di Vincenzo Curion
Non necessariamente un film deve raccontare in maniera strabiliante una storia, ma quel che conta molto spesso è la storia che racconta. “Una giusta causa”, il titolo italiano del film “On the basis of Sex”, si ispira alla storia vera di Ruth Bader Ginsburg, prima avvocato, poi magistrato, infine giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti. Seconda donna, in ordine di tempo, ad aver servito il massimo organo giuridico americano. Paladina della parità di genere e dei diritti delle donne, nella sua storia si riverbera la lunga e tortuosa progressione della parità di genere negli Stati Uniti d’America. Progressione che non è ancora terminata nella sperata e agognata uguaglianza, dal momento che ancora oggi vi sono fortissime discriminazioni di genere, non soltanto negli Stati Uniti, ma in tutto il progredito emisfero nord occidentale.
Il film inizia nel 1956, ad Harward, dove nove donne si iscrissero per studiare legge. Fino a sette anni prima, la facoltà di legge neppure contemplava che una donna potesse comparire tra gli iscritti. Nove su cinquecento matricole. Tra quelle, una giovane signora da poco madre che condivideva l’appartamento col proprio marito anch’egli studente del secondo anno presso il prestigiosissimo Ateneo. Ambiente formale, selettivo, fortemente competitivo. Un tempio dello studio del diritto, ma anche il posto dove si costruiscono élite. Maschili. Nel discorso d’inizio anno, pronunciato dal decano Erwin Griswold, si parla del privilegio di essere un “uomo di Harvard”, il “professionista intelligente, tenace, determinato. Guida devota e baluardo della legalità fedele al proprio paese e rispettoso della tradizione e delle istituzioni”.
Erwin Nathaniel Griswold è stata una delle figure dominanti nell’educazione legale americana, capace non soltanto di far crescere e prosperare l’Università di Harvard, raddoppiando le dimensioni della facoltà, ampliando il curriculum scolastico includendo argomenti specialistici come i rapporti di lavoro, il diritto di famiglia e la legge sul copyright, ma anche di aprire le porte della facoltà di Legge alle donne. Subito dopo la propria nomina a decano, egli contribuì, nel 1946, alla nomina a Visiting Professor di Soia Mentschikoff, la prima donna docente nella storia della Harvard Law School. Iniziò poi il processo per convincere la Harvard Corporation a consentire l’iscrizione delle prime studentesse nel 1948 e la supervisionò a partire dall’autunno del 1950. Sotto la guida di Griswold, che poi servirà come Solicitor General of the United States (1967–1973) sotto i Presidenti Lyndon B. Johnson and Richard M. Nixon, la Law School fu la terza scuola di specializzazione ad Harvard ad ammettere le donne dopo la Graduate School of Education e la Medical School. Questa apertura alle donne rappresenta una misura di estrema capacità prospettica in quanto, solo nel 1977, ventisette anni dopo, l’Harvard College accettò pienamente le donne come laureandi. In un’intervista del 1992, ricordò che all’epoca più di un terzo della facoltà era contraria all’ammissione delle donne.
Per una donna, scoprirà la protagonista, quel tempio offre molte porte in faccia e rarissimi barlumi di riconoscimento. – “Perché occupate un posto qui togliendolo ad un uomo?” -, chiede caustico e meravigliato Griswold. Per la mentalità dell’epoca i ruoli ammissibili potevano essere quelli di “moglie, madre, maestra o infermiera”.
La domanda è evidentemente durissima, ma sapervi rispondere significa anche sondare la purezza e la solidità della propria motivazione. Ruth Bader –Ginsburg è il cognome del marito- è fermamente decisa a non mollare, ed è disposta a sacrificarsi per ottenere l’ambito titolo di dottore in legge. Anche quando la malattia colpisce pesantemente Martin David Ginsburg – “cancro testicolare, solo il 5% di probabilità di sopravvivenza”, si affretta a dire il medico che visita l’uomo- non cede alla disperazione e prosegue nel suo intento di diventare avvocato, dividendosi tra le lezioni e gli impegni familiari. La fermezza delle decisioni è qualcosa che ha dovuto maturare fin dai tempi dell’high school. Secondogenita di Nathan e Celia Bader, Joan Ruth Bader non ha che 14 mesi quando sua sorella maggiore Marilyn, che ha sei anni, muore per meningite. La famiglia, di osservante religione ebraica, subisce un duro colpo, ma si fa forza e va avanti. Ruth aiuta le insegnanti ed eccelle negli studi ed è molto attiva tra gli studenti. Questo le permette di guadagnarsi premi, riconoscimenti e borse di studio. Sua madre le ha instillato un profondo amore per i libri. La donna, che il magistrato Ruth Bader Ginsburg ricorderà in un accorato discorso d’insediamento alla Corte Suprema, si ammala di cancro all’inizio dell’high school e non vedrà mai diplomata la figlia, perché morirà il giorno prima della consegna dei diplomi. Proprio il legame materno, le lunghe ore di dialogo e di confronto serrato con la donna che accudisce, le daranno il mordente necessario per intraprendere gli studi di diritto e per credere di potercela fare malgrado le avversità.
