Letteratura interattiva e giochi di interpretazione
di Luca
Giuliano
Grazie ad un artificio ormai comune, e del resto noto in periodi
anche remotissimi dell'antichità, esse (le figure arabescate di una
tappezzeria) erano state trapunte in modo da apparire mutevoli alla
vista. Per chi entrasse nella stanza potevano sembrare semplici
mostruosità, ma avanzando ulteriormente, questa apparenza
gradatamente svaniva, e a ogni passo che muoveva innanzi il
visitatore si vedeva circondato da una successione interminabile di
quelle forme spettrali che appartengono alla superstizione dei
Normanni e sorgono nei colpevoli sonni dei monaci.
(Edgar Allan Poe, Ligeia)
Nell'opinione corrente, il gioco viene visto come un'attività
marginale, una parentesi nella serietà della vita. Il gioco è
spasso, ricreazione, un divertimento riservato ai bambini oppure un
infantilismo tollerato negli adulti, purché inteso come spazio
separato dallo studio e dal lavoro. Il gioco come occupazione
infantile è entrato nel senso comune dal XV-XVI secolo. Nelle fonti
iconografiche dellepoca le età delluomo vengono rappresentate
facendo riferimento alle loro attività tipiche: linfanzia è letà
dei giochi, poi cè ladolescenza che è letà scolastica, la
giovinezza che è letà dellamore, la maturità che è l'età della
guerra e, infine, la vecchiaia che è l'età della saggezza. La
divisione netta tra gioco/svago e lavoro assume un
vero e proprio valore sociale nella civiltà che nasce dalla
rivoluzione industriale (Turner 1986:70). Nelle società
aristocratiche, in cui il lavoro è svolto dagli schiavi, dai servi e
dai contadini, il tempo del gioco e del divertimento si sovrappone
al tempo del lavoro, non ne rappresenta il complemento. Il
dominus non lavora. Festività religiose, eventi pubblici e
momenti di ritualità collettiva sono un tutt'uno con il lavoro e con
il gioco. Invece nella società borghese il gioco e lo svago vengono
ridefiniti in funzione del lavoro.
Lo spazio del lavoro è dominato dalla razionalità tra mezzi e
fini, dalla oggettività del mondo, così come il lavoro
intellettuale, lo studio, è applicazione mentale, meditazione,
ricerca, riflessione. Lo spazio del gioco invece è dominato dalla
soggettività, è libero da costrizioni, è volontario,
affidato allo scherzo, alla burla, all'allegria. E' solo dalla fine
dell'Ottocento e soprattutto dalla prima metà del Novecento che
questa inconciliabilità tra lavoro e gioco, tra studio e gioco ("il
gioco sottrae tempo allo studio) viene messa in dubbio per opera di
autori come Schiller, Nietzsche, Freud, Huizinga, Winnicot, Caillois.
Per questi autori, con tutta la diversità di pensiero che li
contraddistingue, il gioco non si presenta più come una parentesi e
un divertissement, ma come una premessa della razionalità:
esplorazione dell'ignoto, pulsione di vita, istinto delle
combinazioni, fonte di creatività e di innovazione, ebbrezza
dionisiaca e infanzia del mondo dal quale emerge il Lògos, il
sapere ordinato delle parole e delle cose.
Il gioco è sempre un atto comunicativo. Presuppone la presenza di un
Altro. Anche quando l'Altro non c'è il gioco lo inventa facendo sì
che il gioco stesso diventi l'Altro. Nel gioco in solitario il
"gioco" si costituisce come compagno o come avversario. Il gioco
nasce come attività aggregante, che presuppone una comunità di
giocanti. Uno dei primi giochi nella storia dell'umanità è il gioco
dell'attore, il gioco di "colui che viene guardato mentre gioca"; il
narratore che racconta le storie intorno al fuoco e condivide il suo
mondo immaginario con gli ascoltatori.
