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Emilio Garroni, L’arte e l’altro dall’arte, Laterza, Bari 2003. Di
Clementina Gily Nell’anno
bicentenario della morte di Kant (morto il 12 febbraio 2004), recensire
un libro in cui si parli di Kant sembra cosa giornalisticamente opportuna:
ma di Kant si seguita sempre a parlare, soprattutto per chi è filosofo.
L’interpretazione di Garroni offre un nuovo e affascinante contributo. La
riflessione su Kant si inquadra in questo volume tra diversi altri argomenti,
ma tutti si arricchiscono di questa luce iniziale sul giudizio estetico
in Kant, in cui Garroni trova l’arte e l’altro dall’arte: vale a dire
una estetica che non si limita al bello, nel puro fondamento speculativo,
ma investe invece tutta la realtà. L’estetica si pone già in Kant come
filosofia integrale dal punto di vista della comprensione. D’altronde
già un lettore di qualità della Critica del Giudizio come Luigi Scaravelli
vi trovava la summa del suo
pensiero, capace di aprire in tutte le direzioni, confermando l’interesse
che già dal suo primo apparire questa opera diede. Ma nonostante le
tante opere e studi che ne sono nati nel tempo, stenta a comparire quel
che nell’opera c’è come dato prioritario, la sostanziale unità di concezione.
Garroni
cita i frammenti kantiani che esplicitamente attribuiscono questo carattere
alla terza critica, facendone non un compimento ma una intuizione originaria.
Solo dopo aver approfondito partitamene i punti culturalmente più urgenti
della riflessione, Kant riesce a trovarle una espressione sistematica
(nel senso kantiano di intima coerenza). L’uso ipotetico della ragione
è qui trattato in modo innovativo e chiaro, uscendo dalle difficoltà
che ancora nella ragion pura affettavano il discorso sullo schema, ma
anche la trattazione dell’esperienza: si entrava nel territorio dell’empirico,
per affermare il dominio scientifico, si lasciava invece scoperto il
semplice campo di presenza, più ricco dell’altro, da cui provengono
misteri come quel Talent che
per Kant consente, non si sa bene come, di evitare l’errore del giudizio.
La
terza critica non produce scienza, pur fondando in una legislazione
a priori per poter dialogare con il territorio dell’empirico già indagato.
Si occupa del ragionamento per analogia, strumento della facoltà di
giudizio fondata sul sentimento di piacere e dispiacere, terza facoltà
- oltre la facoltà di conoscere e quella di desiderare. L’analogia è
facoltà critica per eccellenza, perché non ha asserti o scopi da raggiungere,
resta immersa nel dover essere. Il giudizio perciò parte dall’empirico,
come la ragion pura, ma la sua diversità consiste nel cercare le leggi
dell’applicazione dell’universale trascendentale; come la pratica suppone
seguendo la coerenza della ragione: il sistema delle conoscenze empiriche
si estende così al campo della semplice presenza, dove non si danno
solo asserti e conoscenze, ma particolari di cui va cercata una legge
– che si costituisce per il conoscere, di cui non si dà scienza. Vi
si afferma la possibilità della conoscenza, garantita solo dalla convinzione
che l’esperienza sia sistematica ed obbedisca a leggi costanti. Un asserto
mai dimostrabile. La
legislazione a priori, quindi, resta soggettiva e valida solo per la
nostra conoscenza, in quanto fonda nel sentimento di piacere dispiacere:
la coerenza del mondo ci piace, conferma la nostra capacità di comprenderlo,
ci rende sicuri d’intendere la nostra vita nel cosmo. La facoltà teleologica
di giudizio seconda il sentimento di piacere perché ci inserisce nell’intero,
dà senso alla nostra vita al di là della palese irrazionalità del singolo
apparire e sparire. Il sentimento di piacere dispiacere esplicita la
conformità della natura a scopi a noi comprensibili, nel giudizio teleologico,
nel giudizio estetico: di entrambe le conformità diciamo, con minore
o maggiore proprietà, che sono belle. Bella
è la formula matematica perfetta, la soluzione di un problema scientifico
viene detta elegante. La
sua diversità produce una conoscenza che non conduce ad asserti, ad
un sapere progressivo. Approfondirla significa rendersi conto di come
sia possibile, senza giudizi determinanti, caratterizzare nelle sue
proprietà il giudizio riflettente, che giudica nel campo dell’empirico
a suo modo, dando voce a quel di più che eccede la determinazione e
la risposta unitaria nella chiarezza dell’aut aut. Questo giudizio solo
esibisce il suo oggetto pensandolo nell’immaginazione, dichiarandolo
conforme ad un gusto soggettivo che è pur sempre universale – non si
pensa solo relativamente al qui ed ora: ma diversamente. Il
giudizio teleologico ed il giudizio di gusto non escono mai dal libero
gioco delle facoltà, ch’è libero sinché il gioco dura: in esso fonda
la relazione di un giudizio universale riflettente, non determinante
ma capace di gettare luce su di esso. Il senso comune, in cui il gioco
si compie, esplora l’empirico nel campo della presenza ricostruita con
l’immaginazione. Svela un senso delle cose, senza del quale la conoscenza
umana non sarebbe possibile – suo fondamento è un dovere, come nella
ragione pratica, quello di assicurare la conoscenza alla sua possibilità.
