Platone
Virgilio
Seneca
Ovidio

Su
Biografia
Testi

  

 

LIBRO DECIMO
Di lì, avvolto nel suo mantello dorato, se ne andò Imeneo
per l'etere infinito, dirigendosi verso la terra
dei Cìconi, dove la voce di Orfeo lo invocava invano.
Invano, sì, perché il dio venne, ma senza le parole di rito,
senza letizia in volto, senza presagi propizi.
Persino la fiaccola che impugnava sprigionò soltanto fumo,
provocando lacrime, e, per quanto agitata, non levò mai fiamme.
Presagio infausto di peggiore evento: la giovane sposa,
mentre tra i prati vagava in compagnia d'uno stuolo
di Naiadi, morì, morsa al tallone da un serpente.
A lungo sotto la volta del cielo la pianse il poeta
del Ròdope, ma per saggiare anche il mondo dei morti,
non esitò a scendere sino allo Stige per la porta del Tènaro:
tra folle irreali, tra fantasmi di defunti onorati, giunse
alla presenza di Persefone e del signore che regge
lo squallido regno dei morti. Intonando al canto le corde
della lira, così disse: "O dei, che vivete nel mondo degl'Inferi,
dove noi tutti, esseri mortali, dobbiamo finire,
se è lecito e consentite che dica il vero, senza i sotterfugi
di un parlare ambiguo, io qui non sono sceso per visitare
le tenebre del Tartaro o per stringere in catene le tre gole,
irte di serpenti, del mostro che discende da Medusa.
Causa del viaggio è mia moglie: una vipera, che aveva calpestato,
in corpo le iniettò un veleno, che la vita in fiore le ha reciso.
Avrei voluto poter sopportare, e non nego di aver tentato:
ha vinto Amore! Lassù, sulla terra, è un dio ben noto questo;
se lo sia anche qui, non so, ma almeno io lo spero:
se non è inventata la novella di quell'antico rapimento,
anche voi foste uniti da Amore. Per questi luoghi paurosi,
per questo immane abisso, per i silenzi di questo immenso regno,
vi prego, ritessete il destino anzitempo infranto di Euridice!
Tutto vi dobbiamo, e dopo un breve soggiorno in terra,
presto o tardi tutti precipitiamo in quest'unico luogo.
Qui tutti noi siamo diretti; questa è l'ultima dimora, e qui
sugli esseri umani il vostro dominio non avrà mai fine.
Anche Euridice sarà vostra, quando sino in fondo avrà compiuto
il tempo che gli spetta: in pegno ve la chiedo, non in dono.
Se poi per lei tale grazia mi nega il fato, questo è certo:
io non me ne andrò: della morte d'entrambi godrete!".
Mentre così si esprimeva, accompagnato dal suono della lira,
le anime esangui piangevano; Tantalo tralasciò d'afferrare
l'acqua che gli sfuggiva, la ruota d'Issìone s'arrestò stupita,
gli avvoltoi più non rosero il fegato a Tizio, deposero l'urna
le nipoti di Belo e tu, Sisifo, sedesti sul tuo macigno.
Si dice che alle Furie, commosse dal canto, per la prima volta
si bagnassero allora di lacrime le guance. Né ebbero cuore,
regina e re degli abissi, di opporre un rifiuto alla sua preghiera,
e chiamarono Euridice. Tra le ombre appena giunte si trovava,
e venne avanti con passo reso lento dalla ferita.
Orfeo del Ròdope, prendendola per mano, ricevette l'ordine
di non volgere indietro lo sguardo, finché non fosse uscito
dalle valli dell'Averno; vano, se no, sarebbe stato il dono.
In un silenzio di tomba s'inerpicano su per un sentiero
scosceso, buio, immerso in una nebbia impenetrabile.
E ormai non erano lontani dalla superficie della terra,
quando, nel timore che lei non lo seguisse, ansioso di guardarla,
121
l'innamorato Orfeo si volse: sùbito lei svanì nell'Averno;
cercò, sì, tendendo le braccia, d'afferrarlo ed essere afferrata,
ma null'altro strinse, ahimè, che l'aria sfuggente.
Morendo di nuovo non ebbe per Orfeo parole di rimprovero
(di cosa avrebbe dovuto lamentarsi, se non d'essere amata?);
per l'ultima volta gli disse 'addio', un addio che alle sue orecchie
giunse appena, e ripiombò nell'abisso dal quale saliva.
Rimase impietrito Orfeo per la doppia morte della moglie,
così come colui che fu terrorizzato nel vedere Cerbero
con la testa di mezzo incatenata, e il cui terrore non cessò
finché dall'avita natura il suo corpo non fu mutato in pietra;
o come Oleno che si addossò la colpa e volle
passare per reo; o te, sventurata Letea, troppo innamorata
della tua bellezza: cuori indivisi un tempo nell'amore,
ora soltanto rocce che si ergono tra i ruscelli dell'Ida.
Invano Orfeo scongiurò Caronte di traghettarlo un'altra volta:
il nocchiero lo scacciò. Per sette giorni rimase lì
accasciato sulla riva, senza toccare alcun dono di Cerere:
dolore, angoscia e lacrime furono il suo unico cibo.
Poi, dopo aver maledetto la crudeltà dei numi dell'Averno,
si ritirò sull'alto Ròdope e sull'Emo battuto dai venti.
Per tre volte il Sole aveva concluso l'anno, finendo nel segno
acquatico dei Pesci, e per tutto questo tempo Orfeo non aveva
amato altre donne, forse per il dolore provato, forse
per averne fatto voto. Eppure molte erano le donne ansiose
d'unirsi al poeta, ma altrettante piansero d'essere respinte.
Gli uomini della Tracia poi ne trassero pretesto per stornare
l'amore verso i fanciulli, cogliendo i primi fiori
di quella breve primavera della vita che è l'adolescenza.
C'era un colle, e sul colle una radura pianeggiante
che germogli d'erba coprivano di verde.
Non c'era ombra in quel luogo, ma quando il divino poeta
vi venne a sedere e trasse dalla lira un accordo,
l'ombra lì si diffuse: apparve l'albero della Caonia,
e con quello il bosco delle Eliadi, il rovere svettante,
i tigli flessuosi, il faggio, il vergine alloro,
le fragili avellane, il frassino che serve per le lance,
l'abete senza nodi, il leccio appesantito dalle ghiande,
il platano fastoso, l'acero di diversi colori,
e insieme a loro i salici di fiume, il loto d'acqua,
il bosso sempreverde, le tenere tamerici,
il mirto di due colori e il timo con le sue bacche azzurre.
E voi pure veniste, edere dalle radici aggrovigliate,
e le viti piene di pampini, gli olmi avviluppati di viti,
e ornielli, pìcee, corbezzoli carichi di frutti
rosseggianti, tranquille palme che si danno in premio ai vincitori,
e il pino che si erge con la sua chioma arruffata raccolta in cima,
il pino, caro a Cibele, la madre degli dei, se è vero
che per lei Attis si spogliò del suo corpo per fissarsi in quel tronco.
A questa folla si aggiunse il cipresso, che ricorda il sonno eterno,
albero adesso, ma un giorno fanciullo amato da quel dio
che padroneggia la corda dell'arco e quelle della cetra.
Nelle campagne di Cartea, sacro alle ninfe di quel luogo,
viveva un cervo gigantesco, che con le sue corna
smisurate velava d'ombra profonda il suo stesso capo.
D'oro splendevano le corna, e monili di gemme,
appesi al collo tornito, gli scendevano lungo il petto.
Sulla fronte, legata a un laccetto, gli ciondolava
una borchia d'argento, e sin dalla nascita sulle tempie,
pendendo dalle orecchie, luccicavano due perle.
122
Rinunciando all'innata timidezza, senza alcun timore
entrava nelle case di chiunque, porgendo il suo collo,
per farsi accarezzare, anche alle mani degli sconosciuti.
Ma più che ad altri era caro a te, Ciparisso, a te,
il più bello della gente di Ceo. Tu lo menavi a sempre nuovi
pascoli, agli specchi d'acqua delle fonti più pure;
tu fra le corna gli intessevi ghirlande di fiori variopinti
oppure, salendogli in groppa, lo cavalcavi pieno di gioia
qua e là, frenando la sua bocca compiacente con briglie di porpora.
C'era una grand'afa sul far del mezzogiorno; alla vampa del sole
ardevano le curve chele del Cancro che ama le spiagge.
Stanco, il cervo adagiò il suo corpo sul terreno erboso,
godendosi la frescura che gli veniva dall'ombra degli alberi.
E qui, senza volere, Ciparisso lo trafisse con la punta
del giavellotto: come lo vide morente per l'aspra ferita,
decise di lasciarsi morire. Quante parole di conforto
non gli disse Febo, esortandolo a non disperarsi in questo modo
per l'accaduto! Ma lui non smette di gemere e agli dei,
come dono supremo, mendica di poter piangere in eterno.
Così, esangui ormai per quel pianto dirotto,
le sue membra cominciarono a tingersi di verde
e i capelli, che gli spiovevano sulla candida fronte,
a mutarsi in ispida chioma che, sempre più rigida,
svetta, assottigliandosi in cima, verso il cielo trapunto di stelle.
Mandò un gemito il nume e sconsolato disse: "Da me sarai pianto
e tu, accanto a chi soffre, piangerai gli altri".
Questo era il bosco adunato da Orfeo, che vi sedeva in mezzo,
circondato da una torma d'animali selvatici e d'uccelli.
E quando, pizzicandole col pollice, ebbe accordato le corde
e sentì che le note, pur nella diversità dei suoni,
erano in giusto rapporto fra loro, diede inizio a questo canto:
"Madre Musa, da Giove (tutto alla sua potestà s'inchina),
fai iniziare il mio canto! Già del suo potere più volte
ho detto: con accenti più solenni ho cantato i Giganti
e i fulmini vittoriosi scagliati sui campi Flegrei.
Ma ora più tenue dovrà essere la lira: cantiamo i fanciulli
amati dagli dei e le fanciulle che, stravolte da passioni
proibite, furono punite per la loro lussuria.
Ci fu una volta che il re degli dei, invaghito di Ganimede,
scovò un essere, diverso da quel che lui era,
in cui preferì mutarsi: un uccello. Ma fra tutti
accettò d'essere solo quello in grado di reggere i suoi fulmini.
Detto fatto, battendo l'aria con penne non sue, rapì
il giovinetto della stirpe d'Ilo, che ancora gli riempie i calici
e gli serve il nèttare, malgrado la stizza di Giunone.
Anche tu, figlio di Amicla, saresti stato posto in cielo
da Febo, se l'avverso destino gli avesse permesso di farlo.
Ma eterno sei, questo sì: ogni volta che la primavera
allontana l'inverno e l'Ariete succede alla pioggia dei Pesci,
ogni volta tu in fiore rinasci tra il verde delle zolle.
Nessuno più di te fu amato da mio padre, e Delfi,
posta al centro del mondo, rimase senza il suo nume tutelare,
finché lungo l'Eurota, a Sparta priva di mura, venne a trovarti
Febo. Più nulla gli importava della cetra e delle frecce:
dimentico di sé stesso, non disdegnava di portare reti,
di custodire i cani, di accompagnarti per le balze di monti
impervi, alimentando con la lunga intimità la sua passione.
E già il sole era a mezza strada tra la notte ormai trascorsa
e quella in arrivo, a uguale distanza dall'una e dall'altra:
Febo e Giacinto si spogliano e, tutti luccicanti d'olio,
123
danno inizio a una gara di lancio col disco.
Per primo Febo, dopo averlo soppesato, lo scaglia nell'aria
e quello, irrompendo nel cielo, squarcia le nubi che incontra.
Solo dopo lungo tempo ricade per il peso sulla crosta
della terra, mostrando quanto può la perizia unita alla forza.
Sùbito, spinto dal gusto del gioco, senza ragionare,
il fanciullo del Tènaro corre a raccoglierlo; ma la durezza
del suolo all'urto fa rimbalzare il disco proprio contro il tuo volto,
Giacinto. Impallidì il ragazzo e accanto a lui il nume,
che sorregge il corpo afflosciato e cerca in qualche modo,
tamponando la brutta ferita, di farti rinvenire,
di trattenere la vita che fugge con impiastri d'erbe.
Ma non c'è arte che giovi, non c'è rimedio per quella ferita.
