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Nuova Rivista Cimmeria

 Filosofia Italiana

 

 

Gianfranco Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione. La nascita dell’homo game, Editori Laterza, Roma/Bari, 2003[1]

di Giovanna Annunziata

 

Gianfranco Pecchinenda si propone in questo volume di offrire “un’analisi dei modi attraverso i quali i videogiochi stanno influenzando i processi di costruzione sociale dell’identità nel mondo contemporaneo” consapevole che la nascita e la diffusione di un nuovo medium determini una serie di imponenti trasformazioni sull’uomo sia nel suo rapportarsi alla società in cui vive che in un ambito più strettamente personale e addirittura fisiologico (tecnologie come protesi). A tal fine l’autore affronta il tema dei videogiochi  movendo da una serie di riflessioni di carattere innanzitutto psicologico (come l’uomo rappresenta sé stesso al di fuori di sé, come si rappresenta ed autorappresenta etc.), poi sociologico-comunicative (soprattutto ripercorrendo le tipizzazioni teorizzate dal determinismo tecnologico dal Tipographic Man di McLuhan fino al suo Homo Game prodotto della «cultura della simulazione»), infine tecno o ciber-filosofiche, per usare una definizione di Franco Berardi[2]. 

Il testo è ricco di riferimenti interessanti a tematiche diffusamente trattate da autori vari (i cui volumi sono accuratamente riportati nell’ampia raccolta bibliografica alle pp. 157-166): tra le più  meritevoli di attenzione segnaliamo le riflessioni sulla nuova tipologia identitaria “nomade” definita da Zygmunt Bauman (pp. 40-41); sulla rinnovata percezione temporale correlata al mondo dei videogame ed il concetto di tempo a-cronico di Castells e Landau (pp. 42-43); il discorso sull’uomo “come ibrido tecno-culturale” recuperato da Popper e da Jones (p. 50); le analisi sul rapporto tra uomo e tecnologia di Antonio Caronia (pp. 57-58) e sull’uomo contemporaneo in genere sviluppate da Philipphe Breton (pp. 66-67); il discorso sull’inclusione del gioco tra le “necessità antropologiche” di Ortega y Gasset (pp.79-82); le considerazioni sulla postmodernità di Frederic Jameson (pp. 88-89); le digressioni di Edgar Morin sul “neoarcaismo” caratterizzante la cultura industriale (118-121); infine le interessanti classificazioni dei videogame riprese da Burnham, Berger, Cohen, Wolf, Turkle (pp.91-101).

Nel tracciare  il lungo processo storico-sociale nel corso del quale uomini e tecnologie hanno interagito Pecchinenda identifica i due poli estremi di questo cammino nell’homo sapiens - reso tale soprattutto dalla tecnologia del linguaggio – e nell’homo communicans che “ha subito la sua fondamentale e caratteristica trasformazione grazie alla sua ibridazione con le protesi tecnologiche dell’informazione e della comunicazione digitale” e di cui l’homo game può essere considerato la più recente e peculiare espressione. Il carattere distintivo di questo moderno uomo comunicante è quello di trarre la sua energia non da qualità intrinseche provenienti dall’interno ma dalla sua capacità di innestarsi nel mondo esterno attraverso una rete di sistemi di comunicazione, per mezzo dei quali produce e riceve informazione. Per tanto assistiamo al progressivo rattrappirsi dell’interiorità di fronte all’avanzare delle molteplici rappresentazioni esterne del sé che l’individuo produce per mezzo delle tecnologie informatiche: «Se il computer costituisce, sia metaforicamente che tecnologicamente, lo strumento attraverso il quale l’uomo moderno elabora l’immagine della propria identità, il videogioco può essere considerato, a mio parere, - spiega l’autore - lo strumento fondamentale e indispensabile attraverso il quale il computer e la cultura informatica ad esso associata è giunto a diffondersi e a radicarsi nella società contemporanea, a partire dalle più giovani generazioni per giungere a quelle oggi più mature.»

Pecchinenda usa la singolare definizione di “cavalli di Troia” per descrivere i new media, ed i videogame in particolare, intendendoli quali strumenti che, apparentemente innocui, nascondevano invece potenzialità rivoluzionarie nel diffondere e far penetrare a fondo nella nostra società contemporanea la “cultura della simulazione”. L’uomo contemporaneo[3], dotato di un’identità essenzialmente comunicativa composta di informazione più che di materia, non utilizza più le tecnologie come semplici strumenti bensì come processi da sviluppare sempre più finemente attraverso l’uso (dal learning by using al  learning by doing): più si diffonde una tecnologia più essa viene migliorata e continuamente ridefinita dai suoi fruitori. Dunque l’uomo viene oggi considerato essenzialmente come un “essere tecnico” che produce tecnologia per compensare le proprie carenze[4] e che trasmette di generazione in generazione le proprie acquisizioni e competenze attraverso il linguaggio, strumento fondamentale per la costruzione dell’identità definibile in questo senso come «processo di costruzione sociale di un’entità soggettivamente percepita e oggettivamente condivisa».

