di Francesco GUI
Nella concezione di Altiero Spinelli maturata in un decennio di riflessioni filosofiche carcerarie, il federalismo consisteva essenzialmente in un’innovazione creativa dell’intelletto mediante il quale l’umanità passava da una civilizzazione ormai esaurita (quella dello stato nazionale sovrano) ad una nuova e più libera, fondata sulla sovra nazionalità. Trattandosi di un prodotto dell’intelletto, non di una diversa fase dello spirito, deterministicamente trasmigrante da un momento all’altro, la nuova stagione della civiltà umana richiedeva di essere instaurata attraverso una precisa soluzione istituzionale, quella appunto federale, mutuata dal modello americano. Senza una rigorosa applicazione dello strumento ‘hamiltoniano’, ogni aspirazione al superamento dello stato di guerra permanente fra gli stati e di povertà di massa delle popolazioni, restava pura velleità.
Di qui la meticolosa, quasi ossessiva attenzione di Spinelli per la cesura istituzionale fra il prima e il dopo, da realizzare, se possibile, attraverso un momento costituente, che all’inizio doveva essere addirittura ‘leninista’ e rivoluzionario.
Al di là di alcuni accenti superomistici e di un’istintiva concretezza machiavelliana, il nostro era anche consapevole che la prospettiva federalista costituiva il punto d’incontro fra le componenti progressive del suo tempo: vale a dire l’internazionalismo socialista democratico, l’universalismo cristiano che avesse abbandonato lo spirito di crociata e le correnti di pensiero liberal-democratico non soggiogate dal mito dello stato nazionale. Il federalismo, fondato sull’idea della pace permanente e della pace istituzionale, poteva costituire insomma il comune terreno di convivenza fra componenti diverse in vista di una più alta civilizzazione.
L’impegno de “Gli Stati Uniti d’Europa”[1] è di tenere viva la sostanza intellettuale e politica del Manifesto di Ventotene , in una fase parecchio nebulosa, in cui l’incertezza sui confini dell’Unione (vedi la questione turca) o l’attesa dell’esito dei referendum sulla costituzione (assolutamente cruciale quello francese di primavera), insieme con gli sbandamenti sulla questione irakena e sulla politica estera dell’Unione, determinano un rilancio delle iniziative nazionali e delle contrapposizioni all’interno degli stati, in assenza peraltro di chiare direttrici di azione e di attendibili soluzioni economico-sociali.
In definitiva, appare indispensabile mantenere salda la coesione di fondo, magari accantonando attriti di importanza secondaria, fra le componenti politiche legate agli obbiettivi tracciati dai padri fondatori (che in Italia sono chiamate a difendere anche la costituzione repubblicana). Al tempo stesso, nelle scelte politiche dell’Unione, il giudizio deve continuare a fondarsi sul préalable (preliminare) istituzionale, da suggerire anche al resto del mondo, vicini dell’Europa compresi. Malgrado le disillusioni e le smentite del quotidiano, l’impegno federalista è un impegno di civiltà, è un fattore identitario, è un legame forte fra credenti e non credenti. È il nord magnetico in questi difficili frangenti.
[1] Rivista pubblicata sino al 1939 dal 1867 dalla Lega internazionale della pace e della libertà al Congresso della pace di Ginevra sotto la presidenza di Giuseppe Garibaldi col patrocinio di Victor Hugo e alla presenza di Bakunin, continuata da Charles Lemonnier rivendicando libertà per le donne e i sindacati, il suffragio universale, la costituzione armate e tribunali comuni, l’abolizione della pena di morte. “Critica liberale” la rieditò nel 2004.
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