La lingua di Biscardi
Di Clementina Gily
Chi
ancora si ricorda di una pubblicità di qualche tempo fa, in cui Aldo
Biscardi riceveva un diploma per la sua competenza di lingua inglese,
e rispondeva con un sonoro Dengh
iu di ringraziamento al Bachelor of Art?
Il
caso di Biscardi è raro. Un tempo solo il fiorentino era ammesso senza
che venisse consigliato all’anchor
man dal marcato accento provinciale di fare un corso di dizione. Ancora
oggi si legge quanto studiano per garantire la loro immagine, anche
vocale, i dicitori dei TG.
Biscardi,
invece, imperversa col suo linguaggio greve, che è diventato proverbiale.
Se nel giornalismo sportivo non ci fosse anche Mosca, tanto per fare
un caso, se non ci fosse stato l’italiano corposo di Gianni Brera, non
varrebbe la pena di trarre da questo fatto ulteriori considerazioni.
Ma Mosca e Brera ci sono, come c’è Biscardi.
La
lingua di Biscardi non è l’unica distinzione dello sport dalle altre
trasmissioni. Anche quando l’eccezionalità
non sia linguistica ma comportamentale, nello sport è ritenuta cosa
non solo accettabile ma anche gradita. Non si tratta, come nei talk
show, di costruzioni pazienti di figure artefatte (valga per tutti Platinette),
create in funzione dell’audience. Nel mondo dello sport si impone l’immagine
composta di leadership naturale. Anche se solo le persone parlano, senza
eccitare l’immaginazione, dicono quel che pensano e si esprimono con
calore appassionato. Le polemiche sono aspre ma non peregrine, vengono
dal profondo di una vita sportiva che non si cela dietro diplomazie,
esplode tranquilla, fa audience. Sincera, genuina, comunicativa.
Una
volta, anche nelle trasmissioni politiche a volte si assisteva a qualche
battibecco non artefatto che dava la stessa impressione. Oggi una bella
discussione civile e liberatoria, almeno in Italia, capita di vederla
solo nello sport. Chi non è sportivo, gradisce egualmente il programma
proprio per questo.
Il
fatto è che, tra le trasmissioni televisive, le uniche che continuino
a mantenere un proprio carattere genuino sono proprio quelle sportive.
Tanto che sono ad imporre il proprio linguaggio invece che
riceverlo; a fare a meno dei format d’importazione. In esse il
pubblico ha una funzione del tutto speciale: è il giudice, non quello
artefatto e selezionato dell’audience. In ogni salotto in cui si veda
insieme agli amici una partita, anche senza una comunicazione interattiva
con lo stadio oggetto della ripresa, si è compiutamente interattivi,
si salta sulla sedia, si urla al rigore, si giudica della bellezza o
incredibile fortuna di un goal. Ciascuno è il vero giudice, anche più
dell’arbitro, anche più del risultato finale, una partita bella o brutta
decide il pubblico e la moviola, lo spettatore più del giocatore. A
parte il protagonismo dei calciatori, nel fenomeno dello sport l’elemento
determinante è il pubblico, che si appassiona e partecipa in prima persona,
che si sente coinvolto come sportivo anche più di quando gioca con gli
amici al calcetto.
Non
si tratta di una mistificazione, di una cattiva comprensione del proprio
ruolo. C’è chi pensa che il termine sportivo
in realtà si adatterebbe a colui che corre ogni mattino piuttosto
che alla persona che in poltrona vede la partita. Ma il vero sportivo
è il secondo, il primo è un atleta. Perché lo sport è un gioco di gruppo,
in cui conta il gruppo sostenitore più che il campione: o meglio, conta
tutto. I soldi degli abbonamenti consentono gli ingaggi, il calciatore
che fa goal non lo fa solo per sé, ma per la gloria del club e dei fan.
Una sola pedata vale tanto nella nostra società perché esprime l’urlo
di una intera curva, più di tutti i telespettatori a casa. La vittoria
è conquista d’onore per la squadra e per tutti coloro che per essa tifano,
gli sportivi, i sostenitori, quelli che al mattino ancora glorificano
o piangono a seconda di come è andata quella pedata.
Insomma,
lo sport è un fatto sociale. E’, diceva Huizinga, il modo con cui le
società mostrano i loro valori. La competizione di fiere e cristiani
è uno sport apparentemente non molto civile; il golf, all’incontrario,
forse è un tantino freddo. Il calcio e i suoi hooligans caratterizzano
bene l’Europa caciarona ed entusiasta, sempre intenta a civilizzarsi,
sempre pronta a sbrodolarsi.
Concludendo:
la lingua di Biscardi è una metafora dell’importanza dello sport nelle
nostre vite individuali e nelle nostre società. Lo sport non si è fatto
sottomettere dall’immagine dei media, anzi le impone i propri modi,
i propri valori, le proprie ore di trasmissione. Basta osservare in
paragone Biscardi e Costanzo, per capire la differenza. Costanzo esprime
se stesso, ragioni commerciali ed aziendali ben individuate, vende un
prodotto di cui con ogni probabilità disprezza profondamente ogni cosa,
a giudicare dallo stato della televisione in Italia, di cui lui ha buona
parte di responsabilità.
Biscardi
gode di successo parimenti longevo, ma continua a tranciare, alquanto
becero, i suoi giudizi urlati, si moltiplica nelle sbracciate e nelle
frasi ad effetto. Lui e i suoi invitati partecipano della comune passione
di tutti per i Ludi. Non esprimono solo se stessi, solo le loro ragioni
commerciali, danno voce all’autentica passione sportiva della nazione.
Che si lega certo a motivi commerciali, fa anche più mercato dei media,
lo alimenta in molte dimensioni. Ma conserva un radicamento genuino
contro la celluloide finta dei media.