Rispetto a quella degli altri media la logica dei videogiochi invita a ripensare, riguardo al tema dell’identità, all’antico archetipo del Doppio[5] considerato quale cortocircuito tra la percezione del proprio Sé e quella oggettiva: il videogame infatti rende i propri fruitori non dei puri e semplici spettatori ma dei veri e propri partecipanti resi tali dal particolare processo di identificazione del giocatore col proprio personaggio, col proprio Doppio appunto, che determina il temporaneo abbandono dei tradizionali riferimenti spazio-temporali per entrare nel sistema del gioco: questo «è un mondo – osserva Pecchinenda – nel quale si può immaginare di realizzare il proprio Sé secondo modalità assolutamente originali.» Indicando come “schermo tecno-sensoriale” quel filtro che l’uomo interpone fra il proprio apparato sensoriale e l’ambiente esterno grazie alle tecnologie digitali bisogna riflettere sui nuovi codici culturali che permettono questa comunicazione, nella fattispecie quelli diffusi dai videogiochi: innanzitutto sono profondamente mutate le dimensioni del tempo – che perde ogni prospettiva divenendo “tempo senza tempo” - e dello spazio – che abbandonando ogni delimitazione, coincide con il luogo dove si incontrano i flussi comunicativi. Declinata una certa visione del tempo e dello spazio e dunque della realtà in genere, ci si ritrova in una situazione in cui tv, videogiochi ed altri media fanno vacillare le fondamentali certezze dell’uomo generando altri spazi e percezioni che conducono ad un rimodellamento delle capacità di vedere la prospettiva. Le tecnologie però non soltanto mutano il modo dell’uomo di percepire l’esterno, ma esse vanno ad incidere considerevolmente dall’interno anche sull’immagine che l’uomo ha di sé, della propria identità, del proprio corpo, che passa ad essere da corpo che si serve di strumenti tecnologici a corpo che si fa tecnologia: «Il Sé solido, unico, durevole nel tempo, proprio della modernità, comincia a ‘destabilizzarsi’ e ad essere sostituito da un essere nomade, in grado di soggiornare in una situazione spazio-temporale frammentata, in una serie di identità provvisorie, mutevoli, fluttuanti.»

In questa nuova dimensione sempre più fluttuante e pertanto angosciosa il gioco rafforza il suo carattere di distrazione, di diversion come una delle grandi dimensioni culturali (Ortega y Gasset), una realtà “altra” dentro cui rifugiarsi per scappare dalla schiavitù del mondo reale. Il videogioco si inserisce in questo discorso  per una serie di caratteristiche che lo rendono capace di assolvere in pieno a questa funzione di diversivo e soprattutto di riuscire ad offrire – così come ipotizza l’autore – anche agli adulti «la possibilità di sperimentare una situazione ludica in cui il gioco si fa molto più reale, nel senso che consente certi gradi di compenetrazione (e di conseguente in-consapevolezza) molto vicini a quelli presenti nei bambini che giocano».[6] Questo è dovuto soprattutto allo straordinario grado di coinvolgimento che il videogame suscita nei fruitori essi stessi attori protagonisti dell’esperienza di gioco. Altro aspetto assai accattivante  del videogioco (che poi già spiega l’enorme successo del genere televisivo del serial) è certamente individuabile nella presenza rassicurante della ripetitività delle scene che si ripropongono sempre uguali a se stesse ma rispetto allo spettatore televisivo qui il giocatore è confortato dall’ l’autocoscienza di giocare, dal sapere cioè che ci saranno altre opportunità per rimediare agli errori commessi, in una seconda, terza, centesima partita.  «Anche il più giovane dei giocatori di videogame – come fa notare Turkle – impara ben presto che il gioco è sempre lo stesso; si tratta di un tipo di socializzazione tipico che è caratteristico della cosiddetta cultura della simulazione: vi è innanzitutto ripetitività (ritualizzazione), ciclicità (temporalità non progressiva), quindi rassicurazione e, in un certo senso, la continua ricerca di una corrispondenza tra successo nel gioco (superamento delle ciclicità, delle barriere e degli stadi, che ricorda molto la visione del mondo delle culture non secolarizzate) e funzionamento del mondo “altro”»[7]. Molto originale la riflessione dell’autore sul concetto di disincanto quale scomparsa della magia dovuta alla secolarizzazione della società occidentale e sulla relativa possibilità di fronteggiare questa “delusione” grazie ai videogiochi capaci di re-incantare il mondo attuando una sorta di “incantesimo a buon mercato messo a disposizione di tutti”. Pecchinenda in modo singolare attribuisce ai videogame poteri in un certo senso straordinari e descrive il popolo dei videogiocatori come una sorta di comunità magico-religiosa a struttura rigidamente piramidale: «Chi interagisce con i videogiochi vive insomma immerso in una realtà che ha tutti i connotati di una realtà tradizionale, non secolarizzata, con alcuni dei principali caratteri magico-religiosi che la contraddistinguono. Volendo schematizzare potremmo dire che i programmatori corrispondono alle divinità (o ai padri fondatori) di un universo (il videogioco); il programma corrisponde al Verbo o al testo sacro, cui hanno avuto già accesso solo alcuni sacerdoti o saggi (cui corrispondono i giocatori esperti), che sono pertanto in grado di interpretare e coadiuvare i nuovi venuti nella loro avventura. La “salvezza” non è garantita, ma la si può certamente raggiungere attraverso il rispetto delle regole e lo sforzo individuale, testimoniati dal raggiungimento di punteggi sempre più alti o di livelli sempre superiori, veri e propri indicatori di successo nel mondo “immanente” del videogioco e quindi di una sorta di “predestinazione” nel regno del game over».

