di Vito
Orlando
Il
grande poeta è il cuore della nazione, una parte dell'unità intera
per il popolo tutto. Prima che cartoons, telenovelas e Michael Jackson
insegnassero ai nostri figli a sentirsi cittadini del mondo,
"passero solitario cantando vai, finché non muore il
giorno" era uno dei brevi inni parentetici che ritmavano i nostri
passi nel silenzio dei frettolosi ritorni, per le strade solitarie.
Lo
spazio delle prime recitazioni, tra una canzone dei Beatles e Aquarius,
un modo per sentirsi italiani, partecipi d'una cultura non divisibile,
unita dal Risorgimento, dai Manzoni, dai Foscolo e, perché no, dai De
Amicis. E da Leopardi, naturalmente. E speriamo che ancora batta nel
cuore dei nostri liceali, insieme a qualche esametro, un infinito
"ove per poco il cor non si spaura" e sia, naturalmente,
dolce il naufragar.
Ci
si perdoni l'ingresso scherzoso. E solo un modo per esorcizzare
l'argomento immenso, troppo grande, troppo profondamente sentito per
rischiare d'esser leggeri. Leopardi è stato caro alle nostre
giovanili discussioni poetiche, molto meno alle nostre riflessioni
filosofiche: dedite, queste, ai momenti in cui si studiavano argomenti
importanti.
Ma
davvero poi, invece, non ci si ragionava su, su quel nichilismo, su
quella speranza di volta in volta suggerita, sul possibile ordine,
sfuggente, delle cose, che in una età piena d'incertezze configurava
abissi di soave eleganza? Forse una ultrafilosofia, come diceva Romano
Amerio a quei tempi, una filosofia inconsueta, bisognosa di
denominazioni inusitate e contenuti abbozzati - ma suggestiva e ricca.
Contraddittoria, nel fondo: per quel nichilismo tanto esplicitamente
detto e quella ricerca di bellezza così tenace. Quella guida a
scoprire una dolcezza a mala pena definibile, la configura in
immagine, la tiene davanti allo sguardo. Una primavera non
confondibile, che brilla nell'aria e nella mente. Poi improvvisa la
notte scura della disperazione. Ma il bagliore di quel lampo è
rimasto, come l'immagine della notte. Ed è qui la contraddizione, che
Leopardi lascia profondamente nell'animo.
Non
sarebbe difficile, infatti, come potrebbero mostrare gli psicanalisti,
trovare relazione tra lo studio matto e disperatissimo e una
depressione mentale. Ovvero proporre, come oggi molto in voga, la
coerenza duna visione nichilista (Rensi e, in tempi recenti,
Severino).
Ma
la bellezza perseguita dell'immagine metastasiana, una dolce nenia
sena fastidiose assonanze, un rifugio non decadente dalla pioggia:
come la trova Leopardi. Un'anima forte e armoniosa, come quella che
soprattutto certe immagini, certe liriche, ci trasmettono con
semplicità ed eleganza, imprimendocele come un marchio nella
coscienza nazionale. Si spiega con queste interpretazioni?
Ed
ecco allora il permanere di un dubbio che in tanti abbiamo sempre
risolto con una confortante rilettura di versi bellissimi. E che
infatti anche qui si è tentato di evocare. Godendo della musicalità,
non domandando oltre.
Il
riproporsi in orizzonti diversi, molte volte, negli ultimi anni, di
riflessioni che prendono ad oggetto il pensiero di Leopardi, è
l'occasione per riproporsi questo antico dubbio.
E'
poi ancora filosofia, una ultrafilosofia?