Questa condivisione, che implica almeno due persone che giocano
insieme, permette di distinguere, secondo Winnicot (1971:69) tra
l'immaginazione e la fantasticheria. La fantasia immaginativa
stimolata dal gioco, condivisa e negoziata nel rapporto con gli
altri, arricchisce la vita con nuovi significati e offre spunti
all'azione. La fantasticheria è invece il prodotto di un isolamento,
un sogno ad occhi aperti che si sostituisce all'azione, che la
inibisce fino ad interferire con l'equilibrio psichico della
persona. L'alienato non gioca. Anche quando crede di giocare è
prigioniero dei propri fantasmi. Vive pensando che la realtà sia
così come lui la vede. Confonde la realtà percettiva con la realtà
soggettiva. Rifiuta l'alterità; rifiuta la comunicazione con
l'altro, e così facendo si mette fuori del gioco. E' per questo che
Winnicot vede nello psicoterapeuta colui che mette il paziente in
grado di giocare, cioè che lo porta a recuperare la sua dimensione
immaginativa condivisa.
Il gioco non è assenza di regole, ma accettazione volontaria delle
regole. La regola si presenta nel gioco come prodotto della
creazione e come suo presupposto. Come struttura della lingua che
permette ai parlanti di conversare. Come parola dei conversanti che
permette alla struttura della lingua di essere unica e
riconoscibile, stabile e mutevole, identificata singolarmente e
prodotta collettivamente. Gioco, linguaggio, comunicazione, regola,
comunità di giocanti, creatività e immaginazione, sono termini che
si adattano particolarmente bene alla descrizione e all'analisi dei
giochi che Caillois, nella sua classificazione antropologica, ha
chiamato: giochi di mimicry.
La mimicry è l'accettazione temporanea di un universo
convenzionale in cui diventare personaggi illusori: il piacere di
essere un altro o di farsi passare per un altro; di essere in un
altro luogo e in un altro tempo. Il piacere di essere altrove. La
mimicry è il "facciamo che io ero
", la metamorfosi,
l'assunzione di ruoli fittizi ma anche l'acquisizione di una
consapevolezza dell'esistenza di questi ruoli, che molti ritengono a
fondamento del processo di socializzazione (Mead, Bateson).
Attraverso la mimesi il giocatore finge di essere un altro, impone a
se stesso e agli altri uno stato di sospensione dell'incredulità. La
"pulsione imitativa" è alla base della creazione narrativa e del
dramma. Ogni gioco è di per sé rappresentazione di un mondo; il
gioco della mimesi è sempre rappresentazione di un mondo narrativo,
un mondo fatto di personaggi e di storie che scaturiscono da questi
personaggi, dai loro rapporti con il mondo e dalle reciproche
interazioni. Il gioco della mimesi è sempre un paradigma del
sociale.
La natura sociale della mimicry impone al gioco una
disciplina. Il gioco è una in-lusio, una entrata nel ludus,
un sottoporsi a delle convenzioni arbitrarie. Il ludus
comporta l'accettazione ostinata delle regole, così come il
giocatore di scacchi accetta il movimento inconsueto del cavallo
sulla scacchiera. Perché lo fa? Perché desidera restare all'interno
del cerchio magico che permette al "mondo degli scacchi" di
esistere. Il giocatore accetta l'ostacolo fittizio delle regole per
esercitare le sue capacità di dominio sul quel mondo. Il ludus
garantisce al giocatore-attore-narratore che egli sarà in grado di
conservare il controllo sulla moltiplicazione delle identità. Lo
rende consapevole della finzione e della presenza di una maschera.
Il gioco di mimicry ha assunto una forma codificata dalle
regole nel 1974, con la pubblicazione del Gioco di Ruolo (GdR)
Dungeons & Dragons, di Gary Gygax e Dave Arneson. Da allora si è
affermato prima nel mondo anglosassone e poi in Europa,
diffondendosi come attività di svago soprattutto tra i giovani e in
misura minore tra gli adulti. Il GdR è una sorta di macchina per
raccontare le storie e farle vivere ai giocatori come "avventure".
Si tratta, generalmente, di storie avvincenti, insolite, ispirate a
vicende epiche, alla fiction popolare nata tra la fine
dell'Ottocento e la prima metà del Novecento, oppure tratte dal
fumetto e dal cinema. Il GdR, nella sua versione classica, permette
a un certo numero di giocatori seduti intorno a un tavolo di
assumere i ruoli di personaggi immaginari e di farli muovere più o
meno liberamente all'interno di un mondo narrativo rappresentato dal
Master.
