di
Marisa
Pumpo Pica
Un
romanzo avvincente, con una sottile penetrazione psicologica dei
rapporti umani, primo fra tutti quello di Giuseppina Savastano, donna
dura ed autoritaria, con la figlia Maddalena. Una donna impulsiva,
passionale, che campeggia su questo immaginario palcoscenico. Accanto
a lei il marito Tommaso, una comparsa. Scialbo, remissivo, pavido,
quasi schiacciato da questa presenza, come lo sono le due figlie,
Emilia e Maddalena, quest'ultima, soprattutto, sembra voler resistere
ad ogni costo, all'ingerenza della madre nella sua vita. Le due donne
si odiano e si fronteggiano lungo tutto l'arco della narrazione, fino
alla tragedia finale, in una tensione che si alimenta di pensieri non
espressi, di reazioni represse, di sensazioni vischiose e tortuose.
Domina nel romanzo il senso oscuro, quasi freudiano, di questo
rapporto, finemente analizzato e reso con crudo realismo. Da una parte
la madre, fredda ed autoritaria, con le sue inconfessate gelosie,
dall'altra la giovane figlia, che cova con sordo rancore la sua
impietosa vendetta di donna. Suscita molta tristezza la figura di
Maddalena, soffocata anche lei, come gli altri componenti della
famiglia, da questo pellicano dal cuore di pietra, una metafora
ribaltata, di segno contrario, dell'amore materno. La giovane,
contrastata nel suo amore per Alfonso Molfese, ricorre ad una forma di
segregazione volontaria, punitiva o autopunitiva, che sembra portarla
in un'atmosfera irreale, fuori dello spazio e del tempo. Una stasi
paurosa, resa mirabilmente da talune espressioni, che la ritraggono
lassù, nella soffitta, nella stanza di sgombero della casa, seduta
davanti alla finestra, con le mani in grembo e gli occhi perduti nel
vuoto. Sono personaggi agghiaccianti nella loro nudità. Tutti
terribilmente nudi, in quella zona buia, in cui innocenza e colpa
sembrano richiamarsi a vicenda. E nella descrizione di cieli bui,
opachi, bigi, di pinete cupe ed oscure, sembra nascondersi la
metaforica descrizione dell'animo umano, su cui il male, con la sua
presa diabolica e talvolta mortale, ha il sopravvento. Sullo sfondo,
mentre si snoda la storia dei protagonisti, la provincia, che non è
più la provincia addormentata di circa cinquant'anni fa, ma
una terra chiusa fra Terzigno, San Giuseppe Vesuviano, Ottaviano e
Bosco, con tutte le odierne contraddizioni, il suo malessere, i suoi
traffici, la sua corruzione. Non più la provincia addormentata
degli esordi dello scrittore, che andava perdendo il suo smalto, ma un
mondo inquinato, contaminato, in cui la tradizione, i valori appaiono
svuotati, sostituiti da un'avida corsa al denaro e al prestigio
sociale. Un'altra metafora, sotto questo aspetto, si nasconde nel
personaggio dell'anziana signorina Bice, che rappresenta quanto di
incontaminato ancora resta in questi luoghi. L'efferata tragedia, che
segnerà l'epilogo del romanzo, appare incredibile ed inammissibile,
per questa donna, la quale rimane esterrefatta ed incredula dinanzi a
tanta mostruosità. Il pellicano di pietra nasconde un mondo di
sentimenti oscuri, inconfessati perché inconfessabile, in cui
l'analisi dell'animo umano assume dimensione terribili, quasi
allucinanti. Un Prisco sicuramente nuovo, che si fa testimone
impietoso dei mutamenti del proprio tempo e si conferma grande
scrittore.