di Vincenzo Curion
Il diritto di contare (Hidden Figures) è un film statunitense del 2016 diretto da Theodore Melfi. Basato sul libro di Margot Lee Shetterly, “Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race”, che copre un periodo di circa trent’anni, la pellicola è quasi interamente ambientato tra il 1961 e il 1962. Racconta la storia vera di Katherine Johnson, Dorothy Vaughan e Mary Jackson, tre delle menti più geniali dei loro tempi, che lavorarono alla NASA come calcolatrici e parteciparono ai programmi Freedom 7, Mercury e alla missione Apollo 11, la missione spaziale che per prima portò gli astronauti statunitensi Neil Armstrong e Buzz Aldrin sulla luna, il 20 luglio 1969.
Uscito in Italia l’otto marzo 2017, in occasione della Giornata Internazionale della Donna, la storia è ambientata nella Virginia segregazionista degli anni Sessanta, dove la legge non permette ai neri di vivere insieme ai bianchi. Uffici, toilette, mense, sale d’attesa, bus sono rigorosamente separati. Da una parte ci sono i bianchi, dall’altra i neri.
La NASA, che all’epoca si chiamava National Advisory Committee for Aeronautics (NACA), ente federale americano nato per promuovere la ricerca aeronautica, al Langley Research Center di Hampton, non fa eccezione. I neri hanno i loro bagni, relegati in un’aerea dell’edificio lontano da tutto, bevono il loro caffè, sono considerati una forza lavoro flessibile di cui disporre a piacimento e sono disprezzati più o meno sottilmente. Reclutate dalla prestigiosa istituzione, la matematica afroamericana Katherine Johnson (Taraji P. Henson), Dorothy Vaughan (Octavia Spencer), supervisore non ufficiale e Mary Jackson (Janelle Monáe) sono la brillante variabile che permette alla NASA di inviare un uomo in orbita e poi sulla Luna. Una matematica, un supervisore (senza esserlo ufficialmente) di un team di ‘calcolatrici’ afroamericane – si occupavano di calcolare a mano le traiettorie e le orbite dei lanci- e un’aspirante ingegnere, si battono contro le discriminazioni (sono donne e sono nere), imponendosi poco a poco sull’arroganza di colleghi e superiori.
Doppia lotta, quella delle tre protagoniste di Hidden Figures – Il diritto di contare, perché negli USA anni ’60 essere donne era già uno svantaggio, esserlo nere era un vero e proprio limite. Confinate nell’ala ovest dell’edificio, finiscono per abbattere le barriere razziali con grazia e competenza, perché come ricorda la locandina del film, “Il genio non ha razza. La forza non ha sesso. Il Coraggio non ha limiti.”
La trama di questa “piccola Storia” si incunea nelle vicende dei libri di Storia. Il lungometraggio inizia proprio con la crisi della NASA dopo il successo del programma sovietico Sputnik nel 1957. Tra la fine degli anni 1950 e l’inizio degli anni 1960, gli Stati Uniti d’America erano impegnati con l’Unione Sovietica, nella cosiddetta “guerra fredda”, la rivalità geopolitica iniziata all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale.
Il 4 ottobre 1957, l’URSS lanciò in orbita il primo satellite artificiale, lo Sputnik 1 –in russo Sputnik significa proprio “satellite” o “compagno viaggiatore” -. Lo Sputnik era davvero semplice. L’involucro esterno era fatto da due semisfere di acciaio, che, saldate insieme, formavano una “palla” del diametro di 58 centimetri, dalla quale uscivano quattro antenne radio lunghe da 201 a 238 centimetri. Il vano strumenti conteneva essenzialmente la batteria per alimentare la potente radio e sensori per la pressione e la temperatura. A pieno carico, il satellite pesava poco più di 83 kg. Lo scopo principale dello Sputnik 1 era battere gli americani nella corsa allo spazio, perciò la maggiore attenzione fu posta al sistema di comunicazione. Il satellite emetteva due segnali che potevano essere “ascoltati” anche da lunghissime distanze e con strumenti da radioamatore. Un tono continuo a 40 MHz e un “bip” ripetuto a 20 MHz.