Nonostante il carico di lavoro dei corsi, la forza d’animo non le viene meno ed ella si laurea tra le prime del suo anno, vincendo la ritrosia anche del Preside che non accetta di permetterle di ultimare i suoi studi alla Columbia University, dove la studentessa chiede di trasferirsi per essere più vicina al marito, Martin David Ginsburg che nel frattempo, è guarito ed ha già intrapreso la carriera di avvocato amministrativista. Sarà proprio la Columbia ad essere sua Alma mater. Negli anni duemila Ruth Bader Ginsburg rifiuterà la laurea ad honorem di Harward, giustificandosi dicendo:” Non si può cambiare la storia”.
Terminato il percorso universitario, bussa alle porte di diversi studi legali, per intraprendere la carriera sognata. Purtroppo per lei, sono anni in cui gli studi, anche quelli più affermati, storcono il naso alla presenza di una giovane professionista, per quanto brillantissima, tra le loro fila. Più tardi, commentando quegli anni scriverà:” Gli studi legali tradizionali stavano appena iniziando ad accettare l’assunzione di ebrei. Ma essere una donna, ebrea e una madre, questa combinazione era un po’ troppo.”
Apertamente, il capo di uno degli uffici legali con cui ella fa il colloquio, le risponde che “le mogli a casa non vedrebbero di buon occhio la sua presenza qui da noi”. È l’ennesimo rifiuto e la donna, per quanto determinata e arrabbiata, sceglie di accantonare momentaneamente il suo desiderio e di ripiegare sull’insegnamento del diritto. È il 1963 ed ella inizia a insegnare alla Rutgers University Law School, – nel film sostituisce il professore di colore Clyde Ferguson, “perché non vi sono altri professori di colore” -.
Passano gli anni e si arriva al 1970. Sono gli anni del Vietnam e la contestazione giovanile monta ogni giorno di più, man mano che il dispiegamento militare si sta rivelando una sciagura che sia abbatte sulle vite di tanti giovani mandati a combattere negli acquitrini del sud est asiatico. Ruth Bader Ginsburg, nelle sue lezioni tratta di Discriminazione sessuale e legge. I colleghi la snobbano ed anche gli studenti sembrano, inizialmente, non prestare molto ascolto alle parole della docente. “Esiste veramente una discriminazione di genere per la legge? Non si è fatto sempre così? Non è sempre accaduto che le donne fossero a casa e gli uomini fossero a lavoro. Adesso che anche le donne lavorano qual è la discriminazione?”, chiedono gli allievi. “È vero, lavoriamo. Tuttavia esistono almeno centosettantotto leggi discriminanti sulla base del sesso! Leggi che dicono che le donne non possono fare straordinari, che la carta di credito deve essere a nome di nostro marito, che in caso di morte, la previdenza sociale di un marito può andare ai suoi congiunti, la moglie non può fare altrettanto per la propria. La legge, di fatto, legalizza la discriminazione di genere.”, risponde la Professoressa Bader Ginsburg nelle sue lezioni. Questa condizione di palese differenza tra i generi, trova fondamento su tutta una serie di norme che, in quegli anni, rappresentavano il massimo dell’autonomia per le donne. Tali norme di fatto impedivano che queste potessero essere in posizione paritaria nei confronti dei loro mariti, fratelli, amici. Perfino dal punto di vista ereditario, quando c’era da amministrare il patrimonio di un figlio, tra i due genitori veniva preferito il padre piuttosto che la madre. Sparute leggi che diano respiro alle donne, permettendo loro di fare qualche lavoro fuori casa, -tipicamente lavori più umili e meno pagati-, finiscono per essere viste come discriminanti per gli uomini e ciò non fa che acuire il disagio sociale.
