di
Andrea
Riscassi
Il
giovane Da Empoli (rampollo di classe, giunto, naturalmente per meriti
propri, sulle pagine di tutti i giornali ) ci spiega che la
generazione dei trentenni è esclusa non solo dal ciclo produttivo, ma
anche dalla politica. Colpa - sostiene il figlio di Da Empoli
dei nostri padri che hanno fatto il '68" coltivando illusioni
rivelatesi poi utili solo per fare carriera in quello Stato che prima
veniva combattuto. Io non so quali insegnamenti la famiglia Da Empoli
abbia impartito al giovane rampollo. So che non sono pochi i genitori
che hanno insegnato ai figli l'importanza dell'impegno civile, l'etica
di essere cittadini impegnati e interessati. Ma è altresì vero che
solo una minoranza di giovani si interessa ancora di politica. Dopo
Tangentopoli, solo l'idea di fare politica sembra qualcosa di
peccaminoso. Eppure il paese va avanti, il Parlamento continua a
legiferare ed i giornali a scrivere. Ma nessuno, specie tra i ragazzi,
vuole più far politica, deluso da tutto. Qualche tempo fa con
l'entusiasmo un po' ebete che mi contraddistingue ho scritto una
lettera al Circolo Universitario "Piero Gobetti" di Udine.
Mi erano stati segnalati come giovani di belle speranze ed io li
contattavo per raccontargli ciò che combinava, in quel di Milano, un
altro gruppo di giovani gobettiani. La mia speranza era che ci si
potesse coordinare, che si potessero studiare azioni comuni. Ebbene
dopo qualche tempo mi è giunta una lettera imbarazzata del leader di
questo gruppetto che diceva più o meno così: siamo si "Circolo
Gobetti", ma noi a differenza vostra, siamo apolitici: ci
ispiriamo, sì, a Piero - ma solo esaltando la sua figura (di uomo)
dicevano - non seguendo la sua linea politica. Se volete, possiamo
promuovere qualche iniziativa insieme ma mi raccomando: che sia
apolitica! Niente male per un circolo che si richiama, anche nel nome,
a un giovane intellettuale che alla politica ha sacrificato la vita...
Eppure, non tutto è perduto. In giro non si vede un grande entusiasmo
per la politica, ma mi sembra che ci sia ancora interesse verso chi fa
qualcosa. E dunque la sfida che, in questa fine di Millennio, si pone
a noi liberali è appunto quella di capire come fare politica in
un'Italia in trasformazione. Declinato definitivamente lo strumento
partito, uno dei mezzi che potrebbe riaggregare intorno alle tesi
libertarie un buon numero di cittadini è quello dei circoli
culturali. E mi pare che la serie di conferenze che state
organizzando in Campania per ricordare il pensiero azionista risponda
proprio a questo schema. Ma io penso che se davvero si va verso un
sistema bipolare (cosa che temo non si verificherà tanto presto e che
il progetto Meccanico-Dini-Ppi mi sembra voler definitivamente
affossare) il ruolo di una minoranza come la nostra si fa realmente
decisivo. E gli insegnamenti non possono che giungerci da una delle
patrie dell'uninominale: gli Stati Uniti. Lì una lobby liberale, che
si chiama ADA (American for Democratic Action, componente del
partito Democratico) ha, in questi ultimi cinquant'anni, influito
pesantemente nella politica americana: basti ricordare che fu proprio
l'ADA a lanciare la candidatura di J. F. Kennedy. Insomma negli USA le
lobby democratiche sembrano funzionare. Perché dunque non seguire
l'esperienza anche qui da noi? Un reticolo di fondazioni,
associazioni, riviste e manifestazioni (magari coordinate) potrebbero
certo influire sulla politica dell'Ulivo più che un piccolo partito
del 2%. O meglio, potrebbe influire in modo più utile allo sviluppo
democratico della società. Già perché temi come l'allargamento del
concetto di cittadinanza ai nuovi ospiti del nostro Paese, la
battaglia per la difesa dell'ambiente in cui viviamo, la lotta contro
il proibizionismo in materia di droga e contro i monopoli (pubblici e
privati) in economia, sono tutte battaglie sulle quali potremmo dire
la nostra anche senza aver qualcuno seduto in parlamento. Se
scegliessimo tale strada dovremmo però porci un quesito: questo
reticolo liberal, questa lobby azionista, deve rappresentare
tutta la società o solo una parte di essa? L'insegnamento di Gobetti
ci dice che i liberali critici devono puntare alla difesa di quanti
soffrono per la mancanza di libertà. Mi sembra, schematizzando al
massimo, che a tali requisiti in Italia rispondano due differentissime
categorie: i nuovi poveri e i nuovi borghesi. Nessuna persona che
abbia fame può considerarsi davvero libera: partendo da questo
assunto è chiaro che uno dei campi di intervento dei liberali deve
essere quello di rimediare a tale ingiustizia (a Milano il numero dei
non abbienti è quasi triplicato negli anni '80). Il rimedio principe
è quello di non smantellare lo Stato sociale (magari appaltando a
privati servizi che i dipendenti pubblici fanno male, di mala voglia e
a costi eccessivi). Ma una soluzione ipotizzabile (se ne è discusso
su "Il Mulino") è quella di dare un reddito minimo di
cittadinanza a tutti, in modo da garantire quel minimo vitale che
permetta una vita dignitosa. I nuovi borghesi non hanno fame di cibo,
ma di libertà economica. Nascono ogni giorno nuove figure
professionali che non rientrano in nessuno degli schemi che burocrati
di Stato e burocrati del sindacato hanno disegnato. E queste nuove
figure non sono affatto tutelate né dal punto di vista sindacale né
da quello contrattuale. Sanno al Ministero del Lavoro quali sono i
ragazzi che lavorano a ritenuta d'acconto o in nero? E' indubbio che
un mercato maggiormente flessibile permetterebbe una maggiore tutela
di queste figure anomale. Permetterebbe anche di evitare che le
aziende preferiscano andare all'estero a cercare i dipendenti. Mario
Deaglio nel suo bellissimo "Liberista? Liberale"
suggerisce di dare stipendi bassi ai nuovi assunti e retribuzioni che
crescono col passare degli anni in azienda: sarebbe questo un modo per
incentivare quell'occupazione giovanile - ma non solo - che
attualmente sfugge a ogni classificazione. Ma di soluzioni se ne
possono trovare molte, se solo si uscisse dal rigido schema che
considera come lavoratori solo quelli che ricevono una busta paga a
fine mese. Quello che ho elencato è soltanto qualche esempio di
azione politica per una lobby liberale. Qualcuno crede che davvero
parlare di queste cose - parlare di politica, insomma - possa non
interessare le giovani generazioni? O sul serio pensiamo che la causa
di tutti i mali siano sempre gli altri e che noi, povere e giovani
vittime, non abbiamo nessuna colpa del fatto che il paese va a rotoli?