di Gily Reda |
Lo fa un blog, elsewhere perhaps. È un breve percorso in immagini, che con pochi tratti dice tutto, anche il perché riesce così bene al compito. Lo scrive un familiare di Auschwitz, quindi cerca espressioni chiare e poetiche, odia di dire troppe parole. Parlano meglio gli affetti del logos in cui si annidano troppi sensi nascosti e poco empatici.
Somewhere già era la parola di Over the Rainbow, è l’altrove in cui spera di poter erigere una casa o una nuova ricchezza, grazie alla pentola degli gnomi. Una metafora del pellegrinaggio guidato dalla luce, presente in tanti miti e fiabe antiche.
Utopia, termine di Tommaso Moro, poi ha vinto sulla denominazione di Città del Sole, dato da Campanella: non solo per primazia temporale, ma anche per il senso lugubre, di illusione per quanto felice, che spetta a tali sogni di uomini vinti nella sorte da prepotenti e celeri corsari, dotati in più della dote del sanguinario.
L’Europa ha edificato una dopo l’altra tutte le sue utopie, Roma, l’Impero, la Giurisdizione Romana e via dicendo: si chiama civilizzazione. Avere buone idee, pian piano incorporarle all’esistente, realizzando in tempi lunghi processi reali. Oggi nel tempo di un nuovo barbarism, come disse Collingwood del nazismo, è tempo di ricordare l’aspetto vero dell’utopia: che è tutto nel titolo di questo blog: ELSEWHERE PERHAPS – else infatti aggiunge che è un metaluogo, non un non luogo, ma può essere forse, cioè se ci sono i combattenti, nazionali ed internazionali, pronti a sostenerlo. Uno di certo c’è già, quel Jeremy Rifkin che anni fa ci stupì parlando del Sogno Europeo, mentre finivamo col vedere l’Europa Mito Politico nella stretta dei carboni e dell’acciaio, dell’euro, delle manie di grandezza di questo e quello. L’avevamo scordato il sogno dei padri, essere finalmente senza turbe di profughi e cannoni di guerra. Ne abbiamo profittato per rimettere tutto a rischio: è tempo di ripensare l’utopia, partendo dal nome.
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