Anche se il film è incentrato sulla questione di genere, non va dimenticato che la vicenda si svolge a cavallo tra gli anni in cui sono ancora in vigore le leggi segregazioniste Jim Crow, e i primi anni della loro definitiva abrogazione. A Cassius Clay, nel 1967, viene tolto il titolo di campione del mondo di pesi massimi perché rifiuta di combattere nella Guerra del Vietnam a causa della sua religione e per motivi politico-razziali. Ad un giornalista dichiara: “Non ho problemi con i Vietcong. Non mi hanno mai chiamato negro” e per questo viene arrestato e accusato di renitenza alla leva, dopo che era stato giudicato inabile perché dislessico e, successivamente ai primi match vinti, valutato idoneo. Cassius Clay, nel frattempo diventato Muhammad Alì, non combatterà per i successivi quattro anni finché un suo appello non arriva sino alla Corte suprema degli Stati Uniti d’America, che annulla la sua condanna nel 1971.
Ma c’è chi sta ancora peggio. Il campione di boxe Rubin Carter, soprannominato Hurricane, per la furia dei suoi colpi sul ring, viene accusato di un triplice omicidio, avvenuto il 17 giugno 1966 a Paterson, nel New Jersey. Sottoposto a processo, viene condannato a tre ergastoli e verrà scarcerato solo nel 1985, quando l’accusa rinuncerà a muovere in giudizio una terza volta contro l’illegittimità processuale sollevata dalla Corte Federale sulla base di un possibile pregiudizio razziale subito da Rubin durante l’incriminazione.
Poi c’è questa questione, “infondata”, si affrettano a dire gli avvocati che difendono la Commissioner of Internal Revenue, della parità di genere.
La causa giudiziaria nasce da un contenzioso del 1972, tra Charles E. Moritz e l’ufficio di riscossione tasse americano. Moritz vive solo, impegnato ad accudire l’anziana e invalida madre. Poiché per lavoro è spesso via, trova una badante che gli permetta di essere lontano da casa per lavoro. Al momento della dichiarazione dei redditi, pensa di chiedere in detrazione gli stipendi versati per la badante, in forza della sezione 214, del codice tributario. Ma l’agenzia di riscossione delle tasse lo incrimina per evasione fiscale. Quella legge che tutela gli sgravi fiscali per le badanti, è pensata per le donne, nubili o vedove, e le figure femminili che “solitamente sono impegnate nell’accudire i genitori infermi, o i bambini affetti da qualche patologia. Dovendo provvedere al proprio sostentamento, possono ricorrere all’aiuto di badanti che restino presso i congiunti infermi mentre loro sono via per lavoro.
Perché mai lui, che è scapolo –serpeggia tra gli avvocati che difendono l’agenzia una velata accusa di omosessualità- dovrebbe avere diritto agli sgravi fiscali per la badante che ha assunto per sostituirlo mentre è via, lontano per lavoro? Ruth Bader Ginsburg non sente ragioni. Al signor Moritz sarebbe stata concessa la detrazione se fosse stato una donna. In un caso del genere non vi è alcuna base razionale per la differenza di trattamento tra uomini e donne, ma si tratta di una discriminazione basata sul genere. Gli sgravi non attribuiti a Moritz rappresentano un diniego incostituzionale. “Moritz potrebbe rovesciare l’intero sistema di discriminazione”, esclama il personaggio di Ginsburg in “Una giusta causa”.
In realtà, un altro caso stabilì un precedente prima del 10° Distretto che discusse la causa Moritz. Il caso Reed v. Reed, una decisione del 1971 quando la Corte Suprema, per la prima volta, colpì una legge sulla base della discriminazione di genere, trovando che violava il 14° Emendamento. Stando alle fonti, nella primavera del 1971, Ginsburg inviò il suo compendio Moritz, appena completato, che spiegava l’argomento costituzionale contro la discriminazione basata sul genere, ad altri avvocati, incluso il consigliere generale dell’ACLU, Norman Dorsen. Dorsen rispose che, secondo lui, era “una delle migliori presentazioni che aveva visto da molto tempo”, ed inviò le sue alte lodi a Wulf. Come racconta il libro di Fred Strebeigh, “Equal: Women Reshape American Law”, Ginsburg spedì una copia di quello stesso discorso a Wulf suggerendo che sarebbe potuto essere utile in Reed v. Reed, un caso iniziato l’anno precedente e di imminente dibattimento, che ruotava attorno a una donna che non era autorizzata a eseguire le volontà testamentarie circa il patrimonio del figlio morto a causa del suo genere. “Ha pensato se sarebbe stato opportuno avere una donna, come consulente, in questo caso ???”, scrisse concludendo la lettera.