Metafora religiosa a parte l’autore arriva a definire nell’ultimo capitolo il suo homo game portando alle estreme conseguenze le teorizzazioni sull’uomo quale essere principalmente comunicante definite nella seconda metà del XX secolo da Norbert Wiener e da Philippe Breton: il primo, padre della cibernetica, è il più convinto teorico dell’identità come entità “eterodiretta”,  al secondo, su questa falsariga, si deve la definizione di uomo come essere totalmente composto da informazioni.  L’autore muove da queste considerazioni per affermare che oggi l’identità viene definita quasi esclusivamente attraverso circostanze sociali ed eventi esterni al soggetto, per cui essa viene a configurarsi come una sorta di “gruccia” sulla quale «di volta in volta appendere gli abiti prescelti, quelli ritenuti più adeguati alla circostanza sociale». Pecchinenda a questo punto del discorso invita a sostituire all’identità-gruccia un’identità-console (PlayStation) per spiegare la formazione dell’homo game; esso è infatti il prodotto dell’interazione di tre elementi quali il software (che rappresenterebbe l’elemento esterno, la società), il giocatore quale elemento interno (l’anima o la mente) e la console che sarebbe l’identità, ovvero il risultato del ‘dialogo’ tra esterno ed interno: nell’ambito di questa triangolazione il giocatore può essere costituito indifferentemente dall’uomo o dalla macchina e, ai fini pratici, non c’è differenza tra i due. Ecco che appare all’orizzonte quell’homo game i cui tratti erano stati abbozzati già vent’anni fa da Sherry Turkle quando scriveva dei mutamenti che la tecnologia aveva impresso «nel nostro modo di pensare, ma soprattutto nel modo di pensare noi stessi». I videogiochi, dunque rispetto ai tradizionali strumenti informatici utilizzati per lavorare, calcolare, risparmiare fatica, aggiungerebbero al rapporto con l’uomo il plusvalore del gioco, del divertimento, della produzione di idee e rappresentazioni della realtà nonché di noi stessi. Dunque il videogioco è strumento di fondamentale importanza nella nell’addestramento alla comprensione e all’uso del computer: «I videogiochi sono una sorta di finestra aperta su una nuova specie di rapporto con le macchine, che è caratteristica della nascente cultura del computer e della simulazione (…) Comprendere la logica dei videogame significa comprendere la cultura del computer come una cultura di regole e – soprattutto – di simulazione». Attraverso le nuove regole imposte dalle tecnologie di ultima generazione si impongono nuovi processi di socializzazione e, soprattutto, di videosocializzazione. 

