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Nuova Rivista Cimmeria

 Filosofia Italiana

 

11 Settembre 2001: un film per non dimenticare

 

 di Giovanna Annunziata

 

Esce nelle sale di tutto il mondo, contemporaneamente, il film 11 Settembre 2001 – ha evidentemente il tratto narrativo del film e non del documentario – che conferma da un lato la evidente partecipazione emotiva all’evento da parte del mondo intero – hanno partecipato all’opera registi di undici nazionalità diverse (manca, purtroppo, l’Italia)[1], dall’altro rappresenta il lodevole sforzo di produrre  una riflessione veramente libera e scevra da ogni condizionamento di sorta su un avvenimento intorno al quale, nonostante la sovrapproduzione di informazione, è sembrata mancare, sempre, una valutazione equilibrata e complessiva capace di considerare non l’evento in sé ma il lungo e multiforme processo - storico, politico, economico, culturale, religioso – che ne ha “preparato” la genesi.

Certo la suggestiva raccolta di cortometraggi – undici in tutto, ciascuno di undici minuti – non ha velleità esplicative rispetto alle dinamiche storiche né intende fornire risposte alle tante spinose questioni aperte sul futuro assetto planetario all’indomani dell’11 settembre. Questo soprattutto è piaciuto del film: il contributo di nuda riflessione, la volontà di mostrare al pubblico, di contro ad una sconcertante omologazione del sistema mediatico, punti di vista differenti, occasioni di confronto variegate, spunti, suggerimenti… contro le tante presuntuose affermazioni di verità, di definizione, di compiutezza che in questo anno si sono avvicendate sulle pagine dei giornali, nelle immagini dei telegiornali di tutto il mondo. Contro le tante polemiche che hanno diviso l’opinione pubblica, contro la rabbia e l’orgoglio dei tanti che si sono schierati dall’una e dall’altra parte, col carnefice o con la vittima di turno, contro le recrudescenze dei fanatismi, degli integralismi e delle discriminazioni di ogni sorta, contro, contro, contro

Questo film ci è sembrato a favore: a favore dell’umanità intera, al di sopra di ogni credo religioso e di ogni distinzione politica, a favore del valore della vita su quello della morte per cui niente vale la pena, ci è sembrato a favore della libertà difesa a qualunque costo, del diritto dell’uomo a vivere dignitosamente, libero dalla povertà, dalla fame, dalle malattie, a favore della pace e non della guerra.

Undici registi, più o meno bravi, tutti coraggiosi, hanno raccontato non i fatti ma i sentimenti e le emozioni, non la spettacolarità della catastrofe ma i piccoli drammi intimi, ciascuno attraverso gli occhi della propria terra, della propria vicenda umana, della propria arte in un’opera collettiva la cui unitarietà si costituisce nella comprovata indipendenza artistica e nell’impegno etico comuni a tutti gli autori.

Niente, nel film, cede alla retorica, dichiaratamente polemico il tono – e non possiamo non segnalare a questo punto il notevole e pungente contributo di Loach il quale trova qui una nuova occasione per denunciare gli orrori consumati nel Cile del ’73 all’indomani dell’assassinio di Allende (era proprio un 11 settembre) e avallati dall’imperialismo americano  – il lavoro, che è stato strutturato in modo da rievocare nella ripartizione dei contributi, degli autori e dei tempi  l’incalzante simbolismo del numero 11, trascina il pubblico dalle macerie e dai morti di ground zero alle distruzioni e ai morti di tutto il mondo.

E l’11 settembre diventa emblema della tragedia umana, della violenza arbitraria e insensata, e le torri gemelle il vessillo a commemorare le vittime di ogni tempo che -  non è certamente il caso di quelle americane! - il mondo ha ignorato e spesso, volutamente, dimenticato: bambini iraniani condannati – dalla storia? - ad una vita di miseria e di sofferenza e garbatamente ritratti dalla telecamera di Samira Makhmalbaf;  e sono ancora dei bambini, quelli del Burkina Faso, i protagonisti del tenerissimo film di Idissa Ouedraogo (Africa) strangolati dalla fame e dalle malattie; il dramma personale della fotografa francese protagonista dell’originale contributo di Claude Lelouche giovane sordomuta, dolorosa testimone dell’emarginazione che la società contemporanea, crudele e noncurante – nella fattispecie quella americana - riserva ai portatori di handicap; e su questa falsariga, Sean Penn descrive in un poeticissimo racconto la solitudine di un vecchio rimasto vedovo (l’attore è un eccezionale Erneste Borgnine) e incapace di accettare la solitudine in cui viene relegato dall’indifferenza del mondo circostante.

Dritto al cuore del fanatismo religioso puntano poi i suggestivi fotogrammi presentati del messicano Alejandro Gonzales Inarritu nei quali si susseguono le angosciose immagini degli uomini che si lanciano nel vuoto dalle Twin Towers, l’audio alterna un cupo silenzio al suono martellante di una preghiera araba, la conclusione è affidata alla frase, a tutto schermo, in arabo, «Dio ci illumina o ci acceca?»;  conclude il film la storia allucinata raccontata da Shohei Imamura (Giappone) nella quale tutto l’orrore della guerra prende il volto di un reduce che, dopo aver strisciato da soldato nelle trincee, diventa pazzo e, credendo di essere un serpente – agghiacciante metafora della condizione di prostrazione in cui la violenza può costringere l’uomo – continuerà a strisciare per sempre.

«Nessuna guerra è santa»: è questa l’unica didascalia a conclusione del film.


 

[1] I registi che hanno partecipato sono (nell’ordine di comparsa dei contributi): Samira Makhmalbaf (Iran); Claude Lelouch (Francia); Youssef Chahine (Egitto); Danis Tanovic (Jugoslavia); Idrissa Ouedraogo (Burkina Faso, Africa); Ken Loach (Gran Bretagna); Alejandro G. Inarritu (Messico); Amos Gitai (Israele); Mira Nair (India); Sean Penn (USA); Shohei Imamura (Giappone).