Come quando qualcuno in un giardino irriguo calpesta papaveri,
viole o gigli sostenuti dai loro fulvi steli,
quei fiori sùbito appassiscono, reclinando languido il capo,
e volgono, incapaci di reggersi, la corolla verso il suolo,
così il volto del morente si piega e il collo, privo di vigore
e ormai per lui un peso insopportabile, gli cade sulla spalla.
"Frodato del fiore di giovinezza, tu, Ebàlide, ti spegni,"
dice Febo, "ed io vedo questa tua ferita che mi accusa.
Specchio del mio dolore, questo sei! Colpevole della tua morte
è questa mano mia, a ucciderti io sono stato!
Ma è una colpa la mia? Sempre che si possa chiamare colpa
l'aver giocato, o chiamare colpa l'averti amato.
Oh, se potessi almeno pagare con la vita e con te
morire! Ma poiché la legge del destino me lo vieta,
sempre nel cuore t'avrò e sempre sulle mie labbra sarai.
Ti celebreranno i miei canti al suono della lira
e in te, rinato fiore, porterai scolpiti i miei lamenti.
Verrà poi un giorno che anche un eroe senz'altri pari
a te si unirà in questo fiore, mostrando sui petali il suo nome."
Mentre aprendo il suo cuore Apollo dice queste cose,
il sangue, che sparso al suolo aveva rigato il prato,
ecco che sangue più non è, e un fiore più splendente della porpora
di Tiro spunta, prendendo la forma che hanno i gigli, solo
che purpureo è il suo colore, mentre argenteo è quello del giglio.
Non ancora contento, Febo, autore di questo onore a Giacinto,
verga sui petali di propria mano il suo lamento: AI AI,
così sul fiore è scritto, lettere che esprimono cordoglio.
Sparta non si vergogna d'aver dato i natali al fanciullo
e ancor oggi l'onora: ogni anno tornano le feste di Giacinto,
che per tradizione si celebrano con solenni processioni.
Ma chiedi ad Amatunte, città ricca di metalli, se sia lieta
d'aver dato i natali alle Propètidi: lo negherebbe,
come d'averli dati un tempo ai Cerasti, così chiamati
perché la loro fronte era guastata da due corna.
Davanti alle loro porte sorgeva l'ara di Giove Ospitale:
il forestiero, che ignaro dello scempio la vedeva macchiata
di sangue, avrebbe potuto credere che vi avessero
sgozzato vitelli di latte o pecore del posto.
Un ospite era invece l'ucciso. Offesa da questi riti infami,
persino la grande Venere stava per lasciare le città
e i campi della sua Ofiusa. "Ma che male hanno mai fatto", disse,
"questi cari luoghi e le mie città? Che colpa ne hanno loro?
Sia piuttosto quest'empia gente a pagarne il fio con l'esilio,
con la morte o con qualcosa che stia tra la morte e l'esilio.
E quale può essere questa pena, se non una metamorfosi?"
Mentre è incerta in cosa mutarli, lo sguardo le cade
sulle corna; pensa che a loro queste possano restare
e trasforma le loro grandi membra in quelle di truci giovenchi.
124
Ma le dissolute Propètidi giunsero al punto di negare
che Venere fosse una dea. Per l'ira del nume, si dice
che fossero le prime a prostituire il corpo e le grazie loro;
e come persero il pudore e il sangue si seccò nel loro volto,
che fossero mutate, con pochi tratti, in rigide pietre.
Avendole viste condurre vita dissoluta, Pigmalione,
disgustato dei vizi illimitati che natura
ha dato alla donna, viveva celibe, senza sposarsi, e
senza una compagna che dividesse il suo letto a lungo rimase.
Ma un giorno, con arte invidiabile scolpì nel bianco avorio
una statua, infondendole tale bellezza, che nessuna donna
vivente è in grado di vantare; e s'innamorò dell'opera sua.
L'aspetto è quello di fanciulla vera, e diresti che è viva,
che potrebbe muoversi, se non la frenasse ritrosia:
tanta è l'arte che nell'arte si cela. Pigmalione ne è incantato
e in cuore brucia di passione per quel corpo simulato.
Spesso passa la mano sulla statua per sentire
se è carne o avorio, e non vuole ammettere che sia solo avorio.
La bacia e immagina che lei lo baci, le parla, l'abbraccia,
ha l'impressione che le dita affondino nelle membra che tocca
e teme che la pressione lasci lividi sulla carne.
Ora la vezzeggia, ora le porge doni graditi
alle fanciulle: conchiglie, pietruzze levigate,
piccoli uccelli, fiori di mille colori,
gigli, biglie dipinte e lacrime d'ambra stillate
dall'albero delle Eliadi. Le addobba poi il corpo di vesti,
le infila brillanti alle dita e al collo monili preziosi;
piccole perle le pendono dalle orecchie e nastrini sul petto.
Tutto le sta bene, ma nuda non appare meno bella.
L'adagia su tappeti tinti con porpora di Sidone,
la chiama sua compagna e delicatamente,
quasi sentisse, le fa posare il capo su morbidi cuscini.
E venne il giorno della festa di Venere, festa in tutta Cipro
grandissima: già giovenche con le curve corna fasciate d'oro
erano cadute, trafitte sul candido collo,
e fumava l'incenso, quando Pigmalione, deposte le offerte
accanto all'altare, timidamente disse: "O dei, se è vero
che tutto potete concedere, vorrei in moglie" (non osò
dire: la fanciulla d'avorio) "una donna uguale alla mia d'avorio".
L'aurea Venere, presente alla propria festa, coglie il senso
di quella preghiera e, come segno del suo favore, per tre volte
fa palpitare una fiamma, che con la sua punta guizza nell'aria.
Tornato a casa, corre a cercare la statua della sua fanciulla
e chinandosi sul letto la bacia: sembra che emani tepore.
Accosta di nuovo la bocca e con le mani le accarezza il seno:
sotto le dita l'avorio s'ammorbidisce e, perduto il suo gelo,
cede duttile alla pressione, come al sole torna morbida
la cera dell'Imetto e, plasmata dal pollice, si piega
ad assumere varie forme, adattandosi a questo impiego.
Stupito, felice, ma incerto e timoroso d'ingannarsi,
più e più volte l'innamorato tocca con la mano il suo sogno:
è un corpo vero! sotto il pollice pulsano le sue vene.
Allora il giovane di Pafo a Venere rivolge
parole traboccanti di gioia per ringraziarla, e con le labbra
preme labbra che più non sono finte. Sente la fanciulla
quei baci, arrossisce e, levando intimidita gli occhi
alla luce, insieme al cielo vede colui che l'ama.
La dea assiste alle nozze che ha reso possibili. E quando
per nove volte la falce della luna si è chiusa in disco pieno,
la sposa genera Pafo, del quale l'isola conserva il nome.
Da Pafo nacque Cìnira che, se fosse rimasto senza prole,
125
si sarebbe potuto annoverare fra le persone felici.
Cose orrende canterò. Allontanatevi, figlie, e voi, padri.
Ma se allettati dal mio canto voi restate, voglio
che non mi prestiate fede, che non crediate a ciò che vi racconto,
o, se volete credervi, che anche al castigo voi crediate.
Se poi natura permette che si assista a un tale misfatto,
io mi congratulo con le genti di Tracia e il nostro mondo,
mi congratulo con questa terra per essere distante
dalle contrade che produssero tanta empietà. Sia pure ricca
di amomo la terra di Pancaia, produca, sì, cannella,
profumi, incenso che trasuda dal legno, e tutti i fiori che vuole;
ma la mirra, perché? quest'albero strano non meritava tanto.
Cupido stesso nega, o Mirra, d'averti ferito
con le sue frecce e del tuo crimine scagiona le sue fiaccole.
Con una torcia dello Stige e con serpenti velenosi
fu una Furia ad appestarti. Delitto è odiare il padre,
ma questo amore è delitto peggiore dell'odio. Patrizi e nobili
d'ogni luogo ti desiderano, giovani di tutto l'Oriente
vengono a contendersi la tua mano. Scegline uno fra questi,
Mirra, ma che non sia quell'uno solo che vuoi per marito!
Lei se ne rende conto e cerca di vincere quell'amore infame,
dicendo fra sé: "Dove mi porta l'indole? Cosa sto facendo?
O dei, pietà filiale, vincoli sacri dei parenti, vi supplico:
impedite quest'empietà, opponetevi al mio crimine,
ammesso che sia un crimine. Ma non pare che il rispetto
condanni questa unione. Gli altri animali si accoppiano
senza pensarci e non si ritiene turpe che una giovenca
si faccia montare dal padre; il cavallo sposa la figlia,
il capro si unisce alle capre che ha generato e la stessa femmina
degli uccelli concepisce da chi l'ha concepita.
Felici loro, che possono farlo! Gli scrupoli umani
hanno creato leggi perfide e princìpi astiosi vietano
ciò che natura ammette. Eppure si racconta che vi siano genti
tra cui la madre si accoppia al figlio, la figlia al padre,
e l'affetto tra i congiunti cresce per questo sommarsi d'amore.
Misera me, che non ho avuto in sorte di nascere lì,
ma dove non ho pace. Una continua ossessione, perché?
Via, via, sogni proibiti! Cìnira è degno, sì,
d'essere amato, ma come padre. Se non ne fossi dunque
la figlia, potrei giacere accanto a lui; ora invece,
poiché lui è mio, mio non può essere: nasce da questo legame
di sangue la mia sventura. Se fossi di un altro, sarei più libera.
Vorrei andarmene di qui, lasciare il suolo della patria,
per sottrarmi all'infamia, ma l'ardore del mio male mi trattiene,
perché con tutto il mio amore io possa guardare Cìnira, toccarlo,
parlargli e baciarlo, se altro non mi è concesso.
Perché? oseresti, vergine empia, sperare forse di più?
Ti rendi conto quante leggi e norme tu sovverti?
Vuoi essere rivale di tua madre e amante di tuo padre?
esser chiamata sorella di tuo figlio e madre di tuo fratello?
Non hai timore delle Furie con le chiome nere di serpenti,
che appaiono a chi è in colpa e con torce crudeli si avventano
contro gli occhi e il viso? Ma, visto che il tuo corpo è ancora puro,
non concepire empietà con la mente e non violare
con un amplesso vietato le leggi che ha imposto natura.
Se anche lo volessi, la realtà lo vieta, perché lui è pio,
virtuoso. Oh, come vorrei che il mio stesso furore vibrasse in lui!".
Si era sfogata; ed ecco che Cìnira in dubbio sul da farsi,
tanti sono i pretendenti degni di lei, le chiede,
dopo averle elencato i nomi, di chi vuol essere sposa.
Lei sulle prime tace e, fissando il volto del padre
126
col cuore in fiamme, gli occhi le si velano di calde lacrime.
Cìnira, credendo che ciò sia dovuto a verginale pudore,
l'esorta a non piangere, le asciuga le guance e s'accosta a baciarla.
Troppo ne gode Mirra, e alla domanda come vorrebbe che fosse
suo marito, "Uguale a te" risponde. Lui l'elogia per ciò che dice,
non comprendendone il senso riposto: "Resta sempre
così rispettosa!". Sentendo nominare il rispetto filiale,
la vergine, sapendosi colpevole, abbassa lo sguardo.
Nel cuore della notte corpi e pensieri sono placati
dal sonno. Ma non dorme la figlia di Cìnira, che, rosa
da un fuoco implacabile, è ripresa dalle sue folli smanie,
e ora si dispera, ora è decisa a tentare, si vergogna
e brama, senza trovar soluzione. Come un grosso tronco
centrato dalla scure, quando non resta che il colpo estremo,
non si sa dove cada, disseminando il terrore,
così la sua mente, fiaccata da tanti tormenti, oscilla
nei dubbi qua e là in balia ora di un senso ora dell'altro.
E altro freno all'amore, altra requie non vede che la morte.
Ecco, la morte: si alza e decide di porre la gola in un laccio.
Dopo aver sistemata la cintura alla sommità dello stipite:
"Addio, amato Cìnira, e chiaro t'appaia perché sono morta!"
dice, e al suo collo esangue adatta il cappio.
Si racconta che il suo mormorio giungesse alle orecchie attente
della nutrice, che sorvegliava la soglia della sua pupilla.
Balza in piedi la vecchia, spalanca la porta, e come vede
quei preparativi di morte, lancia un grido e a un tempo
si percuote, si strappa la veste, sfila il collo dal cappio,
fa a pezzi il laccio. Solo allora si abbandona al pianto,
la stringe fra le braccia, domandandole il motivo di quel cappio.