Concludendo Pecchinenda, nel tracciare le tappe fondamentali che hanno caratterizzato il rapporto tra uomo e tecnologie, giunge a definire lo stadio odierno nel quale certamente si afferma un’immagine dell’uomo come essere «tecnologicamente coinvolto» nella rete comunicativa circostante, integrato cioè perfettamente con l’ambiente in cui vive: esso è principalmente un homo communicans e, in riferimento all’enorme diffusione degli emergenti sistemi di socializzazione attivati dai videogiochi, definibile come homo game. L’autore in definitiva invita a liberarsi dall’impaccio di una visione manicheista della questione che ha finito per imbalsamare  gli animi nei due poli degli apocalittici e degli integrati e  propone di riflettere sugli aspetti positivi e negativi che accompagnano l’affermazione di una cultura videoludica e della comunicazione principalmente audiovisiva: se ciò  fa temere da un lato la perdita della capacità di leggere e scrivere e dunque il pericolo di smarrire le grandi acquisizione della nostra civiltà, dall’altro libera dall’individualismo schiacciante ed emancipa dalla “solitudine della lettura” (Steiner, 1997) abituando le nuove generazioni ad una dimensione profondamente comunitaria e compartecipativi, rafforzando nel contempo le potenzialità cognitive e percettive connesse ad un diverso rapporto con la realtà spazio-temporale determinata dai nuovi media. «Da questo punto di vista, i videogiochi sembrano farsi carico di un antico e mai sopito bisogno di immaginario, proprio dell’essere umano, in cui la sostanza del sogno si mescola a quella della realtà, senza che l’uomo ne prenda necessariamente coscienza». La logica del videogame, cioè, facendo leva sul bisogno di fantasticare della mente umana, aprirebbe nuove dimensione all’immaginario sia individuale che collettivo. Il rischio sembra celarsi nel crescente bisogno di giovani e meno giovani di evadere dalla realtà “fuori dello schermo” per rifugiarsi nella realtà “dentro lo schermo” con un evidente perdita del senso di realtà e di equilibrio. Si tratta di quello che Norbert Elias definiva il più inestirpabile dei “vermi” presenti nella “mela della modernità”: la contrapposizione cioè tra una conoscenza realistica e una conoscenza fantastica, che da sempre procedono di pari passo con il continuo dubbio sull’esistenza con tutto ciò che è indipendente da chi conosce (Elias, 1998).

Potrebbe tuttavia prospettarsi, come nel film The Truman Show, l’esigenza da parte dell’uomo contemporaneo, dopo essersi immerso “dentro lo schermo” delle realtà videoludiche, di volerne uscire nuovamente per sperimentare “al di qua dello schermo” le competenze acquisite, le potenzialità creative accresciute, le percezioni affinate: non è quello forse che fanno ogni giorno gli specialistici impegnati nelle ricerche aerospaziali quando utilizzano i simulatori di volo?

 


 

[1] Indice: Introduzione / Parte prima: Alle origini dell’«homo communicans», Tecnologie e mutamenti antropologici, Tecnologie e mutamenti psico-sensoriali, «Homo communicans»  Parte seconda, «Homo ludens», Coinvolgimento e re-incanto, «Homo game» Conclusioni Riferimenti bibliografici Indice dei nomi

[2] Franco Berardi (BIFO) a cura di, Caosmosi ciberfilosofica , in Cibernauti. Tecnologia, comunicazione, democrazia. Ciberfilosofia, Castelvecchi, Roma 1995.

[3] «L’uomo ‘nuovo’, l’uomo moderno – scrive Philippe Breton - è in primo luogo un essere che comunica. Il suo interno è totalmente all’esterno. I messaggi che riceve non provengono da un’identità mitica, bensì dal suo ambiente. Egli non agisce, reagisce, non a un’azione ma reagisce a una reazione […] trae la propria energia e la sua sostanza vitale non da qualità intrinseche provenienti dal suo interno, bensì dalla sua capacità – in quanto individuo ‘innestato’, collegato a ‘grandi sistemi di comunicazione’ – di raccogliere, trattare e analizzare l’informazione di cui ha bisogno per vivere. […]». Cit. in G. Pecchinenda, Videogiochi e cultura della simulazione,  Editori Laterza, Roma-Bari 2003, pp.66-67.

[4] Ibidem. Pecchinenda fa qui riferimento (pp. 8-13) alle teorie dell’evoluzionismo esosomatico secondo cui così come l’evoluzione animale procede attraverso lo sviluppo di nuovi organi e funzioni, quella umana procede attraverso lo sviluppo di nuovi organi al di fuori del corpo - esosomaticamente, appunto –  «l’uomo cioè, invece di sviluppare migliori occhi e migliori orecchie, produce occhiali, microscopi, telescopi, telefoni, cornette e così via (…)».

[5] Ibidem. Pp. 19-21

[6] Ibidem. P. 87

[7] Ibidem. P. 89-90