Apollo deve al desiderio e
all'amore che lo guida; così questo dio può dirsi discepolo dell'Eros, come le
Muse lo sono per le arti che portano il loro nome, Efesto per l'arte di forgiare
i metalli, Atena per la tessitura e Zeus infine "per il governo degli dèi
e degli uomini". Così tutti i conflitti tra gli dèi si sono appianati
all'apparire di Eros tra loro, dell'amore per la bellezza, certo, perché Eros
non si lega mai a ciò che è brutto. Ma prima di questo, come ho detto
all'inizio, ogni specie di orribili eventi erano accaduti tra gli dèi, secondo
quanto narrano le antiche storie, perché regnava la Necessità. Quando poi
nacque questo dio, dall'amore per le cose belle nacque ogni bene, per gli dèi
come per gli uomini. Ecco perché, mio caro Fedro, posso dire che l'Eros è pieno
di bellezza e bontà al più alto grado ed è quindi, per tutti gli esseri, la
fonte dei più alti beni. Vorrei dirlo in versi, questo: l'Eros è il dio che dà
"la pace agli uomini, la calma al mare, la tregua ai venti, il riposo al
dolore". E' lui a liberarci dall'odio, lui a donarci l'amicizia; di
tutti i conviti, come il nostro adesso, è il fondatore; nelle feste, nei cori,
nei sacrifici, è lui a farci da guida; vi porta la dolcezza, allontana ogni
rancore, generosissimo di ogni bene, non sa cosa sia la malvagità, propizio ai
buoni, esempio ai saggi, ammirato dagli dèi, è cercato da chi non ha amore,
prezioso per chi lo possiede. Il Lusso, la Delicatezza, la Voluttà, le Grazie,
la Passione, il Desiderio sono i suoi figli. E' pieno di attenzione verso i
buoni ma si allonta dai malvagi, e nel dolore, nella paura, nel desiderio, nel
discorso, egli è sempre lì, pronto a combattere. E' il nostro sostegno, la
nostra salvezza per eccellenza. E' l'onore di tutti gli dèi, di tutti gli
uomini; è la guida più bella, la migliore, e ogni uomo deve seguirlo,
celebrare la sua gloria con splendidi inni e cantare con lui quel canto con cui
conquista i cuori di tutti gli dèi e di tutti gli uomini. Ecco il mio discorso, carissimo Fedro: che sia la mia offerta
al dio! La lieta fantasia e la grave serietà vi hanno avuto ciascuna la sua
parte, bilanciate come meglio è stato in mio potere fare."
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