L’avvocato originale di Sally Reed argomentò il caso in tribunale, ma Ginsburg scrisse un lungo compendio di scienze sociali e, in omaggio ai suoi predecessori legali, elencò due influenti avvocati femministi, Dorothy Kenyon e Pauli Murray, come coautori.
Unanimemente oggi si riconosce che Ginsburg contribuì a conquistare la vittoria storica, non discutendo il caso davanti alla Corte, ma sviluppando gli argomenti che aveva sviluppato alcuni mesi prima per Moritz – nelle sue parole, il “gemello fraterno” di Reed.
Nelle sequenze del film, Ginsburg coinvolge Melvin Wulf dell’ACLU, la American Civil Liberties Union, attiva nel difendere i diritti civili e le libertà individuali negli Stati Uniti. Dapprincipio anche loro sono scettici. La Professoressa Ginsburg non sta chiedendo poco. Se si riuscisse a provare che esiste una discriminazione di genere per legge bisognerebbe rivedere da capo, “abbattere” l’intera sezione 214, eliminando così la deduzione di assistenza dipendente per tutti, cosa assolutamente impensabile. Ma la docente, da profonda conoscitrice del diritto, chiarisce che, il suo intento non è quello di stravolgere e rivoluzionare l’intera amministrazione, eliminando gli sgravi per le contribuenti, ma di operare perché quelle misure vengano estese anche agli uomini non sposati, riconoscendo di fatto che “l’evoluzione della società ha anticipato quella del Diritto”. Messa così anche la ACLU intravede qualche spiraglio.
A dare la spallata finale, nel film, è l’avvocato Dorothy Kenyon che siede nel consiglio d’amministrazione della ACLU e che, anni addietro, aveva perso una causa proprio per tutelare i diritti di una donna a essere giudicata da una giuria di sue pari. La Ginsburg ha fatto di tutto per contattarla, ma ella si è sempre rifiutata. Finché non si decide, figlia al seguito, d’andare a scovarla.
La figlia Jane, studentessa attiva per i diritti delle donne, già salta le lezioni a scuola per partecipare alle manifestazioni con la scrittrice e attivista Gloria Steinem. “Se vuoi scrivere di un avvocato donna, devi conoscere un avvocato donna”. Non senza qualche difficoltà l’incontro avviene ed anche se la Kenyon si mostra piuttosto burbera e spigolosa, nei confronti della Professoressa Ginsburg. “Resti a fare la Professoressa” esclama e se ne va. Ma in un secondo momento ci ripensa ed è lei stessa a fare pressioni su Wulf, perché la ACLU prenda parte al processo. Convinto Moritz, sostenuta dal marito e da un dubbioso entusiasta Wulf, la Ginsburg incontra i rappresentanti della controparte. Tra di loro anche il decano Erwin Griswold, che lasciati gli impegni accademici ora è vice procuratore generale.
Ginsburg, secondo loro, sta mondando un caso di discriminazione di genere che non esiste. Per farlo, l’avvocato Bozart propone di “elencare le leggi, tutte quelle trattino di uomini e donne diversamente. Mostriamo quale vaso di Pandora rischia di aprire una sentenza a favore di Moritz”, esclama l’ambizioso professionista. “Come pensi di leggere tutto il codice, sono oltre ventimila pagine” esclama Griswold, “Non lo farò io, mi presenti il Segretario alla Difesa”, risponde Bozart.
Così, mentre Ruth Bader Ginsburg inizia a studiare la propria linea processuale, dalla parte avversa arriva un ponderoso volume con tutti gli articoli in cui si parla dei diritti degli uomini e delle donne, estrapolati dai computer. Contro tale potenza di fuoco che fare? Da questo lato non ci sono computer, ma valide studentesse che, compresa la portata della causa, si riuniscono con la professoressa per esaminare legge su legge. È tutta la famiglia di Ruth che accoglie gli studenti, col marito che crede fiduciosamente nella causa della moglie, sostenendola anche quando ella non crede d’essere all’altezza del dibattimento, dal momento che, per lunghi anni non ha esercitato perché non gliene è stata data possibilità.
Durante la preparazione del dibattimento, a cui prendono parte gli amici dell’ACLU e vecchi professori, si decide che non sarà solo Ruth a perorare l’istanza ma che sarà il marito, in quanto esperto di diritto amministrativo, a iniziare il dibattimento. Solo successivamente, quando si dovrà entrare nel merito della discriminazione di genere interverrà la moglie.
