di Clementina Gily, Editoriale
Bisogna farlo per la questione che sottende, la violenza, questa estrema violenza che si vede al massimo in questa efferatezza, ma che ha tanti terribili esempi nelle cronache giornaliere. Alla decapitazione londinese s’è accompagnata l’esplicita condanna dell’imam Anjem Choudary, che da tempo predica la sua battaglia contro gli eccessi del mondo occidentale, dalla sua chiesa, ma anche dai media.
Ovvia quindi una polemica sull’uso improprio della comunicazione pubblica – un tema centrale nel mondo d’oggi come pochi altri, senza che se ne discuta in modo adeguato. Perché proprio qui si genera il crollo delle teorie classiche della politica a rendere ragione del mondo. Che ne è del segreto di Stato nel tempo di Wikileaks? Che ne è del partito nella rete? E la tutela della privacy, tra intercettazioni e libere confessioni in rete? Un ragazzo rischia di bollarsi a vita per una stupidaggine confessata a Facebook – chi mai dimenticherà la gaffe storica, il giudizio stupido, anche quando passa il tempo?
Diceva Ernesto Balducci “noi viviamo in una età planetaria con una coscienza neolitica”: siamo improvvisamente in un tempo in cui le regole della tradizione vengono meno; il cammino da fare urgentemente è così tanto che occorre iniziare.
Del saltare dei riferimenti classici questo caso è un esempio: Timothy Garton Ash ha commentato su “Repubblica”, in proposito, l’affermazione del segretario britannico agli interni, Theresa May, che ha posto la necessità di “proibire a chiunque abbia opinioni esecrabili” di parlare nei media così da giungere alla censura preventiva dell’ ”istigazione on line all’odio”.
La culla del liberalismo e del fair play, come già l’Olanda al tempo di Theo Van Gogh, esplode.
Difficile non capire l’ira e la ribellione: ma l’analogo tentativo della Thatcher contro il Sinn Fein/IRA si trasformò in una non voluta pubblicità, di grande successo per loro.
Ash inoltre ricorda che c’è già la legge contro chi istiga all’odio, è un reato penale – pensare invece ad un potere politico che si arroghi questo diritto, sarebbe lasciare spazio a ipotesi di stato totalitario.
Eppure anche lui concorda su una pacata riflessione, perché “un minimo contesto normativo, chiaramente, è diventato ormai più che indispensabile”.
Intanto, è opportuno sfruttare le possibilità lecite di contrasto: bisogna affrontare, non tacitare, e vincere la predicazione alla violenza. Chiedersi e chiedere cosa spieghi in questi assassini che vivono sa sempre la vita occidentale il ritorno ad ideali di violenza anche efferati nel modo. E si potrebbe scoprire, dice Ash, che quel che spiega tutto è proprio la mancanza di odio – apparentemente e ipocritamente – che affetta i costumi occidentali e genera una eccessiva permissività. Invece di discutere i punti dolenti della multiculturalità si tace, si evita di difendere le proprie conquiste civili, leggi, istituzioni.
Invece, bisogna indignarsi, e indignarsi è un po’ odiare – ma è un odiare con la mano tesa e lo sguardo rivolto al futuro. Fare come si fa, rifiutarsi di denunciare il male, è permetterlo; lasciar parlare senza controbattere i violenti è farsene correi – il Vangelo condanna anche chi si gira per non vedere.
Bisogna riflettere su cosa sia la violenza. In Italia ad esempio grazie ai precisi manuali dei tempi televisivi e al bavaglio di tanta informazione, la violenza assale giudici e giornalisti da vent’anni, mettendo in crisi la democrazia, se il potere giuridico e la libera informazione sono i due poteri che affiancano la politica statale nello stato liberale, bilanciandola. È una storia cominciata con Craxi per i giudici, con Berlusconi per i giornalisti, oggi siamo all’apoteosi con le condanne di Grillo di chiunque gli si opponga, chiamato per nome e cognome. Non è la violenza degli imam volta al terrorismo: ma è predicazione di violenza sociale e civile. Se un giudice, un giornalista, eccede, lo si condanni secondo le leggi dello stato; se esse vanno rinnovate si rinnovino; ma strillare nella piazza die media facendo di tutt’erbe un fascio è sicuramente violenza e diseducazione del cittadino – che non vota più perché non ha fiducia.
Tutto ciò porta a rimandare al suo lavoro il pensiero liberale, che da decenni non sa uscire dall’impasse che legiferare sui media sia una forma di censura. Karl Raimund Popper finì coll’invocarla, sui media, quando parlò della televisione cattiva maestra. Ma non è questo il problema.
Non è possibile pensare che un simile centrale settore della vita sociale possa non meritare altro che una legislazione di regolamentazione di frequenze, di proprietà e via dicendo. Una televisione (e la rete ecc.) non è un qualsiasi elettrodomestico, è un veicolo di formazione oltre che informazione. Se si guardano le cose da questo punto di vista, è evidente che occorre tracciare dei binari di liceità, come si scrivono dei programmi scolastici senza perciò coartare la libertà d’insegnamento. La questione di principio non esiste, regolare non è censurare, andare contro la libertà di parola; è difendere la libertà di ricezione. Perché i media non sono spazio di libera espressione ma sono l’ambiente di vita cui non ci si può sottrarre. La tutela dell’ambiente di vita è la strada da imboccare per meditare con attenzione il dettaglio di regole che possano garantire la giusta ecologia dei media.