Tale l’evocatività dell’operazione che l’effetto acustico dei segnali emessi è tuttora conservato in una registrazione audio della NASA. Quel “bip” ripetuto, sul quale ogni radioamatore sufficientemente esperto poteva sintonizzarsi, decretò l’effettivo inizio dell’era spaziale. Lo Sputnik continuò a trasmettere i suoi “bip” per 21 giorni prima che le batterie si esaurissero. Poi, a poco a poco, l’attrito fece perdere quota al satellite, che precipitò nell’atmosfera, disintegrandosi quasi completamente, il 4 gennaio 1958. Rimasto in orbita per 92 giorni, compiendo 1440 orbite, per un totale di circa 60 milioni di km, il satellite, oltre all’enorme impatto politico, permise di ottenere informazioni sulla temperatura, la composizione e la densità dell’atmosfera nella regione della ionosfera estesa tra 200 e 320 km.
Questo sorprendente successo scatenò paure e immaginazioni in tutto il mondo. Servì infatti a dimostrare che l’Unione Sovietica possedeva la capacità di colpire con armi nucleari su distanze intercontinentali. Il razzo vettore, che portò lo Sputnik 1 in orbita, era un missile balistico intercontinentale, il primo nel suo genere, modificato per l’occasione perché solitamente adibito al trasporto di una testata termonucleare della potenza nominale di 3 megatoni. Lungo 34 metri, aveva un diametro di 3,02 metri e pesava 280 tonnellate. Alimentato a idrogeno liquido e cherosene, aveva due stadi ed era in grado di trasportare il suo carico fino a 8.800 km di distanza, con un errore di puntamento di circa 5 km. Lo R-7 Semyorka — questo il suo nome- era la palese dimostrazione che il blocco comunista poteva sfidare le aspettative statunitense riguardo alla superiorità militare, economica e tecnologica.
Questa operazione fece scaturire la crisi dello Sputnik e innescò la “corsa allo spazio”.
Il presidente Dwight Eisenhower reagì a queste notizie creando la National Aeronautics and Space Administration (NASA) e dando impulso all’inizio del Programma Mercury, che aveva come obiettivo di portare un uomo nell’orbita terrestre. Il 12 aprile 1961 gli statunitensi però vennero nuovamente anticipati quando il cosmonauta sovietico Yuri Gagarin divenne la prima persona nello spazio e il primo ad orbitare intorno alla Terra. L’orgoglio americano sembrò vacillare paurosamente. Tuttavia quasi un mese dopo, il 5 maggio 1961, Alan Shepard divenne il primo americano a completare un volo suborbitale di 15 minuti. Dopo essere stato recuperato nell’Oceano Atlantico, Shepard ricevette una telefonata di congratulazioni dal successore di Eisenhower, John F. Kennedy.
Il 35esimo Presidente degli Stati Uniti d’America, il più giovane presidente della Storia degli USA e il primo di religione cattolica, era preoccupato di ciò che i cittadini di altre nazioni pensassero degli Stati Uniti e credeva che non fosse solo d’interesse nazionale, ma anche di tutto l’Occidente che l’America dimostrasse la propria superiore capacità nel campo dell’esplorazione spaziale.
Dopo essersi consultato con i suoi esperti e consulenti, Kennedy, Il 25 maggio 1961, si rivolse al Congresso degli Stati Uniti su “Urgenti necessità nazionali” e dichiarò: «Credo che questa nazione si debba impegnare a raggiungere l’obiettivo, prima della fine del decennio, di far atterrare un uomo sulla Luna e di farlo tornare sano e salvo sulla Terra. Nessun progetto spaziale di questo periodo sarà più impressionante per il genere umano, o più importante per l’esplorazione spaziale; e nessuno sarà così difficile e dispendioso da compiere. Proponiamo di accelerare lo sviluppo del veicolo lunare appropriato. Proponiamo di sviluppare alternativamente dei booster con carburante solido e liquido, molto più grandi di quelli attualmente in sviluppo, finché non sarà certo quale sarà il migliore. Proponiamo fondi aggiuntivi per lo sviluppo di altri motori e per esplorazioni senza equipaggio che sono particolarmente importanti per uno scopo che questa nazione non trascurerà mai: la sopravvivenza dell’uomo che per primo farà questo audace volo. Ma in un senso, non sarà solo un uomo ad andare sulla Luna-se esprimiamo questo giudizio affermativamente, sarà un’intera nazione.
