L'erbarioWolf Periodico di comunicazione, filosofia, politica
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Nuova Rivista Cimmeria

 Filosofia Italiana

 

di Clementina Gily

 

Quando la sedicenne Pimentel Fonseca fu cooptata nell’Accademia dei Filaleti, appena poco prima di esserlo addirittura nell’Arcadia, si dice fosse investita dell’onore nel corso di un ricevimento a Palazzo Serra di Cassano. Il salotto era luogo deputato alla conversazione, ai dialoghi, agli incontri di vario genere. Come i caffè, era allora l’equivalente della agora per l’èlite che aspirava a preziose discussioni.  Così immagina Striano il fuggire della fanciulla Eleonora, emozionata, appena ricevuto l’alto onore:

“Finalmente libera, si precipitò verso Sanges, il quale le sorrise. Anche Mariangela la salutò. Lui generosamente le pilotò al gruppo delle dame che gustavano sorbetti siciliani dai colori bellissimi.

- Mia cara – esclamò Maddalena Serra – vi siete finalmente decisa ad abbandonare le Muse? Avrete le labbra asciutte e il gelato ci vuole. Mon trésor. – sorrise a Mariangela – Toi aussi tu as décidé d’abandonner Orphée? Un sorbetto per rinfrescarti il cuore -.

Le altre continuavano a ridere intorno a Chiara Spinelli. In un angolo vide Pagano, pallido, teso, che non cessava di fissare la leggiadra principessa. Giulia Carafa esplose, la voce ghiotta di bella rossa opulenta: - Dicci la verità, Chiaretta. Le insegnerai davvero proprio tutto quel che tu sai? -

- Elle n’aura pas besoin de maitresse pour certaines choses! – insinuò la duchessa di Popoli”[1].

Le chiacchiere delle dame riguardavano nientemeno che la Regina Maria Carolina, che i cortigiani aspiravano a giudicare e forse ad ammaestrare, sperando nel suo favore per il progresso: e pareva ce ne fossero le premesse, in quel 1768!

Tra l’alto rango dei cortigiani della cultura salottiera del ‘700 e la magia della pagina di Striano, possiamo dubitare di un simile esempio letterario d’una conversazione ben tenuta? Conversando, nel farsi gruppo di pochi che poi si riapre al discorso generale di tutti, si poteva parlare di se stessi, confessare passioni, tessere trame; e poi, tornando al discorso più ampio, scambiare informazioni di politica e cultura.

Eppure dove si studiava metodicamente di educare alla conversazione, al corretto ragionare civile che intreccia il rapporto tra gentiluomini e gentildonne, e perciò si stabilivano regole, il brano citato sarebbe potuto andare in esempio di una conversazione scorretta. Nel St. John College di Oxford [2], dove la conversazione tra studenti a cena era in uso e sollecitata ancora negli anni ’50 del nostro secolo, si ricorda che era proibito l’uso di più di cinque parole straniere; inoltre occorreva non parlare di lavoro o di argomenti comunque ristretti, né fare nome di donne o lanciarsi in parafrasi che indulgessero al chiacchierio pettegolo: altrimenti s’incorreva nello sconcing, consistente nell’offerta di birra a tutta la tavolata per farsi perdonare l’errore. Simili scorrettezze si riteneva impedissero il fluido procedere della conversazione per le incomprensioni ed esclusioni di alcuni, per l’esibizione di sentimenti personali che zittiscano altri. Se si impedisce il libero scorrere alternativo di tesi ed interventi, si rompe l’armonia del consesso.

Certo da queste regole emerge una conversazione paradigmaticamente inglese, necessariamente ristretta alle frasi fatte ed al tempo che fa: mostrando nello spaccato di un tessuto linguistico comune le abitudini di una comunità di parlanti. In quel semplice essere sociali, si fanno confluire gli interessi alla superficie: donde si può procedere verso il profondo; intanto, si agisce comunitariamente, affidandosi al logos.

E non contano solo le parole. Prendiamo un brano di Zola:

“Tanto più, diceva seccamente Clémence, che l’operaio non è maturo e deve essere diretto”. Lei parlava raramente. Quella ragazza alta e seria, unica donna tra tanti uomini, aveva un modo professorale di ascoltare chi stava parlando di politica. Si appoggiava al tramezzo inclinando la sedia, beveva il grog a piccoli sorsi, e guardava gli interlocutori aggrottando le sopracciglia e dilatando le narici, con approvazione e disapprovazione completamente mute, ma che dimostravano che capiva, che aveva idee molto precise sugli argomenti più complessi. A volte si arrotolava una sigaretta, soffiando poi sottili sbuffi di fumo dagli angoli delle labbra, e assumendo un’espressione più attenta. Sembrava che la discussione si svolgesse davanti a lei che, alla fine, avrebbe distribuito i premi. Era convinta di conservare il suo ruolo di donna non dando mai il suo parere e non perdendo il controllo come gli uomini”[3].