La fanciulla non fiata, immobile fissa il suolo, angosciata
che per gli indugi il tentativo di darsi la morte sia fallito.
La vecchia insiste e, scoprendosi la canizie e il seno esausto,
la scongiura, per averla nutrita nella culla, di svelarle
la sua pena, qualunque sia. Ma lei elude le domande
girandosi e gemendo. La nutrice però è decisa a sapere
e non si limita a promettere discrezione. "Parla," le dice,
"lascia ch'io t'aiuti. Sono vecchia, è vero, ma non inutile:
se è follia, conosco una donna che la guarisce con erbe e incanti;
se t'hanno fatto il malocchio, un rito magico te l'annullerà;
se collera è dei numi, con sacrifici si può placare.
Cos'altro posso supporre? Nulla ti manca e in casa tua
tutto procede per il meglio, tua madre è viva e così tuo padre."
Mirra, alla parola padre, dal petto emette un profondo sospiro;
eppure la nutrice è ancora lungi dal supporre
un crimine, malgrado intuisca che d'amore si tratta.
Ostinata, la sprona a rivelarle il suo tormento,
qualunque cosa sia, la prende lacrimante in grembo
e stringendola fra le sue deboli vecchie braccia:
"Capisco, sei innamorata," le dice; "ma non temere,
la mia premura ti sarà d'aiuto, e nulla mai saprà
tuo padre". Furibonda insorge Mirra: "Vattene, ti prego, abbi
pietà della vergogna che soffro", le grida, col viso premuto
sui cuscini. Ma lei non le dà tregua. "Vattene," ripete, "o smetti
di chiedere cosa mi strazia! È un'empietà, ciò che tu vuoi sapere."
La vecchia inorridisce, tende le mani tremanti d'anni
e sgomento, si accascia supplice ai piedi della fanciulla,
e ora la blandisce, ora la spaventa perché lei confessi,
minacciando di rivelare il suo tentativo di uccidersi
col cappio, promettendo di aiutarla se le confida chi ama.
Mirra solleva il capo e inonda il petto della sua nutrice
con un mare di lacrime; più volte è sul punto di confessare,
e altrettante si trattiene; poi, nascondendo il volto con la veste
127
per la vergogna, sospira: "Beata te, mamma, che l'hai sposato!".
Non dice altro e geme. Un brivido di gelo corre per il corpo
della nutrice, che ormai ha capito, fin dentro le ossa, e sul capo
le si rizzano i capelli, arruffando tutta la canizie.
E ora a lungo le parla per scacciare, se può, quella scellerata
passione: la fanciulla sa che quegli ammonimenti sono giusti,
ma è pur decisa a morire, se non può soddisfare quell'amore.
"E vivi allora," le dice, "avrai tuo..." e non osando dire 'padre',
si ammutolisce, ma conferma la promessa con un giuramento.
Le donne del luogo stavano celebrando devote le feste
di Cerere, in cui ogni anno, avvolte in vesti bianche come neve,
offrono alla dea le primizie dei loro raccolti, serti
di spighe, e per nove notti considerano vietato l'amore
e il contatto con l'uomo. Tra la folla vi è Cencrèide,
la moglie del re: anche lei partecipa ai sacri misteri.
Ed ecco che, mentre la legittima consorte diserta il letto,
la nutrice con sciagurato zelo scova Cìnira stordito
dal vino, gli rivela tutto di quell'amore, omettendo il nome, e
vanta la bellezza della fanciulla. Alla domanda di quant'anni
abbia: "L'età di Mirra" risponde, e all'ordine di condurla,
corre da lei esclamando: "Gioisci, figlia mia, abbiamo vinto!".
Non è gioia piena quella che prova l'infelice
vergine: in cuore è presa da un triste presentimento,
ma pur anche gioisce, tanto discordi sono i suoi sentimenti.
Era l'ora in cui tutto tace e, tra le stelle dell'Orsa, Boòte,
volgendo il timone, aveva inclinato il corso del suo carro.
Mirra si avvia al misfatto. Fugge dal cielo la luna dorata,
nuvole plumbee coprono le stelle che dileguano,
priva di luci è la notte. E Icario, con Erìgone immortalata
per l'amor filiale che gli portò, fu il primo a nascondere il volto.
Per tre volte il piede, inciampando, l'ammonisce di ritrarsi,
per tre volte il funebre gufo l'avverte col suo verso di morte.
Ma lei va: le tenebre della notte attenuano la sua vergogna.
Con la sinistra stringe la mano della nutrice, con la destra
esplora a tentoni il buio cammino. E già alla soglia della camera
è giunta, apre la porta, viene introdotta; e a lei tremano
le gambe, mancano le ginocchia, dal volto vita
e sangue si dileguano e, mentre avanza, il coraggio l'abbandona.
Più si avvicina all'infamia, più rabbrividisce, si pente
della sua audacia e vorrebbe non vista potersene fuggire.
Esita, ma la vecchia la tira per la mano e accostandola
al grande letto, nel darla al padre, dice: "Prendila, Cìnira:
ecco, è tua"; e unisce i due corpi nella dannazione.
Lui in quel letto immondo accoglie la carne della sua carne,
e rincuorandola l'aiuta a vincere i suoi timori di vergine.
Forse anche per la sua tenera età, la chiama 'figlia',
e lei 'padre', perché all'incesto nulla mancasse, nemmeno i nomi.
Gravida di suo padre uscì Mirra da quel letto, portandosi
nel ventre maledetto l'empio seme, il frutto della colpa.
La notte successiva l'infamia si ripeté, e ancora, ancora,
finché Cìnira, ansioso di vedere chi fosse l'amante
dopo tanti amplessi, accostò una lampada e insieme scoprì
la figlia e il crimine commesso: ammutolito dal dolore,
dal fodero appeso accanto in un lampo sguainò la spada.
Fuggì Mirra, e col favore delle tenebre a notte fonda
poté sottrarsi alla morte. Vagando in aperta campagna
lasciò l'Arabia ricca di palme e le contrade della Pancaia.
Nove volte riapparve la falce della luna mentre fuggiva,
finché alla fine si fermò sfinita in terra di Saba, reggendo
a stento il peso del suo ventre. E allora non sapendo a chi votarsi,
combattuta tra il timore della morte e il disgusto della vita,
128
formulò questa preghiera: "Se c'è un dio che ascolta chi ammette
le proprie colpe, questa è, sì, la fine angosciosa che merito,
e non la rifiuto. Ma perché io non profani vivendo i vivi
e morta i trapassati, cacciatemi dal regno di entrambi:
fate di me un'altra cosa, negandomi vita e morte!".
Un dio che ascolta i rei confessi c'è; o almeno un nume che esaudì
l'ultima parte dei suoi voti. Mentre ancora parla,
la terra avvolge le sue gambe, le unghie dei piedi si fendono,
diramandosi in radici contorte, a sostegno di un lungo fusto;
le ossa si mutano in legno e, restando all'interno il midollo,
il sangue diventa linfa, le braccia grandi rami,
le dita ramoscelli; la pelle si fa dura corteccia.
E già, crescendo, la pianta ha fasciato il ventre gravido,
ha sommerso il petto e sta per coprirle il collo:
non tollerando indugi, lei si china incontro al legno
che sale e il suo volto scompare sotto la corteccia.
Ma benché col corpo abbia perduto la sensibilità di un tempo,
continua a piangere e dalla pianta trasudano tiepide gocce.
Lacrime che le rendono onore: la mirra, che stilla dal tronco,
da lei ha nome, un nome che mai il tempo potrà dimenticare.
Ma sotto il legno la creatura mal concepita era cresciuta
e cercava una via per districarsi e lasciare la madre.
A metà del tronco il ventre della madre si gonfia,
tutto teso dal peso del feto. Ma il dolore non ha parole,
la partoriente non ha voce per invocare Lucina.
Tuttavia la pianta sembra avere le doglie, curva su di sé
manda fitti gemiti e tutta è imperlata di stille.
Lucina, impietosita, si ferma davanti a quei rami dolenti,
accosta le sue mani e pronuncia la formula del parto.
Si apre una crepa e dalla corteccia squarciata l'albero fa nascere
un essere vivo, un bimbo che piange: le Naiadi lo depongono
su un letto d'erba e lo ungono con le lacrime della madre.
Persino Invidia ne loderebbe la bellezza: il suo corpo
è come quello dei nudi Amorini dipinti nei quadri;
unica differenza, se volete, la faretra sbarazzina:
ma puoi toglierla a loro, oppure aggiungerla al bambino.
Senza che lo si avverta, vola via come un fulmine il tempo:
niente è più rapido degli anni. Quel bambino, figlio di sorella
e nonno, quello che un attimo fa era racchiuso in un tronco,
che un attimo fa hai visto nascere e farsi bellissimo fanciullo,
ormai è un giovane, un uomo, che già supera sé stesso in bellezza,
che piace persino a Venere e vendica la passione materna.
Mentre baciava sua madre, Cupido le scalfì senza volere
il petto con una freccia che sporgeva dalla faretra:
offesa, Venere scostò con la mano il figlio, ma la ferita,
ingannando persino lei, era profonda, anche se non pareva.
Sedotta dalla bellezza di Adone, delle spiagge di Citera
non le importa più nulla, ignora Pafo cinta dal mare profondo,
la pescosa Cnido e Amatunte piena di metalli;
diserta persino il cielo: al cielo preferisce quel giovane.
Gli sta accanto, l'accompagna ovunque; lei, avvezza a godersi
l'ombra per curare e accrescere la propria bellezza,
ora si aggira per gioghi e selve, tra rocce e cespugli spinosi,
con la veste succinta oltre il ginocchio così come Diana,
e aizza i cani, inseguendo animali di facile preda:
lepri che schizzano via, cervi dalle corna eccelse,
oppure camosci. Si guarda invece dai forti cinghiali,
evita i lupi predatori, gli orsi muniti di artigli
e i leoni che si sfamano facendo strage di armenti.
E invita anche te, Adone, a temerli, sperando che possa
giovarti l'ammonimento: "Sii prode con gli animali che fuggono!"
129
ti dice. "Il coraggio con quelli coraggiosi è pieno di pericoli.
Non essere temerario, ragazzo, con rischio anche mio;
non sfidare belve a cui natura ha dato armi d'offesa:
la tua gloria mi costerebbe cara! L'età tua,
la bellezza e ciò che ha incantato me, Venere, non incantano
i leoni, i cinghiali irsuti, gli occhi e il cuore delle belve.
I crudeli cinghiali hanno il fulmine nelle zanne adunche;
violenta e smisurata è l'ira dei fulvi leoni:
una razza che detesto." E a lui che le chiede perché mai, risponde:
"Te lo dirò: ti stupirà il prodigio che punì una vecchia colpa.
Ma questa insolita fatica mi ha stancata: guarda,
guarda quel pioppo: con la sua ombra ci invita a rilassarci
e l'erba ci offre un giaciglio. Qui voglio con te riposarmi".
E a terra, sull'erba, si adagia, stringendosi al giovane;
poi col capo posato sul petto di Adone, che è steso supino,
alternando baci alle parole, così racconta:
"Avrai forse sentito dire di una donna che vinceva
nelle gare di corsa gli uomini più veloci. Non è una favola:
li vinceva davvero. E non avresti saputo dire se fosse
più ammirevole per la sua destrezza o il dono della sua beltà.
A lei, che lo consultava sulle nozze, l'oracolo rispose:
'Tu non hai alcun bisogno di un marito, Atalanta. Evitalo!
Ma purtroppo non vi sfuggirai e, viva, non sarai più te stessa'.
Atterrita da quel responso, va a vivere sola nell'intrico
dei boschi e si sbarazza della petulanza dei suoi pretendenti
con questa dura condizione: 'Nessuno potrà avermi, se prima
non m'avrà vinto nella corsa. Misuratevi con me:
chi sarà veloce abbastanza, avrà in premio me come sposa;
i lenti pagheranno con la morte. Questo è il patto della gara'.
Spietata, certo; ma, tale è lo stimolo della bellezza,
che una folla è quella che accetta di affrontare il patto per averla.
Fra questa, spettatore di quella folle corsa, sedeva Ippòmene,
che aveva detto: 'Possibile rischiare tanto per una moglie?'
e aveva biasimato il fanatismo dei giovani spasimanti.