Perché ciascuno di noi dovrà lavorare per portarlo là.» La sentita e vibrante dichiarazione accelerò la corsa americana allo spazio e permetterà nel 1962, il lancio in orbita dell’astronauta John Glenn. Il primo americano a viaggiare in orbita attorno alla Terra, rimanendo 4 ore e 55 minuti nello spazio.
In precedenza, come racconta il film, sotto l’influsso della presidenza democratica di Kennedy, al Langley Research Center, tutti si danno da fare affannosamente per reagire alla schiacciante superiorità russa. L’allora capo del gruppo di scienziati Al Harrison, forte di nuovi fondi governativi e delle esortazioni presidenziali, decide di lanciare il programma Mercury per la spedizione di un astronauta americano nello spazio.
La necessità di un matematico che possa calcolare le orbite di lancio è forte e Vivian Mitchell, il supervisore bianco di Katherine, decide di trasferire la donna dalla West Area Computing Unit, l’unità aperta alle sole donne di colore, sezione distaccata del Langley Research Center di Hampton allo Space Task Group, il settore dei bianchi, per assistere la squadra di Al Harrison con le sue capacità nell’ambito matematico e di geometria analitica.
In pieno regime segregazionista, -le Leggi Jim Crow saranno definitivamente abrogate solo col Civil Rights Act del 1964 e col successivo Voting Rights Act del 1965-, Katherine Johnson, classe 1918 e laureata in Matematica a soli 18 anni, è la prima donna di colore che lavora nel gruppo e nell’edificio interno, che non possiede alcun servizio riservato ai neri, come imponevano le severe norme dell’epoca.
Nessuno, perché le donne in servizio presso la West Area Computing Unit lavorano come colored computers, ovvero “calcolatori umani di colore”, e si trovano al livello più basso della gerarchia del Langley Center. Il loro compito è di verificare e validare — a mano o con l’ausilio di semplici calcolatrici — i complessi calcoli elaborati nelle altre strutture del centro di ricerca. Così, nel 1953, la brillante matematica Katherine Johnson inizia a lavorare come colored computer.
Entrata, suo malgrado nel gruppo dell’edificio interno, la donna viene trattata con sufficienza e diffidenza dal personale bianco maschile. Katherine svolge il proprio compito meglio che può, ma il suo lavoro è limitato dalla mancanza di comunicazione con i nuovi colleghi, in particolar modo l’ingegnere capo Paul Stafford, che la tratta con diffidenza, fornendole dati e documenti incompleti, dove pagine e pagine sono pesantemente ricoperte d’inchiostro per impedirle di leggerne i contenuti. Anche i gesti che potrebbero essere più comuni come la pausa caffè sono pesantemente inficiati dalle leggi razziali. I colleghi arrivano a negare alla collega di colore la pausa caffè perché non vi è disponibile la caffettiera per sole persone di colore.
Al di fuori dell’ambito lavorativo non è che vada meglio per lei. Vedova e madre di tre figlie, la donna è costretta a scontrarsi con i forti pregiudizi maschili.
L’ufficiale della Guardia Nazionale Jim Johnson, incontrato per caso durante un barbecue rigorosamente per afroamericani, nelle sequenze iniziali del film si esprime in maniera scorretta mettendo in dubbio le capacità matematiche delle donne. In seguito riesce a farsi perdonare e ad instaurare con lei un rapporto di profondo affetto, proponendo a Katherine, che vive ancora con sua madre, di sposarlo. Dopo una comprensibile ritrosia, la donna accetta.
Frattanto il lavoro allo Space Task Group procede con Katherine che riesce a guadagnarsi il rispetto dei colleghi risolvendo equazioni matematiche complesse ed impressionando Harrison, che però è ancora ignaro delle condizioni di segregazione in cui versa la donna.
Quando Katherine, gocciolante perché di ritorno dall’ennesima corsa sotto un tempo da lupi, con una bellissima, perfetta battuta – al limite del monologo- sfoga tutto il fastidio che prova nel dover correre fuori dall’edificio per utilizzare l’unico bagno del centro per i neri, sito ad oltre un chilometro di distanza, Harrison ,interpretato da Kevin Costner, in una scioccante quanto drammatica sequenza, s’impone d’imperio abbattendo con un martello la segnaletica che divide i bagni per i bianchi da quelli per i neri, per garantire alla propria collaboratrice il diritto a non dover attraversare tutto il campus e abolendo di fatto la segregazione nel suo centro. Nonostante le obiezioni di Paul, Harrison permette a Katherine di seguire le loro riunioni riservate, e lei si dimostrerà preziosa per la missione, creando un’elaborata equazione per il rientro della capsula spaziale di Glenn, che dovrebbe compiere sette orbite complete intorno alla Terra.