Il GdR crea una situazione di coinvolgimento del giocatore
attraverso il personaggio che egli interpreta, anche perché la
simulazione è strutturata, la creazione del personaggio è volontaria
e personalizzata, le conseguenze delle sue decisioni sono "vere"
all'interno della realtà immaginaria del gioco, e l'ambiente,
rappresentato dal Master, reagisce in modo vivo e intelligente alle
sollecitazioni. Con una formula sintetica possiamo dire che il GdR,
in massima parte vissuto e agito dai giocatori attraverso la parola,
crea una realtà condivisa nella forma di un universo discorsivo
dotato di significato. Inoltre la creazione e il mantenimento di
questa realtà fittizia è distribuita tra i partecipanti. I giocatori
non "recitano", come alcuni superficiali osservatori credono senza
avere una esperienza diretta. I giocatori di ruolo "interpretano",
agiscono nel quadro di una performance che li vede
protagonisti di una negoziazione della realtà immaginativa insieme
agli altri giocatori e al Master stesso. Nella evoluzione più
recente del GdR questa tendenza "narrativa" si è accentuata, forse
anche perché la parte più meccanica del gioco inteso come "problem
solving" è stata assorbita dal gioco di avventura per computer.
Inoltre si sono diffusi modi di gioco "dal vivo" che mettono in
maggiore evidenza l'aspetto teatrale, il travestimento. Oggi
preferisco chiamare queste attività con il nome di giochi di
interpretazione o performance games. Ciò che mi interessa
sottolineare è il fatto che questo tipo di giochi si trovano al
confine tra diverse forme di comunicazione: il dramma, il racconto
interattivo, il gioco, la festa. Il termine performance
esprime bene il senso della rappresentazione collettiva e della
interpretazione soggettiva.
Molti di questi materiali si configurano in una forma che possiamo
chiamare di "letteratura interattiva", spogliando il termine
letteratura della connotazione un po' romantica di "produzione
artistica". La letteratura interattiva è una produzione scritta di
materiali culturali e, a volte, anche la trascrizione di materiali
orali (questa distinzione, per esempio, nella comunicazione via
e-mail, è difficilmente sostenibile). La loro peculiarità nasce
dal fatto di essere un prodotto collettivo. Non è l'opera di un
autore, ma di una vera e propria interazione tra diversi autori. E'
il frutto di una intelligenza collettiva. Il riferimento alla
interattività è importante solo ed esclusivamente nella fase
creativa, e cioè nell'atto in cui si costituisce il processo
creativo, nel momento in cui l'evento "accade". In un GdR che nasce
dalla scrittura e vive nella parola, l'interattività della forma
letteraria è tale nel momento in cui i giocatori mettono in atto la
loro performance, con tutte le sue componenti di
improvvisazione, irrevocabilità dell'atto e imprevedibilità del
risultato.
E stato Richard Schechner a definire le caratteristiche della
performance nei suoi studi sul teatro. Il GdR e la letteratura
interattiva sono la realizzazione più compiuta, a mio avviso, della
teoria di Schechner. Non è questa la sede per approfondire i
rapporti tra il teatro e il gioco, un tema che ho sviluppato
ampiamente nel volume I padroni della menzogna (1997).