Ma quando lei, sciogliendo la veste, mostrò il suo corpo splendido
(come il mio o il tuo, se tu divenissi femmina),
rimase sbalordito e levando le mani esclamò: 'Perdonatemi,
voi che un istante fa rimproveravo! Non sapevo a quale premio
aspiravate!'. E mentre l'ammira, s'infiamma di passione,
si augura che nessuno sia più veloce di lei
e teme per invidia. 'Ma perché non tento la fortuna
e non partecipo anch'io a questa gara?' rimugina.
'Gli dei aiutano gli audaci'. Mentre Ippòmene tra sé
così ragiona, la vergine corre come se avesse le ali.
E lui, giovane dell'Aonia, per quanto stupito di vederla
filare come una freccia degli Sciti, ancor più ne ammira
l'avvenenza, che quella corsa rende ancor maggiore.
Resa alata dall'impeto dei piedi, porta sandali dorati;
fluttuano i suoi capelli sulle spalle d'avorio, come le bende,
con i bordi ricamati, che fasciano le sue ginocchia;
di rosa è soffuso il candore verginale del suo corpo:
così una tenda di porpora, in un atrio di marmo,
trasmette, come un velo d'ombra, al bianco il suo colore.
Mentre l'ospite l'osserva, Atalanta taglia vittoriosa
il traguardo e viene incoronata con un serto festoso.
Gemono gli sconfitti, subendo la pena convenuta.
Ippòmene però non è distolto dalla loro sorte;
si fa avanti e, fissando la vergine in volto, dice:
'Perché cerchi facile gloria vincendo gente incapace?
Gareggia con me e, se la fortuna mi assisterà,
non ti lamenterai d'essere stata vinta da un mio pari.
130
Mio padre è Megareo di Onchesto, e suo nonno è Nettuno:
perciò io sono pronipote del re degli oceani e il mio valore
non smentisce la stirpe. Se sarò sconfitto, il fatto d'aver vinto
Ippòmene ti procurerà fama grande e imperitura'.
Mentre parla, la figlia di Scheneo lo guarda illanguidita
e più non sa cosa preferire, se vincere o essere vinta.
E pensa: 'Quale dio, nemico della bellezza, vuol perdere
costui, spingendolo a chiedere la mia mano, a rischio
della sua vita preziosa? Non penso di valere tanto!
E non è la sua bellezza a toccarmi (anche se toccarmi potrebbe),
ma il fatto che è ancora un ragazzo. Non mi turba lui, ma l'età sua.
Ma poi, è tanto prode da non tremare al pensiero della morte?
è veramente il quarto nella discendenza dal nume del mare?
e ancora, mi ama e brama di sposarmi sino al punto
di morire, se una sorte crudele dovesse negarmi a lui?
Vattene, straniero, finché puoi; rinuncia a queste nozze di sangue.
Matrimonio crudele è il mio. Nessuna rifiuterà di sposarti,
troverai sicuramente una fanciulla saggia che ti desideri.
Ma perché per te mi angoscio, dopo averne mandati a morte tanti?
Vedrà lui! Che muoia dunque, se la strage di tanti pretendenti
non gli è servita di lezione e in tale disgusto tiene la vita.
Ma allora morirà, perché con me voleva vivere,
e sconterà con una morte ingiusta la colpa d'avermi amato?
La mia vittoria non sarà certo tale da suscitare invidia.
Ma non è colpa mia. Avessi tu almeno il senno di rinunciare!
o, visto che non ragioni più, fossi almeno più veloce!
Oh, che sguardo virgineo in quel suo viso di fanciullo!
Povero Ippòmene, come vorrei che tu non m'avessi mai visto!
Meritavi di vivere; e se più fortunata io fossi,
se un destino inesorabile non m'impedisse le nozze,
tu eri l'unico, che avrei voluto avere accanto nel mio letto'.
Così ragiona, e inesperta com'è, toccata dal suo primo amore,
non sapendo che cosa sia, ama e non si rende conto d'amare.
Già il popolo e suo padre reclamano la gara di rito,
quando con voce concitata il discendente di Nettuno,
Ippòmene, m'invoca dicendo: 'Che Venere mi assista
in questa impresa, assecondando la passione che m'ha infuso!'.
Il vento benigno mi recò quella toccante preghiera
ed io mi commossi, lo confesso: non c'era tempo per gli indugi.
Vi è un campo (Tàmaso lo chiama la gente del luogo),
che è la parte più bella dell'isola di Cipro e che a me
è stato consacrato dagli antichi, i quali vollero
che al mio tempio fosse donato. In mezzo al campo spicca
un albero dalla fulva chioma e dai rami crepitanti d'oro.
Io per caso da lì venivo, portando in mano tre mele d'oro
che avevo colto. Invisibile a tutti fuorché a lui,
mi avvicinai a Ippòmene, addestrandolo all'uso di quelle mele.
Squilli di tromba danno il via: protesi in avanti scattano entrambi
dalla barriera e i loro piedi sfiorano appena la sabbia.
Diresti che potrebbero lambire il mare a piedi asciutti,
correre su un campo giallo di grano senza piegare le spighe.
Urla e applausi incoraggiano il giovane, con gli incitamenti
di chi grida: 'Forza, forza, questo è il momento di attaccare,
Ippòmene! Corri! Mettici tutta la tua forza!
Non esitare, avanti! Vincerai!'. E non si sa se queste grida
facciano più piacere all'eroico Ippòmene oppure ad Atalanta.
Oh, quante volte lei, potendo sorpassarlo, rallentò
e, dopo aver contemplato il suo viso, a malincuore lo lasciò!
Dalla bocca affannata usciva secco il suo respiro
e il traguardo era ancora lontano. Allora l'erede di Nettuno
decise di lasciar cadere uno dei tre frutti.
131
Si stupì la vergine e, incantata dallo splendore di quel pomo,
deviò dal tracciato e raccolse la sfera d'oro in corsa.
Ippòmene la sorpassa: dalle tribune si leva un applauso.
Lei, correndo veloce, rimedia all'indugio, al tempo
perduto, e di nuovo si lascia il giovane alle spalle.
Rimasta indietro un'altra volta al lancio di un secondo pomo,
lo insegue ancora e lo sorpassa. Non restava che l'ultimo tratto.
'O dea che m'hai offerto il dono', disse, 'd'assistermi è tempo!'
e con tutto il suo vigore lanciò di fianco, al bordo della pista,
quell'oro splendente, perché lei impiegasse più tempo a tornare.
La vergine parve incerta se raccoglierlo o no. Io la costrinsi
a farlo e, quando l'ebbe raccolto, ne accrebbi il peso,
ostacolandola così, oltre che con la sosta, anche col carico.
Ma perché il mio racconto non sia più lungo di quella corsa:
la vergine fu battuta e il vincitore si prese il premio in palio.
Non meritavo, Adone, che lui mi ringraziasse, che mi onorasse
con l'incenso? Scordatosi di me, non solo non mi ringraziò,
ma nemmeno mi offerse incenso. M'assale allora un accesso d'ira:
ferita da quello spregio, per non farmi in futuro ancora offendere,
decido di dare un esempio, aizzando me stessa contro entrambi.
Mentre passavano davanti al tempio, che il nobile Echìone
aveva, nel folto di un bosco, eretto per voto alla Madre
degli dei, il lungo cammino li invogliò a riposarsi.
Lì, ispirata dal mio potere divino, una voglia
inopportuna di accoppiarsi invade all'improvviso Ippòmene.
Vicino al tempio vi era un antro dove la luce filtrava appena,
simile a una grotta con la volta di pietra viva,
consacrato da devozione antica: il sacerdote
aveva lì radunato le statue in legno degli antichi dei.
Ippòmene vi entra, profanando con atto infame il luogo sacro.
Le icone volsero altrove lo sguardo e la Madre turrita
fu sul punto d'affogare i colpevoli nell'onda dello Stige.
Ma la pena le parve irrisoria: così fulve criniere velano
i loro colli un tempo glabri, le dita s'incurvano in artigli,
le braccia si mutano in zampe, il centro di equilibrio
si sposta verso il petto, e con la coda sferzano la sabbia.
Il volto s'inferocisce; non parlano, ma emettono ruggiti;
si accoppiano nelle foreste e, spaventosi per chiunque,
leoni, aggiogati ormai, serrano tra i denti il morso di Cibele.
Tu, amore mio, cerca di evitarli e con loro tutte quelle belve
che non offrono le spalle in fuga, ma il petto per combattere,
perché il tuo ardimento non sia di danno ad entrambi".
Venere l'aveva dunque ammonito e, aggiogati i suoi cigni, in cielo
si era involata. Ma l'ardire non accetta moniti.
Per caso i cani, seguendone col loro fiuto la traccia,
avevano stanato un cinghiale, e il figlio di Cìnira,
mentre stava uscendo dal bosco, lo trafisse al fianco con un colpo.
Fulmineo il truce cinghiale, rotando il grugno, si strappò la picca
intrisa del proprio sangue e, inseguendo Adone, che disorientato
cercava scampo, nell'inguine gli cacciò tutte le zanne,
facendolo stramazzare ormai moribondo sulla bionda rena.
Portata lungo il cielo, sul suo cocchio leggero, dalle ali
dei cigni, Venere non era ancora giunta a Cipro:
da lontano riconobbe il gemito del morente e invertì il volo
dei bianchi uccelli. E come dall'alto intravide il corpo
che in fin di vita si torceva nel suo stesso sangue,
si precipitò giù, strappandosi veste e capelli,
percotendosi il petto con le mani, come non le era costume.
Lamentandosi poi col fato, disse: "No, non potrà la tua legge
disporre d'ogni cosa. Imperituro rimarrà il ricordo,
Adone, del mio lutto: ripetuta ogni anno, la scena
132
della tua morte testimonierà in eterno il mio dolore.
Ma il tuo sangue si muterà in un fiore. Se a te fu permesso,
Persefone, di trasformare il corpo di una donna in una pianta
di menta profumata, perché mi si dovrebbe rimproverare,
se muto l'eroico figlio di Cìnira?". Detto questo, nel sangue
versò nèttare odoroso e il sangue al contatto cominciò
a fermentare, così come nel fango, sotto la pioggia,
si formano bolle iridescenti. Nemmeno un'ora
era passata: dal sangue spuntò un fiore del suo stesso colore;
un fiore, come quello del melograno, i cui frutti celano
sotto la buccia sottile i suoi semi. Ma è fiore di vita breve:
fissato male al suolo e fragile per troppa leggerezza,
deve il suo nome al vento, e proprio il vento ne disperde i petali".

 

 

OVIDIO PUBLIO NASONE

METAMORFOSI

LIBRO UNDICESIMO
Mentre con questo canto il poeta di Tracia ammaliava le selve,
l'animo delle fiere, e a sé attirava le pietre,
ecco che le donne dei Cìconi in delirio, col petto coperto
di pelli selvatiche, scorgono Orfeo, dall'alto di un colle,
che accompagnava il suo canto col suono delle corde.
E una di loro, scuotendo i capelli alla brezza leggera,
gridò: "Eccolo, eccolo, colui che ci disprezza!" e scagliò il tirso
contro la bocca melodiosa del cantore di Apollo, ma il tirso,
fasciato di frasche, gli fece appena un livido, senza ferirlo.
Un'altra lancia una pietra, ma questa, mentre ancora vola,
è vinta dall'armonia della voce e della lira,
e gli cade davanti ai piedi, quasi a implorare perdono
per quel suo forsennato ardire. Ma ormai la guerra si fa furibonda,
divampa sfrenata e su tutto regna una furia insensata.
Il canto avrebbe potuto ammansire le armi, ma il clamore
smisurato, i flauti di Frigia uniti al corno grave,
i timpani, gli strepiti e l'urlo delle Baccanti
sommersero il suono della cetra. E così alla fine i sassi
si arrossarono del sangue del poeta, che non si udiva più.
Per prima cosa le Mènadi fecero strage di tutti
gli innumerevoli uccelli, ancora incantati dal canto di Orfeo,
e dei serpenti, delle fiere che erano vanto del suo trionfo.
Poi con le mani grondanti di sangue, contro lui si volsero,
accalcandosi come uccelli che avvistano un rapace notturno
disorientato dalla luce; e il poeta pareva il cervo
condannato a morire all'alba nell'arena, preda
dei cani che l'assediano sul campo. Nel loro assalto gli scagliano
contro i tirsi, virgulti di foglie non certo creati per questo.
