di Franco Blezza
Miti ottocenteschi falsi e ingannevoli…
Rimaniamo ancora un attimo alla scienza del primo ’800, ed anche ad un certo dogmatismo che in essa poteva allignare come l’evangelica zizzania nel campo di frumento; ma rimaniamoci quel tanto che occorre ad osservare che già con la metà di quello stesso secolo tante certezze andavano in crisi: in una crisi ben presto rivelatasi irreversibile, tanto che ogni appiglio per dogmatismi mal riposti cadeva irrimediabilmente.
È in quel contesto che si sono sviluppati e coltivati dei miti che avrebbero voluto riferirsi alla scienza e che hanno fatto male abbastanza alla cultura in generale, alla cultura scientifica in particolare e, conseguentemente, anche all’educazione.
Parliamo di miti quali quello delle cosiddette “scienze esatte”, il mito della “verità scientifica”, della scienza che produce certezze e definitività. Secondo questo mito, chi si forma alla scienza come conoscenza e come cultura non avrà altro da fare nella vita che ribadire quotidianamente la propria fede nelle idee di fondo al tempo vigenti, e semmai rendere sempre più accurata l’esattezza delle sue misurazioni nel contesto di quelle stesse idee.
Vi è stato anche il mito, diverso, secondo il quale “la matematica non è un’opinione”. Lo si sente ripetere ancora oggi, spesso, e non solo nel linguaggio comune. In quest’ultimo, forse, lo si potrebbe anche tollerare; ma nel linguaggio delle persone di cultura assolutamente no, e nel campo educativo come in quello scolastico non si possono non segnalarne i pericoli estremamente gravi.
Tra questi miti, forse il peggiore è stato quello della cosiddetta “esperienza pura”, oppure “empirìa pura”. La scienza, per meglio dire le scienze empiriche, sarebbero un puro e semplice risultato di esperienza; le leggi e le teorie scientifiche sarebbero generalizzazioni di risultanze empiriche, frutto di un processo che va dal particolare al generale chiamato “induzione empirica”. Oggi è ben chiaro che l’esperienza pura non esiste: se si compie un’esperienza lo si fa perché si hanno già dei problemi e delle aspettative e, in questo senso, l’esperienza ha un rapporto più complesso ed articolato con le idee e la teoria. Che qualche studioso poco provveduto parlasse di “empirìa pura” ancora agli inizi del ’900 lo possiamo comprendere, anche se ne vediamo tutti i pericoli e tutta la fallacia. Più arduo è comprendere come un simile sproposito possa essere tranquillamente ripetuto oggi, al momento attuale, da studiosi dell’educazione che pretenderebbero di insegnare qualche cosa agli uomini di scuola e agli uomini di cultura.
Le leggi di Newton sulla meccanica, o quelle di Sadi Carnot sulla termodinamica, o la sistematica botanica o zoologica di Linneo, o le leggi sulla chimica atomica di Dalton, sono costruzioni umane fatte per risolvere problemi che l’uomo si è posto: sono empiriche non nel senso che derivino dall’esperienza, ma nel senso che non sono arbitrarie, in quanto sono soggette a tutta una serie di regole e di leggi sia nella loro ricerca che nella loro formulazione, e tra queste ci sono anche le regole dell’empiria. L’esperienza può convalidare o corroborare la conoscenza, consentendone un vigore che è sempre e comunque provvisorio; ma può falsificarne asserti leggi e teorie, imponendo logicamente una revisione di tutto il sistema di pensiero che ne risulta logicamente inficiato.
… e il progressivo venir meno dei loro appigli
Sono miti ottocenteschi, si diceva, ma che già in quello stesso secolo avevano mostrato i loro limiti. Tanto, che ancora dentro lo stesso ’800 essi erano superati.
La scienza propriamente detta “moderna” era già in via di superamento verso la metà di quel secolo, ed è andata incontro tra la fine del XIX secolo e i primi del XX ad una transizione. Quella scienza moderna, sulla quale si era fra l’altro appoggiato acriticamente e disinvoltamente il Positivismo, aveva visto crollare i propri principi più di 150 anni fa. Se si vuole, il “postmoderno” scientifico si colloca a quei tempi.
Per riprendere un’altra espressione di Kuhn, era iniziata una “rivoluzione scientifica”, vale a dire uno di “quegli episodi di sviluppo non cumulativi, nei quali un vecchio paradigma è sostituito, completamente o in parte, da uno nuovo incompatibile con quello.” . Per completezza, ricordiamo che “Con tale termine [paradigma] voglio indicare conquiste scientifiche universalmente riconosciute, le quali, per un certo periodo, forniscono un modello di problemi e soluzioni accettabili a coloro che praticano un certo campo di ricerca.”