C'è una bella citazione del grande attore francese, Louis Jouvet
(1955), che esprime molto bene il lato "giocoso" dell'attore, il suo
"bisogno di mimicry": Ogni uomo possiede un'anima più
grande della propria vita ed è questo di più che nutre il
personaggio (Jouvet 1989:180). Il gioco di narrazione e di
interpretazione permette di soddisfare questo bisogno, che è il
nutrimento dell'arte: il bisogno di esprimere delle potenzialità che
erano virtualmente nel seme all'atto della nascita e che solo in
piccola parte si sono realizzate nell'albero. C'è una parte di vita
non realizzata in ciascuno di noi che chiede di essere vissuta. Gli
artisti, gli scrittori che sentono nascere dentro di sé i personaggi
che poi prenderanno vita nella narrazione, sono soltanto la parte
emergente di un desiderio diffuso, il desiderio di vivere
l'avventura di un "mondo possibile". Il gioco delle identità e dei
mondi virtuali è la rivendicazione di un diritto al gioco come
espressione della libertà soggettiva contro le costrizioni del
tempo, dello spazio e dei valori sociali. Ecco dunque il fascino che
esercita il rischio, il mito dell'eroe, il superamento dei limiti,
la violenza. Quanto più nella società si riducono, almeno
tendenzialmente, le sfere primordiali di interazione sociale, legate
all'incertezza, all'imprevedibilità, alla vertigine, allo
smarrimento che si prova ad uscire dal mondo, al desiderio di
sottrarsi alle norme, al piacere dionisiaco del disordine, tanto più
cresce il bisogno di reintegrare nel vissuto ciò che è stato
irrimediabilmente perduto e che invece è una parte irrinunciabile
del nostro essere "umani": la sorpresa.
Vivere nel "Giardino dei sentieri che si biforcano", percorrere con
la fantasia e l'immaginazione le strade che la realtà fattuale ha
sbarrato, significa rinnovare dentro di sé l'utopia del viaggio,
della ricerca, l'instancabile insoddisfazione del vivere. Tutto
questo può sembrare molto distante e anche molto astratto. Invece
quello che desidero sottolineare è la centralità che questo tema
della mimesi, della simulazione e della fiction ha assunto nella
nostra società a partire dalla vita quotidiana. La demarcazione così
consueta e scontata tra gioco e lavoro è saltata sotto i nostri
occhi, sebbene la maggior parte di noi non se ne sia accorta. Siamo
diventati tutti "giovin signori" di una società neo-aristocratica in
cui solo le macchine lavorano e gli uomini si dedicano alle lettere
e alle arti? Evidentemente no, anche perché il nostro punto di vista
è quello un po' parziale delle società post-industriali che
celebrano a gran voce passaggi "epocali" privi di significato per la
maggior parte delle popolazioni della Terra. Cerchiamo di non
dimenticarlo in un eccesso di orgoglio occidentale.
Stiamo vivendo invece una mutazione
antropologica che ci vede immersi e coinvolti sempre più
massicciamente nel processo di virtualizzazione della realtà. Lo
spazio delle Merci, per citare Pierre Levy, dominato dall'economia
dei beni materiali e definito in funzione della produzione e del
consumo, è stato invaso dallo spazio del Sapere, definito dalle reti
digitali, dalla vita artificiale, dal ciberspazio. In questo spazio
il gioco e il lavoro si confondono. La simulazione sconfina
nell'inganno e la menzogna per gioco, accettazione volontaria della
finzione, sfuma nella menzogna come strumento di potere, come
acquisizione di un vantaggio non legittimo al servizio al di un
interesse. Che noi lo vogliamo o no, siamo sempre di più immersi
nella finzione e nei mondi immaginari: quelli della politica, della
scienza, della cronaca; tutti mondi governati dai mandatari della
massa: i registi di cinema, i giornalisti, i politici, gli
scrittori, gli attori, incaricati da noi di vivere le migliaia di
vite che a noi sono negate. Un grande dramma del quale noi restiamo
solo spettatori.
Molti forse ricordano un film, Capricorn One, in cui per non
ammettere il fallimento di una missione su Marte, la Nasa mette in
scena l'impresa simulandone il risultato ad uso e consumo della
televisione. I telespettatori assistono all'evento tramite un
filmato e non possono percepire la differenza tra "realtà inventata"
e "realtà televisiva" semplicemente perché non c'è alcuna
differenza. Un tecnico della NASA che lavorava alla missione Apollo
all'epoca dello sbarco sulla luna, ha pubblicato un libro nel 1997,
in cui sostiene che questo è proprio quanto è accaduto.
L'atterraggio sulla luna è stato un enorme imbroglio.
Vero? Falso? E' vera la versione della Nasa, quella cui tutti noi
crediamo? O è vera la versione di Bill Kaysing, l'autore di questa
denuncia. Molti americani sono disposti a credere alle parole di
Bill Kaysing. Evidentemente non c'è menzogna che non possa apparire
come rivelatrice di una verità, e non c'è verità che non possa
essere nascondere qualche menzogna.