Alcune lanciano zolle, altre rami divelti dagli alberi,
altre ancora pietre. E perché armi al loro furore non mancassero,
alcuni buoi, col vomere affondato, aravano lì quella terra,
e non lontano, preparandosi con molto sudore il raccolto,
muscolosi contadini vangavano le dure zolle;
alla vista di quell'orda, costoro fuggirono abbandonando
i loro attrezzi: disseminati sui campi deserti rimasero
così sarchielli, rastrelli pesanti e lunghe zappe.
Quelle forsennate se ne impossessarono e, fatti a pezzi i buoi,
che le minacciavano con le corna, si gettarono a finire
il poeta che, tendendo le braccia, per la prima volta
parlava al vento e nulla, nulla più ammaliava con la sua voce:
come scellerate lo massacrarono, e da quella bocca, o Giove,
ascoltata persino dai sassi e intesa dai sensi delle fiere,
con l'ultimo respiro, l'anima si disperse nel vento.
Ti piansero afflitti gli uccelli, Orfeo, ti piansero branchi di belve,
133
le rocce immobili e le selve che un tempo seguivano il tuo canto:
senza più foglie, spogli, con la chioma rasa, gli alberi
espressero il loro lutto; e si dice che anche i fiumi crebbero
a furia di piangere, e che Naiadi e Driadi indossarono manti
velati di nero, lasciando spiovere sciolti i loro capelli.
Disperse intorno giacciono le membra: capo e lira li accogliesti
tu, Ebro; è un prodigio: mentre fluttuano in mezzo alla corrente,
la lira, non so come, flebile si lamenta, la lingua esanime
mormora un flebile gemito e flebili rispondono le rive.
Trasportati sino al mare, lasciano il fiume della loro patria
per arenarsi a Metimna sulle coste di Lesbo:
qui un feroce serpente si avventa contro il capo che, gettato
su quella spiaggia straniera, è ancora intriso di gocce fra i capelli.
Ma a quel punto Febo interviene e lo blocca mentre si appresta
a mordere, immobilizzando in roccia quelle fauci
spalancate, pietrificandolo, così com'è, a bocca aperta.
Sottoterra scende l'ombra di Orfeo, e tutti riconosce i luoghi
che aveva visto prima; poi, cercandola nei campi dei beati,
ritrova Euridice e la stringe in un abbraccio appassionato.
Qui ora passeggiano insieme: a volte accanto, a volte lei davanti
e lui dietro; altre volte ancora è invece Orfeo che la precede
e, ormai senza paura, si volge a guardare la sua Euridice.
Bacco però non permise che lo scempio rimanesse impunito:
addolorato per la perdita del cantore dei suoi misteri,
sùbito con grovigli di radici inchiodò nelle selve tutte
le donne di Tracia che avevano partecipato al sacrilegio.
Ad ognuna allungò, là dov'era al termine dell'inseguimento,
le dita dei piedi e ne conficcò le punte nella dura terra.
Come un uccello che posa le zampe sulla rete, con astuzia
occultata dal cacciatore, sentendosi preso si dibatte
e agitandosi convulsamente non fa che stringere le maglie,
così ognuna di loro, quando confitta al suolo vi aderì,
atterrita cercava invano di fuggire, ma tenace
la tratteneva la radice, impedendole i movimenti.
Mentre si chiede dove siano le dita, dove i piedi e le unghie,
vede ognuna salire il legno lungo le sue gambe affusolate,
e nel tentativo di battersi la coscia in segno di dolore,
picchia sul legno: e in legno si trasforma pure il petto,
in legno le spalle, e se tu avessi scambiato le braccia protese
per rami veri, non avresti sbagliato nel giudicare.
Non contento di ciò, Bacco abbandonò anche quelle contrade
e con seguaci più miti si recò nei vigneti del suo Tmolo,
vicino al Pactolo, fiume che a quel tempo non era ancora aurifero
e non era fonte di cupidigia per la sua sabbia preziosa.
Lì si radunò il suo solito séguito di Satiri e Baccanti;
mancava solo Sileno. Barcollante per gli anni e il vino,
l'avevano sorpreso i contadini della Frigia e inghirlandato
l'avevano condotto dal re Mida, che dal tracio Orfeo
e dall'ateniese Eumolpo era stato iniziato ai riti di Bacco.
Riconosciuto il vecchio amico e compagno di culto, Mida,
per la felicità del suo arrivo, aveva indetto una gran festa,
in onore dell'ospite, di dieci giorni e dieci notti.
E già in cielo per l'undicesima volta aveva Lucifero
disperso le stelle, quando, raggiante, nelle campagne di Lidia
giunse il re per riconsegnare Sileno al suo giovane pupillo.
Felice d'aver ritrovato il suo maestro, Bacco invitò Mida
a scegliersi un premio: facoltà lusinghiera, ma pericolosa,
perché il re non se ne avvalse con saggezza, dicendo: "Fa'
che tutto quello che tocco col mio corpo si converta in oro fulvo".
Bacco esaudì il desiderio, sdebitandosi con quel dono, presto
134
fonte di guai, ma si rammaricò che non avesse scelto meglio.
Lieto, godendo a suo danno, se ne andò via l'eroe di Frigia
e prese a toccare ogni cosa per saggiare la parola data.
Quasi non credendo a se stesso, staccò dal ramo di un basso leccio
una frasca verdeggiante, e quella diventò d'oro.
Da terra raccolse un sasso e anche quello prese il colore dell'oro.
Tocca allora una zolla: al suo magico tocco la zolla diventa
una pepita d'oro; coglie aride spighe di grano:
un raccolto d'oro; stringe un frutto colto da un albero:
lo si direbbe un dono delle Espèridi; se poi accosta
le dita in cima a uno stipite, quello appare tutto sfolgorante.
Persino quando si lava le mani in acqua limpida,
quell'acqua, fluendo dalle sue mani, potrebbe ingannare Dànae.
Immaginando d'oro ogni cosa, non riesce più a nascondere
le sue speranze. E mentre esulta, i servi gli apparecchiano
la tavola, imbandendola di vivande e pane tostato.
Ma, ahimè, ora, come tocca i doni di Cerere
con la mano, quei doni diventano rigidi; se poi
avidamente cerca di lacerare coi denti una vivanda,
appena l'addenta una lamina d'oro ricopre la pietanza;
mischia ad acqua pura il vino del suo benefattore Bacco:
oro liquido gli avresti visto colare in bocca.
Sgomento per quell'inattesa sciagura, ricco e povero insieme,
vuol sottrarsi all'opulenza e odia ciò che aveva un tempo sognato.
Tanta abbondanza non può sedargli la fame, arida di sete
gli arde la gola e, come è giusto, è tormentato dall'odio per l'oro.
E allora, levando al cielo le mani e le braccia brillanti, esclama:
"Perdonami, padre Bacco, ho peccato, ma abbi compassione,
ti scongiuro, liberami da questa fastosa indigenza!".
Mite è il verdetto divino: poiché riconosce d'aver sbagliato,
Bacco lo rende com'era, annullando il dono concesso per obbligo.
E gli dice: "Perché tu non rimanga invischiato nell'oro
mal desiderato, rècati al fiume vicino alla grande Sardi
e cammina in senso contrario alla corrente, verso i gioghi
del monte, finché tu non giunga alla sorgente, e lì,
dove sgorga più intensa, poni il capo sotto gli zampilli
della fonte e lava insieme al corpo la colpa".
Il re ubbidì andando sotto l'acqua: l'aurifera facoltà
colorò la corrente e dal corpo umano passò al fiume.
Ancor oggi le rive, assorbito il germe di quell'antica vena,
si ergono dure e pallide con le loro zolle impregnate d'oro.
Tediato dalla ricchezza, Mida viveva in campagna e tra i boschi,
onorando Pan, che ha la sua dimora negli antri dei monti.
Ma era sempre un essere grossolano e per la testa gli passavano
tali sciocchezze che, come innanzi, gli avrebbero attirato guai.
Dominando dall'alto la vastità del mare, ripido si erge
in altezza il monte Tmolo e con le sue pendici estese, da un lato
si spinge sino a Sardi, dall'altro sino alla minuscola Ipepe.
Qui Pan, un giorno che, vantando alle tenere ninfe i propri carmi,
modulava sulle canne della zampogna un'aria di canzone,
osò spregiare, a suo paragone, la musica di Apollo,
e così giunse (Tmolo come giudice) a una sfida, ahimè, rischiosa.
Assiso sulla sua montagna, il vecchio giudice scostò
gli alberi dalle orecchie; cinse la sua chioma cerulea soltanto
di quercia e con qualche ghianda che pendeva intorno alle tempie;
quindi, rivolto al dio delle greggi, disse: "Il giudice è pronto:
si cominci". E Pan si mise a suonare la sua rustica zampogna,
incantando col suo canto selvaggio Mida, che per caso
gli era accanto. Quand'ebbe finito, il sacro Tmolo rivolse il volto
verso quello di Febo e tutto il bosco ne seguì lo sguardo.
Febo, col capo biondo cinto dall'alloro del Parnaso,
sfiorava il suolo con un mantello sfolgorante di porpora,
135
e con la sinistra reggeva la cetra tempestata di gemme
e intarsiata d'avorio; nell'altra mano teneva il plettro.
La sua posa rivelava l'artista. E allora col pollice esperto
fece vibrare le corde con tanta dolcezza che, affascinato,
Tmolo invitò Pan a dare vinta dalla lira la sua zampogna.
Il verdetto del venerato monte fu approvato
da tutti; eppure Mida, lui solo, lo biasimò,
definendolo ingiusto. Il dio di Delo non si rassegnò
che quelle stolide orecchie conservassero forma umana,
e così gliele allungò, ricoprendole di peli grigi,
e le rese mobili alla base, perché potessero agitarsi.
Umano rimase il resto: in quell'unica parte fu lui punito,
ritrovandosi con le orecchie di un pigro asinello.
Nel tentativo di nascondere quella vergogna,
Mida cercò di coprire le tempie con una tiara purpurea.
Ma il servo, che era solito tagliargli con la lama i capelli
troppo lunghi, le vide, e smanioso di divulgare la notizia,
non osando rivelare la deformità che aveva scoperto,
eppure non riuscendo a tacere, si appartò e, scavata una buca,
con un filo di voce, mormorando, riferì alle viscere
della terra che razza di orecchie aveva visto al padrone.
Poi seppellì il segreto rivelato, coprendo com'era prima
il terreno, e occultata quella buca, se ne andò alla chetichella.
Ma in quel luogo cominciò a spuntare una fitta macchia
di canne tremule, che in capo a un anno fu tutto un rigoglio
e tradì il seminatore: agitata dalla brezza, riferiva
le parole sepolte, divulgando che orecchie aveva il padrone.
Vendicatosi così, il figlio di Latona lasciò il monte Tmolo
e, volando nell'aria limpida, si fermò prima dello stretto
di Elle, la figlia di Nèfele, nella terra di Laomedonte.
A destra del Sigeo e a sinistra del profondo mare Reteo
c'è un antico altare consacrato al tonante nume degli oracoli.
Da lì Febo vede Laomedonte che sta erigendo le mura
di Troia, appena fondata, e vede che la grande impresa procede
con sovrumana fatica e richiede non poche risorse.
E allora, col nume del tridente e delle profondità marine,
assume sembianze umane e, pattuito un compenso in oro,
edifica le mura per il monarca di Frigia.
L'opera è finita: ma il re nega d'aver concordato un compenso e,
per colmo di perfidia, alla menzogna aggiunge lo spergiuro.
"La sconterai!", gridò il nume del mare e scatenò
cumuli d'acqua contro le spiagge di quell'avara Troia,
inondò la regione come fosse un mare, e ai contadini
tolse ogni loro avere, seppellendo i campi sotto i flutti.
E questa pena non fu sufficiente: pretese anche che la figlia
del re fosse data a un mostro marino. Legata a uno scoglio, Esìone
fu salvata da Ercole, che poi pretese i cavalli promessigli
in premio. Ma come gli venne negato il compenso per l'impresa,
assalì ed espugnò le mura di Troia, due volte spergiura.
E fra i guerrieri, Telamone non ritornò senza onori:
ottenne che sua fosse Esìone. Peleo invece era già famoso
per aver sposato una dea, e se era fiero di suo nonno,
non meno lo era del suocero, poiché se non era il solo ad essere
nipote di Giove, il solo era ad avere in moglie una dea.