Parallelamente alla storia della Johnson, nel film sono trattate le vicende di Mary Jackson e Dorothy Vaughan. Vivian rifiuta di promuovere Dorothy come supervisore del settore calcolatrici, anche se lei è costretta a lavorare al posto del supervisore mancante con paga ridotta.
Mary, laureata in scienze matematiche e fisiche, avrebbe tutte le qualità per ricoprire un posto da ingegnere alla NASA, ma questo le viene negato, per una nuova clausola nel regolamento che impedisce alle persone che non hanno seguito dei corsi speciali all’Università della Virginia o al Liceo Hampton, entrambe per soli bianchi, di poter avanzare la propria candidatura. “Se tu fossi un uomo bianco, vorresti diventare un ingegnere?” le chiede il suo capo bianco quando lei gli spiega di non voler puntare a qualcosa che sa già non avverrà mai. “Se fossi un uomo bianco non lo vorrei diventare, lo sarei già” è la sua risposta. E quando il marito le fa notare che “non si può richiedere la libertà. La libertà non viene mai concessa agli oppressi, deve essere pretesa, afferrata” lei risponde “smettila di parlare con i soliti slogan, esiste più di un modo per ottenere qualcosa “. Per farsi promuovere ingegnere Mary decide di ricorrere alle vie legali. Riesce a ricevere da un giudice il permesso di assistere alle lezioni serali di un liceo per bianchi, in modo da ottenere la specializzazione necessaria per la promozione, finendo così a collaborare con il reparto ingegneria per contribuire a perfezionare gli scudi termici della capsula spaziale sperimentale per il volo di John Glenn.
Dorothy intanto viene a sapere della futura installazione del computer calcolatore IBM 7090, che porterà alla disoccupazione delle donne adibite ai calcoli che sono sotto la sua supervisione. Perciò si reca nella biblioteca pubblica del paese per informarsi sulla programmazione dei computer e, cacciata in malo modo, si vede costretta a rubare, dalla sezione riservata ai bianchi, un libro sulla programmazione in Fortran. Quest’azione che di per sé potrebbe stonare e risultare disdicevole, in realtà si dimostra la decisione migliore dal momento che sarà proprio grazie a questo libro e alla determinazione ad imparare che potrà poi insegnare alle colleghe come programmare il primo IBM aiutandole così a non perdere il lavoro e a diventare indispensabili alla Nasa, aprendo la via a tante altre donne a prescindere dal colore e dalla nazionalità. Successivamente entra nella sala computer senza permesso e riesce con successo ad attivare la macchina ma viene scoperta. Capisce che con una macchina che esegue i calcoli con una tale velocità non ci può essere futuro per le matematiche della sua unità, quindi decide di cominciare ad addestrarle sui processi di programmazione del IBM. Per questo riesce a farsi promuovere e si trasferisce con loro per supervisionare il computer, guadagnando finalmente il rispetto da parte di Vivian.
Nonostante l’enorme contributo che aveva dato allo Space Task Group, pochi giorni prima del lancia Katherine viene rimandata a lavorare come calcolatrice, dato che il suo lavoro viene compiuto dal computer IBM, finalmente funzionante. Come regalo di nozze e di addio, Harrison e la sua squadra donano a Katherine una collana di perle, l’unico gioiello ammesso nel codice di abbigliamento dell’edificio e che lei, col misero stipendio che percepiva, non avrebbe però mai potuto permettersi.
Il giorno del lancio però, vengono rilevate discrepanze nei calcoli delle coordinate per il rientro formulate dall’IBM 7090. Glenn stesso richiede che Katherine esegua il controllo finale, fidandosi più dei calcoli di una persona, di Katherine in particolare, che di quelli di una macchina. La Johnson riesce a confermare le coordinate in tempo ma, dopo aver portato i dati, inizialmente non viene ammessa ad assistere al lancio: Tuttavia la situazione viene corretta grazie all’intervento tempestivo di Harrison, che le dà un pass e la richiama in sala controllo per seguire il lancio insieme.