Si va dunque in aula. La corte, composta da tre soli giudici uomini, ascolta gli interventi, svogliata. I giudici Daugherty e Holloway potrebbero avere posizioni più conservative e dunque favorevoli all’agenzia delle entrate. Doyle, il terzo giudice, ha invece posizioni più aperte, volte a tutelare i diritti civili. Ha ordinato l’anno precedente che un autobus per bianchi accogliesse dei neri. Come si comprende dal confronto tra Bozart, Brown e Griswold, Doyle non teme pressioni o intimidazioni ed è l’elemento che sia Brown, sia Bozart, sia Griswold temono.
“Bisogna avere un giudizio unanime. Prospettiamo loro l’America che esisterebbe se accogliessero l’istanza di Moritz. Mostriamo loro i bambini che tornano a casa senza trovare nessuno perché le loro madri sono a lavoro nelle fabbriche, spieghiamo loro che certamente le donne possono essere pagate di meno, mentre cosa sarebbe un uomo senza busta paga?”.
“I salari diminuirebbero, i divorzi aumenterebbero”, aggiunge Bozart. “Le fondamenta della nostra società comincerebbero a sgretolarsi. C’è in gioco il futuro delle nostre famiglie”. Il dibattimento, con le relative memorie ed appello, sono un’affascinante riflessione sugli stereotipi di genere. Proteggere la cultura e le idee della cultura attuale o sostenere e tutelare il diritto del Paese a continuare a cambiare? Nella sua arringa difensiva Ruth Ginsuburg riesamina la lunga serie di precedenti che hanno portato il legislatore a scrivere la sezione 214, presupponendo che il ruolo di caregiver fosse solo appannaggio del genere femminile. Moritz, Il suo cliente pro bono, specifica in un’altra sequenza, sconfessa quella visione, essendo lui stesso prova vivente che anche un uomo può accudire un genitore anziano o infermo.
Accorata, ma determinata e precisa, la Professoressa Ginsburg interviene nel far rilevare che il Paese continua a cambiare e che i giudici della corte hanno la possibilità di interpretare la legge, applicandola estensivamente se più coerente alla ratio legis piuttosto che ad altra interpretazione.
La tutela che la sezione 214 introduce non è per le donne ma per la figura del caregiver. È giusto dunque che anche Moritz e tanti altri uomini che operano come caregiver ne possano beneficiare, non perché impegnati a sovvertire “l’ordine tradizionale e naturale” –come lo chiama l’avvocato Bozart- ma perché è la realtà dei fatti che Moritz ed altri possono trovarsi nella necessità di ricoprire ruoli che il legislatore aveva ipotizzato come esclusivi delle donne.
Il film è stato accolto tiepidamente e non è certamente destinato a diventare un blockbuster, ma ripropone un tema su cui riflettere. Possono le donne essere, con la loro richiesta di emancipazione, una forza rigeneratrice del diritto? A seguire la storia narrata dal regista sì, e a beneficiarne sarebbero non solo le donne ma tutti i cittadini. Al contempo, anche se in forma romanzata, mostra al pubblico d’oltreoceano, la figura di Ruth Ginsburg, una vera icona americana della parità di genere, cofondatrice del progetto ACLU Diritti per le Donne. Scatta una foto di un’epoca, molto prossima all’attuale, riconoscendo le problematiche che affliggono il ruolo sociale delle donne. Affascinanti, consolatrici –il fotogramma dei cartelloni pubblicitari durante il giro di Ruth e Jane alla ricerca di Dorothy Kenyon, chiariscono quale sia la visione stereotipata dell’epoca-, “esentate dalle fatiche maschili”, – “non vorrà mica che una donna serva al fronte o spenga un incendio come un uomo che fa il vigile del fuoco?”-, di fatto confinate in posizioni subalterne, per mezzo di pregiudizi che ancora oggi persistono e che devono essere combattuti per una maggiore democrazia ed equità sociale. Allo stesso tempo, le posizioni espresse da Bozart in merito alla “tenuta della società”, pur essendo state espresse, nella finzione filmica, negli anni settanta del secolo scorso, ancora oggi riecheggiano nel linguaggio e nelle idee di una parte della popolazione, che ripropone così modelli discriminatori che depauperano tutta la società delle grandi energie di una fetta della popolazione.
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https://it.wikipedia.org/wiki/Gloria_Steinem
http://www.gloriasteinem.com/
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https://law.justia.com/cases/federal/appellate-courts/F2/469/466/79852/
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https://www.law.cornell.edu/supremecourt/text/398/333
https://www.mtsu.edu/first-amendment/article/241/welsh-v-united-states
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