In ciò consiste il libero gioco delle facoltà, teoretica e pratica,
che si è dovuto approfondire prima di saper chiarire questo rapporto,
che nasce dalla necessità di dare spazio alla semplice presenza che
sfuma fosforescenze dietro il giudizio sintetico a priori; dalla possibilità
rivelata dalla ragione pratica di dare valore fondativo ad asserti di
coerenza. Ciò costruisce la possibilità di approfondire l’elemento trascendentale
del sentimento di piacere dispiacere, indomabile limite della ragione
sin dagli inizi. Porre
principi, affrontare trascendentalmente il problema, è dare i lineamenti
di una concezione dell’immaginazione nella sua capacità di conoscenza.
Garroni sottolinea che intendere in modo unitario la terza critica fonda
l’estetica come intera filosofia perché ciò oltrepassa persino il come se teleologico teorizzato nella Prima Introduzione alla Critica del Giudizio (poi infatti eliminata
dall’edizione), perché la fondazione trascendentale supera la semplice
analogia. Dal libero gioco delle facoltà viene l’unione di analogico
e trascendentale in un uso estetico costitutivo della ragione, che si
mostra capace di affermazioni trascendentali che si caratterizzano nella
comprensione. L’immagine,
in figura ed in parole, è una costruzione trascendentale. Kant l’affronta
nel discorso sullo schematismo, tema che ha tanto interessato gli interpreti
della Prima Critica più che della Terza, dove è invece il suo senso.
La libertà di cui qui la costruzione gode è parsa una sorta di concessione
al tema del giudizio di gusto, oggetto della trattazione, che lo trasforma
in costruzione trascendentale da anello di congiunzione tra conoscere
ed in conoscibile, supposto a partire dai giudizi già fatti e costituiti da cui la Ragione Pura parte per individuare i concetti
puri. Nella
terza critica ci si muove nel campo dell’esperienza esaminando il particolare
secondo il giudizio estetico o teleologico come
se la natura fosse finalizzata al conoscere, la conoscenza è costruzione
di fenomeni sottoposti ad un giudizio condizionato dalla soggettività
esplicita. Allora, il principio della determinazione
accorda immaginazione ed intelletto facendosi giudizio riflettente,
l’anello di congiunzione non è uno schema come esibizione di concetti
puri ma diventa uno schematizzare senza concetto a priori che non sia
sentimento di piacere e dispiacere. Non si tenti di fermare questo libero
gioco che sguscia davanti alla regola, l’affermazione è un tipico ossimoro
della terza critica, un altro vede il senso comune come principio ed
insieme effetto del gioco delle facoltà; un altro la facoltà estetica
di giudizio come sia oggetto che legge. Ossimoro
non è però contraddizione ma paradosso. La filosofia critica consapevolmente
sceglie questa direzione ritenendola significante oltre la determinazione.
Kant ad esempio pone l’antinomia, l’aut
aut, proprio per ribadire l’indeterminatezza necessaria tra i termini,
per affermare la complementarietà che sola può dare luce alla totalità
indeterminata del campo della presenza
dell’empirico. Il
giudizio della terza critica non si pone come identità – scienza ma
come similitudine – immaginazione, è un’anticipazione di senso, una
presupposizione trascendentale (p. 117): “L’esempio non esibisce un
principio … ma un concetto … lo sfondo o trama concettuale su cui i
casi, in quanto considerati anche come individuali, si stagliano, collocandosi
entro una famiglia, come esempi, nella loro peculiare irriducibilità“
(p. 123). Si tratta di una verità che non aggiunge nulla al noto, ma
instaura “una comprensione pura, cioè non ‘superiore alla conoscenza effettiva’,
ma propriamente ‘non conoscitiva’
di oggetti determinati’ “ (p. 124), cioè disegna la mappa dove si delinea
“la possibilità che da un’immagine interna (percepita e prodotta) si
possa via via passare attraverso una primaria configurazione di ‘famiglie’
e, quando è possibile, di ‘classi’, in funzione di pertinentizzazioni
e di estensioni analogiche, a schemi immaginativi di concetti empirici
e di concetti in genere, per esempio i concetti delle teorie fisiche
e della stessa filosofia (…) in vista di una conoscenza e in generale
di una comprensione. Perciò preferiamo chiamarla ‘condizione estetico
- immaginativa” (pp. 126-7). Questa è secondo Garroni l’unica possibile
accezione in cui si può oggi ancora parlare di verità al singolare,
grazie all’analogia che guida ad un “percorso opportuno” (p. 166) –
non una parola, non una definizione, piuttosto una famiglia di significati
(Wittgenstein) che costruisce una unità analogica, che rende possibile
il problema filosofico della verità. Comprensione è una famiglia di
significati in cui l’unità di senso resta indicibile ma soggetta “a
qualche esplicitazione circolare” (p. 119) determinabile in senso non
esclusivo. Qui Garroni esplicitamente introduce un modo nuovo di guardare
al concetto della famiglia di significati. L’immaginazione
nella Terza Critica, quindi, schematizza senza concetti determinati
ma non senza una interna legalità, è disposta ad una legalità speciale
soggettiva che le consente la proporzione determinata tra schema empirico
e concetto empirico, supponendo una proporzione (come
se). Ciò mina il primato dell’intelletto, che si vede scavalcato
da una immagine interna ed indeterminata che coglie tutti i significati
possibili. Un’immagine non solo estetica ma piuttosto esemplare, un’esibizione
simbolica, un’immagine originaria, densa di un destino di complessità
che traspone un senso, irrepresentabile in se stesso. Così, è essa la
guida dell’approfondimento del concetto di verità, piuttosto che esserne
la pallida ed improbabile ombra di verità soggetta al gusto invece che
alla categoria. Nella sua debolezza di essere immersa in un gioco che
sfugge ad ogni fissità e determinazione costruttiva, svela la sua origine
creativa e fondante nel qualificarsi come immaginazione, base dell’arte
e del sapere.
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