A Teti infatti l'anziano Pròteo aveva predetto: "O dea dell'onda,
spòsati: sarai madre di un giovane, che nel pieno delle forze
supererà le gesta del padre e di lui sarà detto più grande".
Allora Giove, perché il mondo nulla avesse più grande di sé,
sebbene in petto covasse una fiamma tutt'altro che tiepida
per la marina Teti, evitò d'accoppiarsi a lei,
136
e dispose che suo nipote, il figlio di Èaco, lo sostituisse
come amante e si unisse in matrimonio con la vergine del mare.
C'è, nell'Emonia, un'insenatura che s'incurva in forma di falce;
due bracci si stendono avanti e lì, se più profondo fosse il mare,
vi sarebbe un porto; ma l'acqua copre appena il fondo della rena.
La spiaggia è compatta, così che tracce non vi restano,
e non ritarda la marcia o la rende incerta per alghe celate.
A ridosso c'è una macchia di mirti, piena di bacche cangianti,
e al centro una grotta, che non si sa se sia opera di natura
o scavata ad arte (ma è più probabile questo). Qui tu venivi
spesso, Teti, tutta nuda, guidando in groppa il tuo delfino.
Fu qui che Peleo, mentre giacevi vinta dal sonno,
ti sorprese e, poiché tu non cedesti alle sue preghiere, tentò
di violentarti, avvinghiandosi con entrambe le braccia al tuo collo.
E sarebbe riuscito nell'intento, se tu, ricorrendo
alle tue arti, non ti fossi trasformata di continuo;
ma ora tu eri un uccello, e un uccello lui stringeva;
ora eri un albero robusto, e lui a un albero stava aggrappato.
La terza forma che tu assumesti fu quella di tigre striata:
questa volta, atterrito, Peleo sciolse dal corpo le braccia.
E allora si mise a pregare gli dei del mare, spargendo vino
sui flutti, offrendo visceri d'agnello e vapori d'incenso,
finché Pròteo, l'indovino di Càrpato, in mezzo ai gorghi gli disse:
"Figlio di Èaco, l'amplesso che desideri tu l'otterrai;
basta solo che, quando riposa in quell'antro tenebroso,
tu l'avvinca, senza che se ne accorga, con funi ben strette.
E non sorprenderti, se assume l'apparenza di cento figure:
stringila, qual che sia, finché non riassuma il suo vero aspetto".
Così disse Pròteo, nascondendo il volto nell'acqua
e lasciando che i flutti coprissero le sue ultime parole.
Il sole era al tramonto e col suo carro inclinato sfiorava ormai
il mare d'Esperia, quando la bella Nereide, lasciati
gli abissi dell'oceano, entrò nel suo consueto rifugio.
Appena Peleo aggredì il suo corpo immacolato,
lei mutò forma e forma, finché non sentì le membra
immobilizzate e le braccia divaricate ai suoi lati.
Gemendo, allora disse: "Non è senza l'aiuto di un dio che vinci",
tornò ad essere Teti e a lui si arrese. L'eroe l'abbracciò,
esaudì le sue brame e la rese madre del grande Achille.
Padre felice, felice marito, se tu, Peleo, non avessi
commesso il delitto di sgozzare Foco, d'ogni favore
avresti goduto. Ma per esserti macchiato di sangue
fraterno, fosti cacciato di casa e trovasti rifugio in terra
Trachinia. Qui senza violenza, senza stragi, regnava Ceìce,
che, nato da Lucifero, recava in volto tutto lo splendore
di suo padre; ma in quell'epoca, irriconoscibile e triste,
piangeva la perdita del proprio fratello. Il figlio di Èaco,
quando arrivò, stanco per il proprio travaglio e il lungo viaggio,
lasciati non lontano dalle mura, in una valle ombrosa,
gli armenti e le greggi che portava con sé, entrò in città
seguito da pochi compagni. Poi, non appena fu ammesso
alla presenza del sovrano, offrendo supplichevole
un ramoscello d'ulivo fasciato di bende, spiegò chi era
e di chi fosse figlio. Nascose solo la propria colpa,
mentendo sulla causa dell'esilio, e chiese di trovare asilo
in città o in campagna. E il re di Trachine con voce affabile
così gli rispose: "Anche la gente comune può godersi i beni
che offre il paese, Peleo: il nostro regno non è inospitale.
A questa disponibilità aggiungi i tuoi meriti: sei famoso
e discendi da Giove. Non dilungarti in preghiere:
avrai tutto ciò che vuoi e qualunque cosa vedi,
137
puoi dirla in parte tua. Volesse il cielo che tu vedessi di meglio!".
E piangeva. Peleo e i suoi compagni chiesero
quale fosse la causa di tanto dolore e lui così rispose:
"Forse quell'uccello, che vive di rapina e tutti gli altri uccelli
atterrisce, voi credete che abbia avuto sempre le penne:
era un uomo un tempo e, tanto è stabile l'indole, già allora
era intrepido, fiero in guerra e pronto alla violenza;
si chiamava Dedalione, nato come me da colui
che desta l'aurora ed esce per ultimo dal cielo.
Io ho il culto della pace e sempre ho cercato d'averla per me
e mia moglie; a mio fratello invece piaceva il rischio della guerra.
Col suo valore sottomise re e popoli;
ora, mutato com'è, sgomina le colombe di Tisbe.
Aveva una figlia, Chìone, che per la sua bellezza eccezionale
aveva già da ragazza, a quattordici anni, mille pretendenti.
Tornando per caso Febo dalla sua Delfi,
e il figlio di Maia, Mercurio, dalla cima del Cillene,
insieme la videro e insieme se ne accesero.
Febo rimanda alle ore della notte il progetto di possederla,
ma l'altro non tollera indugi e tocca le labbra della fanciulla
con la bacchetta ipnotica. A quella magia lei si addormenta
e subisce la violenza del nume. La notte cosparge il cielo
di stelle: Febo si trasforma in vecchia e coglie piaceri già colti.
Quando la gestazione ebbe compiuto il suo dovuto corso,
dal seme del dio alato nacque un fanciullo astuto,
Autòlico, in grado di commettere qualsiasi furfanteria,
sempre pronto a mutare il nero in bianco e il bianco
in nero, degno erede della furbizia paterna.
Da Febo invece (Chìone infatti mise al mondo due gemelli)
nacque Filammone, un genio nel canto e nella cetra.
Ma a Chìone che giovò aver partorito due gemelli, esser piaciuta
a due numi, aver per padre un guerriero e come nonno
un astro lucente? Non nuoce molte volte anche la gloria?
A lei nocque di certo, visto che pretese d'anteporsi a Diana,
criticandone la bellezza. E quella, inferocita
e sconvolta dall'ira, le gridò: "Ti piacerò coi fatti!".
In un lampo curvò l'arco, scoccò con la corda una freccia
e con la sua punta trapassò quella lingua criminale.
Tacque la lingua: più non consentiva voce o impulsi di parole;
lei cercava di parlare, ma col suo sangue si perse la vita.
Ahimè, che strazio, angosciato, provai nel mio cuore di zio
e quante parole di conforto non dissi a mio fratello!
Ma lui le accoglieva come uno scoglio accoglie il mormorio
del mare, piangendo senza respiro la perdita della figlia.
Quando poi ardere la vide sul rogo, quattro volte cercò
di gettarsi tra le fiamme; quattro volte fu trattenuto,
e allora sconvolto si diede alla fuga, precipitandosi
a testa bassa, come un giovenco punzecchiato dai calabroni,
nel deserto dei campi. E già sembrava che corresse più veloce
di un essere umano, come se ai piedi avesse le ali.
Nessuno poté raggiungerlo e, per smania d'uccidersi,
in un lampo salì sulla vetta del Parnaso. Quando dall'alto
di una rupe si gettò giù, Apollo ne ebbe compassione:
lo mutò in uccello e con ali, apparse all'improvviso, lo sostenne
in volo; gli diede becco adunco e curvi artigli per unghie,
e, col coraggio antico, una forza eccezionale rispetto al corpo.
Ora è uno sparviero, a nessuno bene accetto, che infierisce
contro tutti gli uccelli e, come soffre, fa soffrire gli altri".
Mentre il figlio di Lucifero, Ceìce, narra la storia
prodigiosa di suo fratello, ecco che arriva di corsa e ansimante
138
Onètore, un guardiano delle mandrie di Peleo, e grida:
"Peleo, Peleo, sciagura immensa devo riferirti!".
Peleo gli intima di parlare, qualunque sia la notizia,
e anche Ceìce pende impaurito da quelle labbra tremanti.
E lui racconta: "Avevo spinto i buoi stanchi in seno alla riva,
quando il sole, a metà del suo corso, giunto altissimo in cielo,
vedeva dietro di sé tanta strada quanta ne vedeva avanti.
E gli animali in parte si erano accosciati sulla bionda rena
guardando coricati l'ampia distesa del mare,
in parte a passi lenti si aggiravano vagando per la spiaggia;
altri nuotavano tenendo il collo levato fuori dell'acqua.
Vicino al mare c'è un tempio che non risplende d'oro e marmi,
ma sorge in mezzo all'ombra dei fitti tronchi di un bosco antico.
È sacro a Nèreo e alle Nereidi. Che si tratti di dei del mare
me l'ha detto un marinaio, mentre sul lido stendeva le reti.
Accanto c'è una palude, chiusa intorno da fitti salici,
una palude formata d'acqua marina che ristagna.
Lì con grande fragore e strepito, terrorizzando tutto il luogo,
balza fuori dalla macchia palustre una belva mostruosa, un lupo
con le fauci micidiali coperte di bava e imbrattate
di sangue, con gli occhi iniettati di fiamme corrusche.
Per rabbia e fame si sfrena come una furia, ma è per rabbia
che si fa più feroce. Non si cura solo del proprio digiuno,
di placare la sua spaventosa fame uccidendo qualche bue,
ma colpisce tutta la mandria e tutta, implacabile, la distrugge.
E anche qualcuno di noi, ferito dal suo morso mortale,
rimane ucciso mentre cerca di difendersi. Spiaggia, battigia
e palude rimbombano di muggiti e sono rossi di sangue.
Ma un delitto è perdere tempo, non sono permesse indecisioni:
prima che tutto sia perduto, tutti quanti insieme, avanti,
le armi prendiamo, le armi, e tutti insieme diamogli la caccia".
Così dice il mandriano, ma Peleo non si turba per la perdita:
memore del suo delitto, intuisce che questa disgrazia
è un omaggio reso all'ombra di Foco dalla Nereide sua madre.
Il re dell'Eta ordina ai suoi d'indossare le armature e di prendere
armi d'assalto, e si accinge a partire insieme a loro.
Ma, richiamata dal trambusto, ecco che accorre Alcione,
sua moglie, così com'è, con i capelli ancora in disordine,
ed anzi lì li scompiglia, si getta al collo del marito
e con parole e lacrime lo scongiura d'inviare soccorsi
senza parteciparvi e di salvare insieme la vita d'entrambi.
E a lei il figlio di Èaco: "Giusta e commovente paura, o regina,
ma non temere: la vostra offerta mi basta per esservi grato;
non voglio che si prendano le armi contro un mostro inaudito:
pregare la divinità del mare intendo". C'era un'alta torre
con in cima un fuoco, àncora di salvezza per le navi in pericolo.
Salgono lassù, e da lì vedono con sgomento
la spiaggia disseminata di buoi morti e la belva
micidiale lorda di sangue sul muso e sul lungo pelo.
Allora Peleo, tendendo le mani dalla riva al mare aperto,
prega la cerulea Psàmate di placare la sua ira
e d'essergli propizia. Ma lei non si piega alla voce implorante
del figlio di Èaco; è Teti che, intercedendo per il marito,
ne ottiene il perdono. Il lupo però, eccitato dal gusto
del sangue, benché richiamato, insiste in quell'orribile massacro,
finché, mentre azzanna il collo di una giovenca dilaniata,
lei non lo muta in marmo. Eccetto il colore, conserva
l'aspetto che aveva: ed è proprio il colore di pietra che rivela
come ormai non sia più un lupo e non si debba più temerlo.
Tuttavia il destino non permette che il profugo Peleo
si fermi in questa terra: vagando, l'esule giunge fra i Magneti
e solo qui, grazie ad Acasto d'Emonia, si purga del delitto.
139
Intanto Ceìce, turbato e col cuore sgomento
per i prodigi subiti dal fratello e che al fratello seguirono,
volendo, come un mortale, per conforto consultare un oracolo,
si accinge a partire per il santuario di Claro: inaccessibile,
per colpa dell'empio Forba e dei Flegi, era infatti quello di Delfi.