Jean Baudrillard in tre saggi apparsi durante la guerra del Golfo
afferma - paradossalmente - che la guerra non c'è mai stata, la sola
cosa che è "realmente" esistita è la messa in scena di una guerra,
la simulazione di essa sugli schermi televisivi di tutto il mondo.
Ecco dunque che il tema del gioco ci permette di guardare come in un
macroscopio al fenomeno più significativo del nostro tempo: il
crocevia tra informazione e fiction. Tra realtà e apparenza.
Ho aperto questo intervento con una citazione di Edgar Allan Poe. La
fantasmagoria bizzarra di Ligeia viene descritta da Poe in un
racconto emozionante in cui la volontà di esistere riesce a
ingannare la Morte e a trionfare su di essa. Il riferimento alla
misteriosa tappezzeria è uno dei tanti che Poe dissemina in tutto il
racconto per dare sostanza reale alle allucinazioni del
protagonista. Si tratta di una anamòrfosi, un effetto ottico diffuso
soprattutto nel XVII e XVIII secolo che permette di realizzare, con
certi virtuosismi tecnici, delle immagini che cambiano muovendosi
verso o intorno ad esse, oppure utilizzando specchi, lenti o
rifrazioni ottiche particolari. Una sorta di tecnica della
prospettiva che anziché essere una scienza della realtà diventa uno
strumento per creare delle illusioni. C'è molto di più che una
semplice affinità tra l'anamòrfosi e alcune tecniche contemporanee
di produzione e riproduzione delle immagini. La trasformazione,
deformazione e ricostruzione delle figure sulla base di regole
dettate dalla geometria e dalla matematica esprimono una
insoddisfazione nei confronti della prospettiva classica.
All'inganno dei sensi al fine di dare una rappresentazione
verosimile del mondo si sostituisce l'invenzione di un mondo
inverosimile al quale i sensi attribuiscono una parvenza di realtà.
Rispetto alla prospettiva lineare, l'anamòrfosi rivela più
esplicitamente il suo artificio. Ovviamente artificiali e
convenzionali lo sono entrambe le tecniche. L'anamòrfosi però, per
manifestare compiutamente il suo soggetto richiede una
partecipazione attiva dell'osservatore, al quale viene richiesta
un'azione affinché dall'immagine confusa e indecifrabile possa
emergere il soggetto nascosto dall'autore. In altre parole
l'osservatore viene invitato a esplorare un mondo che non ha altra
materialità che quella che gli viene attribuita dall'osservatore. L'anamòrfosi
è affascinante proprio perché è una metafora molto efficace della
comunicazione postmoderna: esporre ad essa la percezione secondo gli
schemi convenzionali significa rimanere nella palude
dell'indecifrabile oppure rimanere al di qua del suo mistero. Farsi
dominare dalla menzogna. Per smascherare l'anamòrfosi l'osservatore
deve diventare attivo, deve giocare con l'immagine, dominarla
anziché esserne dominato.
L'anamòrfosi però è una tecnica ingenua. Esibisce candidamente il
suo inganno. La società mediatica non è per nulla ingenua. I giochi
di interpretazione e la letteratura interattiva possono essere un
potente strumento critico per comprendere ciò che ci prepara il
futuro della comunicazione.
Riferimenti bibliografici
Giuliano, L., In principio era il drago, Proxima, Roma, 1991
Giuliano, L., I padroni della menzogna. Il gioco delle identità e
dei mondi virtuali, Meltemi Ed., Roma, 1995
Giuliano, L., Areni, A., La maschera e il volto, Proxima,
Roma, 1992
Jouvet. L., Elogio del disordine, Casa Usher, 1989
Levy, P., L'intelligenza collettiva, Feltrinelli, Milano, 1996
Nietzeche, F., La Gaia Scienza, Adelphi, Milano, 1988
Schechner, R., La teoria della performance, Bulzoni Ed.,
Roma, 1984
Turner, V., Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986
Winnicot, D.W., Gioco e realtà, Armando Ed., Roma, 1971
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