Dopo un lancio eseguito correttamente, la capsula di Glenn rileva un problema allo scudo termico, il controllo missione gli ordina di rientrare dopo soltanto la terza orbita intorno alla Terra delle sette previste. Katherine controlla la situazione e suggerisce di usare i razzi posteriori attaccati allo scudo per facilitare il rischioso rientro. Glenn segue le istruzioni e riesce con successo a rientrare nell’atmosfera terrestre senza bruciare e la capsula atterra nel mare delle Bahamas. Grazie al successo del rientro di Glenn, Katherine continuerà a lavorare per la NASA e in seguito calcolerà anche le traiettorie delle missioni Apollo 11 e Apollo 13.
Il film finisce con il successo della missione Friendship 7, e con la Luna che diventa un obiettivo ragionevole. Vaughan divenne una grande esperta di FORTRAN, un importante linguaggio di programmazione dell’epoca, che si vede anche nel film. Si ritirò nel 1971 e morì nel 2008. Jackson lavorò alla NASA fino al 1985, poi si dedicò al supporto delle donne e delle minoranze; morì nel 2005. Johnson calcolò poi anche le traiettorie per le missioni Apollo 11 e Apollo 13. Andò in pensione nel 1986 e nel 2015 ha ottenuto da Barack Obama la Medal of Freedom (Medaglia della Libertà), la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti e ora un importante centro di ricerca della NASA è a lei intitolato.
“Hidden figures”, titolo originale del film, è un gioco di parole perché in inglese figures vuol dire sia “cifre” che “persone” (c’è quindi un doppio significato, mantenuto nell’italiano “contare”). Bravissime le protagoniste (Taraji P. Henson, Octavia Spencer e Janelle Monáe), supportate da un cast bianco scelto con intelligenza. Il film fu candidato a 3 premi Oscar, 2 Golden Globe, 3 Critics’ Choice Movie Awards e ha vinto un SAG Awards (miglior cast), 2 National Board of Review Awards (migliori dieci film dell’anno e miglior cast) e 1 satellite Awards (come miglior cast). Fu salutato con grande piacere dal pubblico, sia negli Stati Uniti, dove riuscì a tenere testa per un weekend al colossal di Guerre Stellari, sia in Europa. Piacque probabilmente per la qualità della storia, una di quelle che vale la pena siano raccontate e per il linguaggio semplice e diretto, tutto al servizio dei personaggi e delle loro vicende. Il sogno di emancipazione e carriera di tre donne nere nell’America degli anni Sessanta s’intreccia alla perfezione col sogno kennediano della conquista dello Spazio: in entrambi i casi il sogno di essere già lì, dove il resto del mondo deve ancora arrivare.
Piacque e piace perché mostra, in maniera schietta che “le donne possono fare grandi cose non perché indossano la gonna, ma perché indossano gli occhiali “. Tuttora il film resta una piccola dimostrazione di come, riuscendo a provare il proprio valore sul campo, si possa a cambiare la propria condizione.
Le figure delle tre donne, purtroppo tanto simili alle figure delle donne in carriera odierne, per molte delle quali la parità salariale e delle buone condizioni di equilibrio tra la sfera privata e quella lavorativa appaiono ancora molto lontane, sembrano fare propria la massima di Marthin Luther King “Può darsi non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla”.
Bibliografia
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Hidden Figures: The Story of the African-American Women Who Helped Win the Space Race, Margot Lee Shetterly, HarperCollins
https://www.ilpost.it/2017/03/10/il-diritto-di-contare-storia-vera/
https://it.wikipedia.org/wiki/Il_diritto_di_contare
https://www.comingsoon.it/film/il-diritto-di-contare/53492/scheda/
http://spaceq.ca/alouette_1_celebrating_50_years_of_canada_in_space/
https://spazio-tempo-luce-energia.it/lo-sputnik-1-e-linizio-dell-era-spaziale-308dc222e3a0
https://it.wikipedia.org/wiki/John_Glenn
https://sputniknews.com/science/201710041057942669-sputnik1-history-first-satellite/
http://dialoghicarmelitani.it/cinema-il-diritto-di-contare/
https://stelleweb.wordpress.com/2017/03/28/il-diritto-di-contare/
http://movisol.org/il-film-il-diritto-di-contare-sulle-donne-nella-nasa/
http://www.discorsivo.it/rubrica/2017/03/04/cinema-2/hidden-figures-diritto-di-contare/
W Curion Un’immagine, mille storie. Donne – Il diritto di contare
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