di Paolo
Bonetti
Il
giorno di Natale del 1943 Croce lo passò a Sorrento, nella villa del
Tritone, dove si trovava con la famiglia da poco più di un anno, per
sfuggire ai bombardamenti che incombevano su Napoli quasi
quotidianamente. Di quel giorno di festa cristiana nel mezzo di una
guerra che proseguiva implacabile nonostante la caduta del fascismo e
l'armistizio, è rimasta nei Taccuini di lavoro del filosofo
una singolare nota: "Lo Sforza, levandosi stamane, era incantato
dallo spettacolo che da Sorrento e dalla villa in cui dimoro, offre il
golfo di Napoli. Io stesso vengo tentato da quell'incanto quando
guardo dai balconi della mia stanza da studio, ma sono trattenuto da
una sorta di rimorso per questo rapimento e abbandono momentaneo, che
sento peccaminoso e illecito nella tragedia dell'Italia e del mondo.
(Mi affiorano talvolta alla memoria i versi del carme a Sorrento
dell'umanista quattrocentesco Pietro Gravina, del quale scrissi la
vita, carme che comincia: "Naturae gaudentis opus, dulcissima
tellus..."). In quella villa che, così fortemente lo tentava
col "peccato" del compiacimento estetico, Croce rimase, pur
con frequenti viaggi nella disastrata Napoli e in altri luoghi, fino
al 20 gennaio del '45, quando potè recuperare, almeno in parte, le
sue stanze di Palazzo Filomarino. Ma ci tornava con la consapevolezza
che un'epoca si era chiusa per sempre e che egli non possedeva più il
"rigoglio giovanile", la spinta vitale che ci permette di
riprendere il corso gioioso della vita oltre ogni abbattimento e nel
cuore stesso della tragedia che ci opprime. Qualche giorno prima aveva
scritto: "alla mia età tutto ciò manca; e se non operasse in me
la forza della religione - della mia religione che è del pensiero e
della coscienza morale, con la rassegnazione e il coraggio che
generano - guai: sento che non reggerei: solo da essa mi vengono i
momenti di fiducia e di ripresa".
La
casa di Sorrento, la casa dell'inquietudine e dell'attesa, mentre
l'Italia bruciava e il vecchio Croce lavorava, fra mille ostacoli e
contrasti, alla sua precaria costruzione di un nuovo ordine civile e
politico, gli aveva subito dato, appena vi aveva messo piede, "un
senso di estraneità", che forse, sperava, si sarebbe attenuato
con l'abitudine. E già la moglie Adelina che, nella sua severità
piemontese ben s'intonava con la sobrietà abruzzese del filosofo,
l'aveva giudicata "lussuosa e poco adatta ai nostri gusti e al
nostro costume". L'avevano avuta in affitto, per un prezzo
conveniente, da un olandese, e dovevano considerarsi fortunati per
averla trovata in un periodo in cui tanti cercavano inutilmente un
qualche rifugio alla devastazione bellica che si stava abbattendo
sulla capitale meridionale. In quella casa poco amata, Croce cercava,
in qualche modo, fra pochi libri, vecchie schede e fascicoli dispersi,
di ridare un ordine operoso alle sue giornate, ma sentiva anche
"la tristezza grande" di quel soggiorno, separato da quelli
che erano per lui "mezzi di vita e di lavoro". Le sofferenze
grigie della quotidianità si sommavano a quelle tragiche della guerra
esasperandosi e complicandosi; in una nota del 20 aprile '44, Croce,
per descrivere il suo stato d'animo, ricorre alle parole di una
lettera della moglie ad un'amica: " come per te - scriveva Adele
- le mille cose da dire si compendiano in un sospirone; ogni giorno c'è
un inconveniente e una mortificazione, che si prendono con pazienza
pensando ai guai degli altri e a quelli che forse ci attendono. Ma i
nervi non reggono e spesso ci s'impunta in un'inezia, che non val
niente, ma che ci dà il permesso di essere infelici". E, proprio
allora, a Sorrento moriva Roberto Bracco, che era stato uno degli
uomini più affascinanti e spiritualmente eleganti della vecchia
Napoli liberale.
Ogni
tanto qualcuno metteva gli occhi sulla villa del Tritone e pretendeva
di imporre una sgradita coabitazione: e addirittura di cacciar via i
legittimi inquilini, prima si tratta di due ufficiali tedeschi che
provengono dalla Sicilia; qualche mese più tardi, con l'arrivo degli
alleati, si profila il pericolo che venga requisita per ospitare
quaranta nurse della Croce Rossa. La reazione del vecchio filosofo,
che ha fatto del lavoro metodico e ordinato la sua religione, è
angosciata ma durissima: "Veramente i piccoli e grossi fastidi
privati e prosaici, che vengono a frammettersi nella tragedia della
patria e della civiltà
, e insieme il sentimento che io non ho
dinanzi una distesa di avvenire nella quale mi sia dato lavorare alla
causa che mi è cara e sperarne il trionfo, mi esasperano a segno che
penso alla dolcezza del riposo che la morte o la promessa della morte
arreca. Ma, per buona fortuna, c'è in me una fonte di inesausto
sicuro conforto e di rinnovata serenità
, che mi deterge dalle
miserie e, con la dignità interiore, mi ridà la forza. Così mi è
accaduto anche stamane, rientrando nella mia stanza da studio che ieri
vidi minacciata e che converrà che io difenda". Nella villa
sorrentina capitò, a un certo punto, anche il russo Andrea Vyschinsky,
famigerato rappresentante del più duro stalinismo. Neppure in quella
occasione smentì la sua fama: conversando con le figlie di Croce, che
manifestavano la loro ammirazione per il grande poeta Esenin, non mancò
di rimproverare quest'ultimo per aver cantato non la rivoluzione
bolscevica ma i suoi sentimenti personali. Altrettanto acuto fu il
giudizio che il segretario di Vyschinsky ricavò dalla visita alla
lussuosa villa del Tritone: i Croce, visto il luogo in cui abitavano,
erano evidentemente dei "capitalisti". Dopo quella delle
armi, anche la guerra "fredda", con il suo carico di
stupidità, era arrivata nell'incantevole Sorrento.