Prima, però, confida a te il suo progetto, o fedelissima
Alcione: subito un gelo ti penetra nelle ossa
e un pallore quasi identico a quello del legno di bosso
ti sbianca il volto, diluvi di lacrime ti bagnano le guance.
Tre volte tenta di parlare, tre volte il pianto riga il suo viso,
finché con voce rotta dai singhiozzi, così, spinta dall'affetto,
geme: "Quale mia colpa ha stravolto, amore mio, la tua mente?
Dove mai è finito il bene che prima tu mi volevi?
Puoi dunque andartene tranquillamente abbandonando Alcione?
Desideri darti a lunghi viaggi? Lontana ti sarei più cara?
M'auguro che per terra sia la strada: almeno proverò dolore,
sì, ma non paura; soffrirò, certo, ma senza troppo timore.
È il mare che mi sgomenta, la vista delle sue tristi distese:
anche poco fa ho visto sulla spiaggia rottami di naufragi
e quante volte ho letto nomi su tombe prive di corpo!
E non lasciarti sedurre da folle fiducia al pensiero che Eolo,
il figlio di Ippota è tuo suocero, in grado di imprigionare
la violenza dei venti e di placare il mare quando vuole.
Una volta che, scatenati, i venti s'impossessano del mare,
nulla più gli è vietato, e non c'è terra o uno specchio di mare
che rimanga affidabile: sconvolgono in cielo le stesse nubi
e con mischie selvagge ne sprigionano fuochi abbaglianti.
Quanto più li conosco (e li conosco bene, perché li vedevo
bambina in casa di mio padre), più li ritengo temibili.
Ma se non c'è preghiera, marito mio, che possa distoglierti
dal tuo proposito e sei proprio deciso a partire,
portami con te! Almeno saremo travagliati insieme
e non dovrò temere che la sofferenza; insieme subiremo
ciò che vorrà il destino, insieme solcheremo il vasto mare!".
A questo sfogo e pianto della figlia di Eolo, si commuove
il suo celeste marito: non nutriva per lei minor passione.
Ma non volendo rinunciare all'idea del viaggio per mare
e allo stesso tempo esporre anche Alcione ai suoi pericoli,
si sforza in mille modi di confortare quel cuore impaurito.
Non riesce però a convincerla e allora aggiunge per calmarla
queste parole, le uniche alle quali il suo amore si rassegna:
"Certo per noi eterna è qualsiasi assenza, ma io ti giuro
sul fuoco di mio padre, che se il fato m'accorderà di tornare,
farò ritorno prima che la luna colmi due volte il suo disco".
Quando con questa promessa le accese la speranza del rimpatrio,
ordina che una nave sia tratta dall'arsenale, spinta in mare
e armata senza indugio di tutto punto per la navigazione.
A quella vista, quasi presagendo il futuro, di nuovo
Alcione rabbrividisce, scoppiando in un pianto dirotto,
lo stringe fra le braccia e, disperata, con voce afflitta, alla fine
'Addio' gli dice e con tutto il corpo si accascia al suolo.
E ora, mentre Ceìce vorrebbe indugiare, i marinai
in doppia fila traggono i remi verso il petto robusto,
fendendo i flutti con ritmo uniforme. Alcione leva gli occhi
umidi di pianto e vede il marito, che in piedi sul bordo
della poppa le fa per primo dei segni agitando
la mano, e risponde a quei cenni. Quando dalla riva s'allontana
e l'occhio non riesce più a distinguere i volti, lei,
finché può, segue con lo sguardo lo scafo che fugge. E quando
anche questo, ormai troppo distante, non si distingue più,
fissa ancora la vela che ondeggia sulla cima dell'albero.
140
Quando poi svanisce anche questa, corre angosciata a gettarsi
sul letto vuoto della sua stanza. Ma letto e stanza le rinnovano
il pianto, rammentandole quanta parte di sé le manchi.
La nave era ormai uscita dal porto e il vento agitava le sàrtie:
i marinai ritirano i remi sospendendoli alle murate,
issano i pennoni in cima all'albero e spiegano
tutte le vele perché accolgano le folate del vento.
Solcando i flutti, la nave era giunta più o meno
a metà della rotta e la terra delle due sponde era lontana,
quando sul far della notte il mare cominciò a biancheggiare
di gonfi cavalloni e l'Euro impetuoso a soffiare più violento.
"Ammainate i pennoni, ammainateli in fretta" grida
il comandante, "e avvolgete intorno all'asta tutta la vela."
Così comanda, ma la tempesta incombente rende vano l'ordine:
il frastuono del mare non permette d'udirne la voce.
E tuttavia alcuni da sé si affrettano a ritirare i remi,
altri a rinforzare le paratie o a sottrarre le vele al vento;
e v'è chi scarica l'acqua imbarcata, rigettando il mare in mare,
chi abbassa in fretta i pennoni. Ma mentre senz'ordine si lavora,
minaccioso cresce il fortunale e da ogni parte impetuosa
si scatena la furia dei venti, sconvolgendo il mare in burrasca.
Anche il comandante ha paura e ammette lui stesso di non sapere
quale sia la situazione, cosa si debba ordinare o vietare:
tanto grande è il pericolo che supera persino la perizia.
Senza uguali è il frastuono: urla di uomini, stridio di sàrtie,
scrosci di onde che si abbattono su altre onde, tuoni in cielo.
Il mare si gonfia di flutti, sembra raggiungere il cielo
e investire di schizzi persino la cappa delle nubi,
ed ora sollevando dal fondo la bionda rena
prende il suo colore, ora è più nero dell'acqua dello Stige,
poi a volte si distende e biancheggia in un fruscio di spuma.
Anche la nave di Trachine è coinvolta in questa sorte
e ora, portata in alto, sembra che dalla vetta di un monte
guardi giù nelle valli sino in fondo all'Acheronte,
ora, caduta sul fondo con l'arco del mare che la circonda,
sembra dai gorghi infernali guardare in alto il cielo.
Spesso investita al fianco dai marosi manda un gran fragore,
e percossa rimbomba cupa come una rocca squassata
e smantellata da un ariete di ferro o da una balestra.
E come, con violenza accresciuta dallo slancio, contro le lance
e le armi protese si avventano inferociti i leoni,
così i marosi, spinti dalla furia delle raffiche, si avventano
contro l'ossatura della nave e in altezza tutta la sovrastano.
Ormai cedono i cunei e, spogliate del rivestimento di pece,
si allargano le commessure, offrendo un varco ai flutti micidiali.
Ecco che dalle nubi squarciate scrosciano diluvi di pioggia,
e si direbbe che il cielo intero crolli nel mare
e che il mare gonfiandosi salga sino a invadere il cielo.
Sotto gli scrosci grondano le vele e con l'acqua che cade
dal cielo si mischia quella del mare. Non brilla una stella;
tempesta e tenebre raddoppiano la foschia della notte.
Ma la squarciano i fulmini, incendiandola di luci
coi loro bagliori, e le onde divampano ai lampi di quelle fiamme.
Ormai i flutti irrompono dentro lo scafo della nave
e come il soldato più prode dell'intero suo reparto,
dopo avere assalito invano e più volte i bastioni che difendono
una città, alla fine vi riesce e infiammato d'amore di gloria
solo tra mille balza sulle mura e le conquista,
così, dopo che nove volte ondate hanno percosso le fiancate,
la decima, ergendosi ancora più immane, avventa la sua furia
e assalta senza tregua la nave allo stremo, finché, scavalcate
141
le paratie, si abbatte entrobordo e l'espugna.
E mentre ancora una parte di mare tenta d'assalirla,
un'altra è già dentro. I marinai, tutti, sono in preda al panico,
come in preda al panico è la città, quando una parte del nemico
scalza le mura dall'esterno, mentre un'altra occupa già l'interno.
La maestria non serve, il coraggio vien meno ed ogni flutto
che arriva sembra irrompere scavando morte.
Chi piange, chi è inebetito, chi chiama beati coloro
che avranno sepoltura, chi supplica, fa voti agli dei
e implora aiuto tendendo invano le braccia al cielo
che non si vede. Quello si sovviene di fratelli e genitori,
questo della casa e dei figli, ognuno di ciò che ha lasciato.
Si angoscia Ceìce per Alcione, sulle labbra di Ceìce
non c'è che Alcione, solo lei vorrebbe avere accanto, ma è felice
che sia lontana. Vorrebbe girarsi verso i lidi della patria,
volgere un ultimo sguardo verso la propria casa,
ma dove sia, l'ignora: tanto vertiginosamente ribolle
il mare e tanto è nascosto il cielo dall'ombra che diffondono
le nubi, al punto che la notte appare doppiamente fonda.
Sotto l'assalto impetuoso della bufera l'albero si spezza,
si spezza anche il timone, e l'onda si solleva tronfia, vittoriosa
sulla sua preda, e ricadendo guarda dall'alto le onde ai suoi piedi,
poi piomba giù di schianto, violentissima, come se uno svellesse
dalla base e rovesciasse in mare aperto l'intero Pindo
o tutto l'Ato, e con l'urto e il suo peso sommerge sul fondo
la nave, e con lei quasi tutto l'equipaggio, che, travolto
e coperto dai gorghi, più non torna a galla
e perde, ahimè, la vita. Gli altri si aggrappano ai resti,
ai relitti della nave. Ceìce stesso si regge a un rottame
con la mano che stringeva lo scettro, e invoca, ahimè invano,
suocero e padre. Ma il naufrago, più di tutti, ha sulla bocca
Alcione, la sua sposa: la rivede, pensa a lei,
spera che i flutti sospingano il suo corpo davanti agli occhi suoi,
che il suo cadavere sia tumulato dalle sue mani amorose.
Mentre nuota, ogni volta che i flutti gli permettono d'aprir bocca,
chiama Alcione lontana e ne mormora il nome anche sott'acqua.
Ed ecco che fra i marosi s'inarca un picco d'acqua nera,
si frange e schiantandosi gli sommerge il capo e lo travolge.
Rimase buio Lucifero, senza che si potesse distinguerlo,
quel mattino: poiché dal cielo non gli era permesso
d'assentarsi, aveva velato il suo volto di fitte nubi.
Intanto la figlia di Eolo, all'oscuro di quella immane sciagura,
contava le notti e già preparava con impazienza le vesti
che Ceìce avrebbe indossato e quelle che lei avrebbe portato
al suo ritorno, nel quale, vanamente ahimè, confidava.
E a tutti gli dei offriva devota il suo incenso,
ma più di tutti onorava Giunone, andando davanti all'altare
del suo tempio a pregare per il marito, che più non era,
perché stesse bene, perché tornasse sano e salvo,
perché non s'innamorasse di nessun'altra. E di tante preghiere
quest'ultima era la sola che potesse avverarsi.
Ma la dea non sopportò a lungo d'esser pregata per un morto
e, per allontanare dal suo altare quelle mani luttuose:
"Iride," disse, "fedelissima mia messaggera,
rècati immediatamente alla reggia soporifera del Sonno
e digli di mandare ad Alcione un sogno, che con l'immagine
di Ceìce morto le riveli ciò che è accaduto in realtà".
Così disse, e Iride, indossato il suo manto di mille colori,
descrivendo un arco nel cielo, andò come le era stato ordinato
alla dimora del re, che è nascosta sotto una coltre di nubi.
142
Dove stanno i Cimmeri c'è una spelonca dai profondi recessi,
una montagna cava, dimora occulta del pigro Sonno,
nella quale con i suoi raggi, all'alba, al culmine o al tramonto,
mai può penetrare il sole: dal suolo, in un chiarore incerto
di crepuscolo, salgono senza posa nebbie e foschie.
Qui non c'è uccello dal capo crestato che vegli e chiami
col suo canto l'aurora; e non rompono, col loro richiamo,
il silenzio cani all'erta od oche più sagaci dei cani.
Non si ode suono di fiere o di armenti, non di rami mossi
da un alito di vento, non si ode alterco di voci umane.
Vi domina silenzio e quiete. Solo da un anfratto della roccia
sgorga un rivolo del Lete, la cui acqua scivola via
mormorando tra un fruscio di sassolini e concilia il sonno.
Davanti all'ingresso dell'antro fiorisce un mare di papaveri
e un'infinità di erbe, dalla cui linfa l'umida Notte attinge
il sopore per spargerlo sulle terre immerse nel buio.