Clémence partecipa alla conversazione col suo silenzio, con gesti osservati dagli altri parlanti ed attentamente valutati: è una effettiva partecipazione al discorso comune. E’ spesso il modo dei partecipanti eminenti, meglio conosciuti ed osservati, avari di interventi ma non alieni al prender parte, autorevolmente. Oltre alla complicazione delle parole, alle frasi ed alle modalità da evitare/adoperare, emerge la centralità del ruolo dei silenzi. Essi non sono solo partecipazione di tipo speciale, sono anche attesa del turno, dell’opportunità data a ciascuno di prender parte, elemento essenziale perché quel parlare possa essere definito conversazione e non conferenza, ad esempio. Silenzi, parole, regole, turni, sono tutti binari in cui si attua la comprensione, che assicurano il decorso corretto della comunicazione. Essi mostrano nell’importanza della turnazione il motivo stesso per cui nel Settecento essa diventò tanto importante generando un vero e proprio genere letterario nella manualistica sul tema: la forma della conversazione ha il fondamento essenziale nell’eguaglianza dei diritti dei parlanti, tanto che essa si interrompe quando viene meno.

Il periodo d’oro della conversazione fu quella società del ‘700 che nei Salotti, nelle Accademie, nei Caffè ricercò l’eguaglianza dei comuni ragionari dall’esplicito, profondissimo, significato etico politico. Gli ideali illuministici correvano nelle società colte con la forza del temporale, generando conversazioni di ogni tenore, che avevano visto le loro prime consistenti affermazioni nelle atmosfere raffinate dei salotti.

“Là conversavano insieme, in un clima di eguaglianza, civiltà, tolleranza e galanteria, uomini e donne di rango e di temperamento più diversi, delle opinioni più opposte, dalle vocazioni più differenti, dai talenti in apparenza i meno simili…. Società letterarie, la lusinga di una repubblica delle Lettere inedita sin’allora, che comprendeva nei suoi ranghi eruditi e filosofi, poeti e sapienti, calvinisti e cattolici, uomini e donne del gran mondo letterato”. E’ il salotto di Mille de Scudery, nella Parigi di Foucquet più che del Re Sole. Intorno a Foucquet si riunivano, in uno spazio letterario dominato dall’Astrée e dagli Essais di Montaigne, “banchieri e uomini d’affari, diplomatici, faccendieri dai difficili intrighi, trovando anche così una distensione e una palestra dove esercitare il loro spirito sui soggetti più interessati. Parimente i filosofi e sapienti perseguitati dall’Università, condannati dalla Chiesa, ignorati dalla Corte, trovavano ascolto attento e un’accoglienza favorevole in questa informale Accademia di Parigi, che non manca di naso per riconoscere i talenti veri né di gusto di festeggiare le novità”[4].

Era la nascita di un’opinione pubblica distinta dalle Corti, segnata da una vivacità culturale che dava nascita alle Accademie letterarie, alle prime associazioni politiche moderne: il che diveniva evidente alla nascita dei giornali politici, nelle Rivoluzioni[5]. Salotti e Caffè insieme al profumo hanno l’aura del nuovo tempo, sono l’immagine musicale, conversazionale, di quella “sfera di privati riuniti come pubblico” che teorizzava Kant nel Conflitto delle facoltà.

“Una conversazione potrebbe essere semplicemente questo, il tracciato di un divenire” dice Deleuze, capace di creare, come la musica di Mozart, “un’evoluzione a-parallela, dunque nient’affatto uno scambio”, ma “una confidenza senza interlocutore possibile, come dice un commentatore di Mozart”[6]. Una confidenza senza interlocutore possibile è il soliloquio che non conosce dimensione d’appartenenza (come l’uso pubblico kantiano della ragione)  che si riconosce in una evoluzione diversa ritrovandovi una somiglianza rivelatrice, ma a-parallela. Dunque convergente divergente, comunicabile incomunicabile. Impossibile portarla al detto, vive la dimensione di un’ombra cui ci si abbandona per qualificare se stesso, prima ancora dell’altro. “Siamo dei deserti popolati di tribù, di fauna e di flora. Passiamo il tempo a radunare queste tribù, a disporle in altri modi, a farne prosperare altre... Il deserto, la sperimentazione su noi stessi, è la nostra unica identità, la nostra unica possibilità per tutte le combinazioni che ci abitano”[7]. L’appropriarsi di una idea altrui è doveroso, in questa ottica, per il suo profondo significato di rivelazione di noi a noi stessi – significa l’incontro con quel se stesso che solo l’altro ci rivela, fornendoci una luce che non avevamo coscientemente colto, la cui consistenza ci inchioda, perfettamente detta, musica superiore di un consenso eletto. Un balbettio più che un taglio (precisa Deleuze facendo differenza tra Pick up e quel che Borroughs definiva Cut up), un riappropriarsi lento di una familiarità, riassaporante, prendendo e ripetendo - cristalli di cui osservare i riflessi. La dimensione di rime tornanti, nel castone della memoria: che non se ne appropria omologandole a sé, ma solo le ripete; per conservarsi la possibilità di ricavare altre suggestioni. E’ la magia della citazione.



[1] F. STRIANO, Il resto di niente, Loffredo 1995, pp. 54-5.
[2] P. BURKE, L’arte della conversazione, Il Mulino, Bologna 1987 (1993).
[3] E.ZOLA, Il ventre di Parigi, Roma 1997 p.138 (1873 in feuilleton e in volume).

[4] FUMAROLI Marc, Le poéte et le roi, Jean de la Fontaine en son siécle, Edition de Fallois, Paris 1997, pp.195 e sgg.

[5] G. RICUPERATI, Giornali e società nell’ancien régime 1688-1798, in La stampa italiana dal 500 al 700, Bari 1976.

[6] G. DELEUZE – C. PARNET, Conversazioni, Ombre corte, Verona 1998 (1977)  p.8-9.

[7] Ivi, p.17.