Chi ha seguitato a parlare di quei miti o comunque a parlare della scienza in termini positivistici, a favore o contro, successivamente a quel periodo di transizione, ha compiuto un’operazione che comunque è intrinsecamente incolta, diseducativa, involutiva, e culturalmente deprecabile e condannabile.
Sul carattere nocivo di quegli equivoci (o di quei miti) ottocenteschi non ci sarebbe molto da insistere se si parlasse solamente delle conseguenze sulla ricerca scientifica, in quanto essi sono stati superati praticamente senza difficoltà, se pure mai hanno effettivamente allignato nello specifico dominio scientifico, piuttosto che non in chi voleva ruotarvi attorno. Invece, è necessario e fin doveroso insistere circa le conseguenze di queste male piante sul piano della cultura, dell’educazione, della metodologia della ricerca, dell’immagine che della scienza si ha comunemente.
Già a partire dalla metà del XIX secolo c’erano sia ragioni di principio, di dottrina, di teoria contraddittorie, sia ragioni pratiche, di applicazione, di esperienza, di dati di fatto a riscontro negativo, che portavano a mettere in crisi tutto il sistema di conoscenza che noi chiameremmo ancora oggi con proprietà “scienza moderna” e che, di conseguenza, portavano alla necessità di fondare una nuova stagione scientifica caratterizzata da teorie alternative ed evolutive rispetto a quelle “moderne” propriamente dette.
Si apriva così un nuovo evo, un nuovo periodo, una nuova epoca per la conoscenza scientifica, per la ricerca scientifica, e per la cultura generale.
La meccanica di Newton, la chimica di Dalton, la sistematica di Linneo e così via le possiamo studiare ancora oggi. Ma lo facciamo nella piena è ineludibile consapevolezza che esse costituiscono una approssimazione valida entro certi limiti. Sono più semplici delle teorie novecentesche e si prestano ad essere trattate nei corsi pre-universitari dove i prerequisiti sono meno saldi, specialmente quelli matematici.
Esse non hanno più nulla a che vedere con la conoscenza scientifica che si è evoluta nell’ultimo secolo, ed oltre.
L’irreversibile crisi della scienza moderna: la perdita della coerenza “interna”…
Gli elementi di crisi che emersero in quel frangente storico divennero ben presto insuperabili.
Ci fu anche chi tentò di salvare il sistema di pensiero moderno, in particolare la teoria di Newton, sia a fronte delle ragioni di incoerenza “interna” che di fronte a quelle di incoerenza “esterna”, con aggiustamenti parziali che gli epistemologi chiamano “ipotesi ad hoc” e considerano atti involutivi e non condivisibili. Furono operazioni di corto respiro, oltre che condannate dalla storia.
Anche in questo c’è da trarre un insegnamento importante dalla metodologia della ricerca scientifica così come essa realmente si attua quotidianamente nei laboratori e nei centri di ricerca: non cercare di salvare a tutti i costi, con ogni sorta di mezzo o mezzuccio, una teoria che è dimostrata falsa, per quanto ad essa si possa essere attaccati, o per quanto essa ci possa aver abituato a considerarla indiscutibile.
Quanto alle ragioni di principio, di dottrina, basterà ricordare tra il 1865 e il 1873 venne avanzata la teoria dell’elettromagnetismo di James Clerck Maxwell (1831-1879), cioè una nuova teoria generale sulla natura fisica, esattamente come lo era quella di Newton. La forma matematica di questa nuova teoria si compendia in quattro equazioni “alle derivate parziali” che portano il nome del formulatore, e che non si possono rendere con parole comuni se non perdendone la massima parte di significato e di informazione. Si tratta di formule che unificano sotto una unica teoria i fenomeni elettrici e quelli magnetici.
Orbene, con passaggi matematici dello stesso livello, che richiedono prerequisiti trattati solo a livello universitario, si può dimostrare come le due teorie, quella settecentesca di Newton e quella ottocentesca di Maxwell, siano tra di loro incompatibili, cioè non possano essere entrambe vere. Vi era, quindi, una ragione di ordine logico, di coerenza “interna”, che portava alto il dubbio nell’ambito degli studiosi delle scienze della natura di base. Va aggiunto che la teoria elettromagnetica di Maxwell è quella sulla quale si baseranno tutte le applicazioni che noi ben conosciamo sia delle onde elettromagnetiche che dell’elettrotecnico: ad esempio, tutte le forme di trasmissione della comunicazione senza filo, gli altri impieghi delle varie onde elettromagnetiche, o la produzione e il consumo di energia elettrica. Tra queste due teorie, solo una poteva essere mantenuta in vigore: e si osservi che non impieghiamo l’aggettivo “vera”, in quanto non solo non possiamo escludere che fossero entrambe false, ma possiamo sempre attenderci che qualunque teoria, per quanto considerata vera per tempi lunghi, venga a rivelarsi nella sua falsità in un secondo momento.