In tutta la casa non v'è una porta, perché i cardini girando
non stridano; nessuno sta di guardia sulla soglia.
Al centro della grotta si alza un letto d'ebano imbottito
di piume del medesimo colore e coperto di un drappo scuro,
dove con le membra languidamente abbandonate dorme il nume.
Tutto intorno giacciono alla rinfusa, negli aspetti più diversi,
le chimere dei Sogni, tante quante sono le spighe nei campi,
le fronde nei boschi, o quanti i granelli di sabbia spinti sul lido.
Quando la vergine vi entrò, scostando con le mani i Sogni
per poter passare, al fulgore della sua veste s'illuminò
la sacra dimora, e il nume, schiudendo a malapena gli occhi
appesantiti dalla sonnolenza, e ancora ancora ricadendo,
con il mento che ciondoloni gli sbatteva in alto contro il petto,
riuscì finalmente a scuotersi e, sollevandosi sul gomito,
le chiese, avendola riconosciuta, perché mai fosse venuta.
E lei: "Sonno, quiete d'ogni cosa, Sonno, dolcissimo fra i numi,
pace dell'animo, che disperdi gli affanni e rianimi
i corpi oppressi dal lavoro e li ritempri per nuove fatiche,
ordina a un Sogno, che sappia imitare forme vere,
di recarsi a Trachine, la città di Ercole, e presentarsi
ad Alcione con le sembianze di Ceìce, come appare un naufrago.
Lo comanda Giunone". E appena ebbe assolto la missione,
Iride se ne andò, perché più non resisteva al potere
soporifero del luogo: come sentì la sonnolenza invaderle
le membra, fuggì via risalendo l'arco dal quale era venuta.
Allora il Sonno dalla marea dei suoi mille figli
destò Morfeo, un talento nell'assumere qualsiasi sembianza.
Nessun altro più abilmente di lui è in grado d'imitare
l'incedere che gli si chiede, l'espressione e il timbro della voce;
in più vi aggiunge il modo di vestire e le parole che distinguono
quell'individuo. Ma imita soltanto le persone, mentre invece
c'è un altro figlio che diventa fiera, uccello o lunghissima serpe:
gli dei lo chiamano Ícelo, Fobètore i comuni mortali.
Ve n'è poi un terzo, Fàntaso, che si distingue per valentia
diversa: si trasforma con l'inganno in terra, roccia,
acqua o tronco, insomma in qualsiasi cosa inanimata.
Alcuni appaiono di notte a re e condottieri,
altri si aggirano tra la gente del popolo.
Il venerando Sonno tralasciò tutti questi e fra tanti figli
scelse appunto il solo Morfeo per eseguire gli ordini recati
dalla figlia di Taumante. Poi, risciogliendosi in molle languore,
reclinò il capo, sprofondando nelle coltri del suo letto.
Senza fare con le sue ali il minimo brusio, Morfeo volò
attraverso le tenebre e in breve tempo giunse nella città
dell'Emonia; qui, spogliato il suo corpo delle penne,
143
si trasformò in Ceìce e, assuntone l'aspetto,
livido, cadaverico, senza uno straccio addosso,
si mise davanti al letto dell'infelice Alcione. Madida
sembrava la sua barba e fradici, grondanti d'acqua i suoi capelli.
Poi, chinandosi sul letto, col viso inondato di lacrime,
così disse: "Riconosci Ceìce, moglie mia infelicissima?
O forse la morte mi ha sfigurato? Guardami: mi vedrai, sì,
ma in luogo di tuo marito ne troverai soltanto l'ombra.
A nulla sono valse, Alcione mia, le tue preghiere:
morto sono. Non illuderti ch'io possa tornare: è un'utopia.
Gravido di nubi, l'Austro ha sorpreso la mia nave
sul mare Egeo e soffiando violento l'ha investita e poi distrutta.
I flutti hanno riempito la mia bocca che invano gridava
il tuo nome. Non ti annuncia questa sciagura un messaggero
ambiguo, queste che senti non sono vaghe voci:
sono io, proprio io, morto annegato, a rivelarti la mia sorte.
Suvvia, àlzati, versa le tue lacrime, vèstiti a lutto,
non lasciarmi andare, senza compianto, nel vuoto del Tartaro!".
E Morfeo impiegava una voce che lei non poteva non prendere
per quella del marito; e anche le parve che versasse
lacrime vere e che la mano avesse di Ceìce il gesto.
Nel sonno Alcione si mise a gemere, a lacrimare,
agitò le braccia e, cercando di abbracciare quel corpo, abbracciò
l'aria ed esclamò: "Aspetta! Dove mai fuggi? Andremo insieme!".
Turbata dalla propria voce e dal fantasma del marito,
si riscosse dal sonno, guardandosi intorno se chi le era apparso
fosse ancora lì. Richiamati dalle grida, i servitori
erano accorsi con un lume. Lei non trovandolo in nessuno luogo,
si percosse il viso con le mani, dal petto si stracciò la veste
e se lo ferì. Senza nemmeno scioglierli, si strappò i capelli,
e alla nutrice che le chiedeva il perché di tutto quel dolore:
"Alcione non è più, no, non è più!" gridò. "È morta
col suo Ceìce. Risparmiate le parole di conforto!
È perito in un naufragio! L'ho visto, l'ho riconosciuto,
e, mentre si allontanava, gli ho teso la mano per trattenerlo.
Era un'ombra, ma un'ombra inconfondibile, quella di mio marito!
No, non aveva, se proprio vuoi saperlo, il suo solito
volto, e il suo incarnato non aveva più lo splendore di un tempo.
Pallido e nudo, così l'ho visto, ahimè, e coi capelli
ancora bagnati: strappando lacrime qui stava, qui,
proprio qui!", e si mise a cercare se ne fosse rimasta traccia.
"Questo, questo temevo, quasi lo sentisse il cuore,
per questo ti pregai di non lasciarmi, di non affidarti ai venti!
Ma poiché verso la morte partivi, come vorrei che con te
m'avessi portato! Un bene per me sarebbe stato se con te
fossi venuta! Non un solo istante della vita
avrei passato senza di te e non saremmo morti separati.
Ora lontano sono morta, lontano son travolta dai flutti
e senza esserci il mare m'inghiotte. Avrei davvero un cuore
più spietato del mare, se cercassi di protrarre ancora
la mia vita e lottassi per sopravvivere a così gran dolore!
Ma io non lotterò, non ti lascerò solo, sventurato,
e almeno ora ti accompagnerò. Se non un'urna, nel sepolcro
ci unirà almeno un epitaffio; se non toccherò con le mie ossa
le tue, toccherò almeno il nome tuo col mio!".
Altro non le permise il dolore; in ogni parola s'insinuava
il pianto e dal suo cuore sbigottito uscivano profondi i gemiti.
Era il mattino. Uscì di casa per recarsi alla spiaggia e riandò
mesta al luogo da dove aveva assistito alla sua partenza.
Mentre lì indugiava, dicendo: "Qui sciolse gli ormeggi,
qui, su questa spiaggia, mi baciò prima di partire",
144
e mentre, al richiamo dei luoghi, ricordava ogni singolo evento
e scrutava il mare, vide fluttuare in lontananza a filo d'acqua
qualcosa che sembrava un corpo. All'inizio non si capiva bene
che cosa fosse, ma quando l'onda l'ebbe sospinto più vicino e,
malgrado la distanza, apparve chiaro che si trattava di un corpo,
lei, pur non sapendo chi fosse, davanti al naufrago si commosse
e come se piangesse uno sconosciuto: "Ahimè, chiunque tu sia,
misero te e tua moglie, se ne hai una", disse. Spinto dai flutti
quel corpo si avvicinò ancora, e quanto più lo guardava
tanto più la sua mente si smarriva. E ormai così vicino
è alla riva che, osservandolo, lei può riconoscerlo:
era il marito. "È lui!" grida e a un tempo si lacera
viso chioma e veste, e tendendo le mani tremanti
verso Ceìce, mormora: "Così, carissimo marito mio,
così a me, sventurato, ritorni?". Sul mare si ergeva un molo:
costruito dall'uomo, frangeva i flutti in arrivo,
fiaccando in anticipo l'impeto dell'acqua.
Lei vi balzò sopra. Fu un prodigio che vi riuscisse; ma volava,
e battendo l'aria leggera con ali appena spuntate,
sfiorava, patetico uccello, la superficie del mare,
e volando, la sua bocca, ormai ridotta a un becco sottile,
stridendo emise un suono lamentoso che sembrava pianto.
Quando poi raggiunse il corpo muto ed esangue,
abbracciando quelle care membra con le sue nuove ali,
vanamente col duro becco le coprì di freddi baci.
Sentì Ceìce quei baci o fu solo per l'ondeggiare del mare
se parve che sollevasse il viso? La gente non sa dirlo.
Ma lui li sentì, e alla fine, per pietosa grazia degli dei,
si mutarono entrambi in uccelli. Il loro amore rimase,
legandoli al medesimo destino, e il patto nuziale fra loro,
ormai uccelli, non si sciolse. Si accoppiano, generano,
e per sette sereni giorni, nella stagione invernale,
Alcione cova in un nido a picco sull'acqua.
Allora si placa l'onda del mare: Eolo rinchiude i suoi venti
e non li lascia uscire, per offrire bonaccia ai nipoti.
Un vecchio, guardandoli volare insieme sulla distesa
del mare, loda quell'amore serbato sino alla fine.
Un suo vicino, o forse lui stesso, chissà, dice: "Anche questo,
che vedi staccarsi dall'acqua, spinto da due zampe
rattrappite" e indicava uno smergo dal lungo collo,
"è di stirpe regale. I suoi ascendenti, se vuoi
dalle sue origini scendere man mano sino a lui,
sono Ilo, Assàraco, Ganimede che fu rapito da Giove,
l'antico Laomedonte e Priamo che ebbe in sorte gli anni estremi
del regno di Troia. Fratello di Ettore, costui,
se non gli fosse capitato un fatto singolare in giovinezza,
forse sarebbe diventato non meno famoso di Ettore,
sebbene questo fosse nato dalla figlia di Dimante,
mentre si dice che Èsaco fu partorito di nascosto ai piedi
dell'ombroso Ida da Alessìroe, figlia del fiume Granico.
Odiando le città, viveva appartato, lontano dallo sfarzo
della reggia, sui monti, in campagne senza pretese,
e solo di rado veniva a Troia per qualche assemblea.
Ma certo non aveva un cuore rozzo e inaccessibile all'amore:
dopo averla spesso intravista nel folto dei boschi, un giorno
colse la figlia di Cebrene, Esperie, che sulla riva paterna
faceva asciugare al sole i capelli sciolti sulle spalle.
Appena se ne accorse, la ninfa fuggì, come fugge atterrita
una cerva il fulvo lupo o un'anatra di fiume il rapace
che lontano dallo stagno l'ha sorpresa. L'eroe troiano
l'insegue e l'incalza, un fulmine lui per amore, lei per paura.
145
Ma ecco che un serpente, nascosto tra l'erba, morde alla fuggitiva
un piede col dente adunco, lasciandole nel corpo il suo veleno.
Con la vita si spegne anche la fuga. Disperato, lui abbraccia
quel corpo esanime: "Oh, come mi pento d'averti inseguita!
Ma non prevedevo il rischio e non volevo vincere a questo prezzo.
In due ti abbiamo ucciso, sventurata: il serpente con la ferita,
io creando l'occasione", grida. "Ma il più colpevole sono io,
e per confortarti della tua morte, la mia morte ti offrirò!".
Disse e da una rupe corrosa ai piedi dallo scrosciare dei flutti,
si gettò in mare. Ne ebbe pietà Teti, che lo sostenne attenuando
la caduta e, mentre ancora galleggiava lo rivestì di piume;
così la morte tanto sospirata non gli fu concessa.
S'indignò l'innamorato d'esser costretto contro voglia a vivere,
che s'impedisse all'anima di uscire dalla sua misera sede
come bramava; e con le nuove ali spuntategli sulle spalle,
si alzò in volo, per lasciarsi cadere nuovamente in acqua.
Le penne attutiscono la caduta. Infuriato Èsaco si tuffa
a capofitto in profondità, cercando e cercando di morire.
L'amore l'ha smagrito: sottili fra le giunture
sono le sue zampe, sottile il collo, e distante dal corpo è il capo.
Ama l'acqua, e il suo nome, smergo, è tale perché vi si immerge".