Già allora, la scienza moderna non era più adeguata, e per delle ragioni di principio ineludibili: ciò fu chiaro ben presto agli scienziati, e non costituì un problema particolare, in quanto lo scienziato sapeva bene che le teorie scientifiche erano fatte per essere falsificate ed avvicendate, prima o poi. Parliamo, è ovvio, non delle singole persone degli scienziati, bensì della comunità scientifica. I comportamenti personali di ogni singolo scienziato hanno la loro rilevanza, ma non sono quelli che lasciano la traccia della scienza in evoluzione, come frutto del dispiegamento delle risorse umane più pregiate.
… e la falsificazione empirica, la perdita della coerenza “esterna”
D’altra parte, mentre la teoria di Maxwell ricavava una quantità e una varietà di conferme empiriche ed applicative all’inizio inimmaginabile, ricavava cioè quelle che gli epistemologi contemporanei preferiscono chiamare “corroborazioni”, la teoria di Newton cominciava proprio in quella stessa seconda metà dell’Ottocento ad andare incontro ad una sequela di falsificazioni empiriche sempre più vasta e più differenziata, tanto da non considerarsi più sostenibile nell’arco di qualche decennio.
Noteranno i lettori che, mentre abbiamo accuratamente evitato di impiegare l’aggettivo “vero” ad indicare la teoria che riceve conferme sul piano empirico, non abbiamo invece alcun problema analogo a qualificare la teoria che riceva smentite sul piano empirico, od anche sul piano logico, come una teoria “falsa”. Anche questo, con la pesante ed essenziale asimmetria logica tra i due aggettivi “vero-falso”, è un insegnamento importante per chiunque sia persona di cultura, e in particolare per chi si applichi con cultura al dominio dell’educazione e della scuola, anche se non insegna direttamente materie dell’area scientifica, o dell’area tecnica.
La gran parte delle falsificazioni empiriche che ricevette la teoria di Newton in quel limitato periodo di tempo, limitato ma di fondamentale importanza storica, e descrivibile con grandi difficoltà e con una approssimazione poco accettabile senza fare appello a prerequisiti adeguati sia matematici che disciplinari. Ve n’è però una, la prima in ordine storico, che si può descrivere agevolmente.
Premettiamo che Newton, a suo tempo , aveva dedotto la sua teoria generale sulla natura fisica, composta da tre leggi della meccanica classica più la legge di gravitazione universale, partendo dalle tre leggi astronomiche di Keplero (Johannes Kepler, 1571-1630): ecco, quindi, un altro personaggio di riferimento per la scienza “moderna” propriamente detta.
Un aspetto essenziale del geniale apporto recato da Newton all’evoluzione della scienza moderna stette proprio in questa intuizione, secondo la quale andava rotta la discontinuità tra terra e cielo, risalente ad Aristotele e mantenuta salda nella cultura medievale, e andavano applicate anche in terra le conseguenze logiche delle leggi del moto dei pianeti.
Un altro aspetto della sua potente innovazione, che andrebbe considerato più attentamente, è consistito nella escogitazione di nuovi strumenti di calcolo matematico, le basi di quella che oggi si chiama “analisi matematica “, alla cui fondazione concorse per altre vie (ricerche geometriche) anche Leibniz. Questa branca delle scienze matematiche viene studiata anche nei licei classici, non da molti anni, ma con evidente profitto culturale e con generale soddisfazione.
Ebbene, come sappiamo tutti, la prima delle leggi di Keplero ha una formulazione relativamente semplice: “i pianeti attorno al sole descrivono delle ellissi, di cui il sole occupa uno dei fuochi”. Notiamo, ancora, che questa intuizione di Keplero fu anch’essa una rottura rispetto a ad una convinzione antica, saldamente mantenuta anche nel medio evo e perfino da Copernico, secondo la quale i moti dei corpi celesti andavano comunque descritti in termini di cerchi o di loro complicate combinazioni.
Ebbene, già nel 1859 un astronomo francese, Urbain J. J. Le Verrier (1811-1877), dimostrò con chiarezza che la prima legge di Keplero non era vera. Lo dimostrò per il pianeta più vicino al sole, mercurio: la sua orbita non era una ellisse, cioè una curva chiusa, bensì una curva più complicata, una ellisse che ruotava molto lentamente su sé stessa. Ogni tanto, anche ai nostri tempi, qualche sprovveduto astronomo dilettante crede di aver scoperto un pianeta più vicino di mercurio al sole, in quanto non conosce l’evoluzione che hanno avuto l’astronomia e la meccanica negli ultimi centocinquant’anni e più; invece, gli scienziati seri stanno progressivamente dimostrando come questo moto geometricamente più complicato dei pianeti li riguardi tutti, ovviamente con una rotazione sempre più lenta, e quindi più difficile a riscontrarsi, man mano che ci allontaniamo dal sole.
Come si capisce immediatamente, mettere in crisi le leggi di Keplero significava falsificare empiricamente la teoria generale di Newton che ne derivava logicamente.
Così veniva a mancare, in modo non eludibile, uno dei fondamenti della fisica classica e della scienza moderna. A questa prima evidenza empirica falsificante ne seguirono, a ritmo frenetico, innumerevoli altre nei campi più disparati: nella termodinamica, nell’ottica, nell’astronomia, nello studio e nelle applicazioni dell’energia, nello studio degli atomi e nella chimica, e via elencando.
La seconda metà dell’Ottocento fu, insomma, tutto un pullulare di falsificazioni della meccanica newtoniana e, quindi, tutto un crepuscolo ormai irreversibile per la scienza “moderna” propriamente detta.
La scienza moderna era ormai alla fine.
La scienza successiva a quella “moderna”
Nel frattempo. la scienza si stava evolvendo, e rapidamente.
Il fatto che l’apparato concettuale della scienza moderna non funzionasse più avrà messo certo in crisi parecchi scienziati, sul piano strettamente personale. Sul piano della ricerca, notiamo bene, è stato invece un enorme propellente verso nuove indagini e soprattutto verso nuove formulazioni teoriche: tanto, che i nuovi paradigmi di pensiero erano stati già delineati tra gli ultimissimi anni dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.
Basterà qualche nome: la teoria dei quanti, a cominciare da Max K. E. L. Planck (1858-1947), che per primo propose il termine e il concetto nel 1897; le teorie di Albert Einstein (1879-1955) sulla relatività (1905 e 1916), le nuove teorie sulla chimica e sul sistema periodico degli elementi (quelle di Mendeleev si erano dimostrate in alcuni casi fallaci, per la precisione in tre coppie di elementi che dovevano essere scambiate di posto reciprocamente nel sistema periodico), la genetica di Johann Gregor Mendel (1822-1884) le cui tre leggi erano state formulate a partire dal 1866, ma furono riscoperte e diffuse nei decenni successivi; la biologia molecolare del ’900, e via elencando.
Il fatto che il sistema di pensiero moderno (newtoniano, meccanicistico, deterministico) fosse andato in crisi era diventato il motore per nuove indagini, per nuove ricerche, per nuove leggi e teorie.
L’evidenza degli equivoci ottocenteschi sulla scienza
La fisica classica ha subito delle falsificazioni empiriche pesanti e sempre più gravi e frequenti dopo che aveva ricevuto per un paio di secoli tutta una serie di corroborazioni senza eccezione alcuna. Questo dimostra (fra l’altro) quanto fosse fallace l’idea secondo la quale la scienza si dovesse considerare “empirìa pura”. Non esistono esperienze pure, perlomeno nella scienza e nella ricerca scientifica; probabilmente non esistono in assoluto.
Se si compiono indagini empiriche scientifiche, se si compiono osservazioni scientifiche od esperimenti od altre forme di rilevazioni, lo si fa perché si hanno delle teorie, e prima ancora dei problemi, degli interrogativi, delle ipotesi delle quali si intendono appurare potenzialità e limiti. Questo vale quando si compiano esperimentazioni propriamente dette come in fisica o in chimica, quando si compiano osservazioni scientifiche come in astronomia o in geologia o in storia naturale o in sistematica botanica o zoologica, e quando si compiano indagini empiriche più complesse come ad esempio in medicina ovvero nelle scienze dell’universo. Queste indagini empiriche sono interrogazioni rivolte alla natura le quali, come si capisce immediatamente, si compiono perché ed in quanto si abbiano delle domande da porre alla natura stessa, e perché ed in quanto si posseggano gli strumenti concettuali ed operativi per compiere una simile interrogazione e per sperare di comprenderne la risposta.
Nessuno tra gli scienziati, in particolare della fine dell’Ottocento, avrebbe accettato l’idea che la scienza fosse frutto di pura raccolta di dati esperienziali e di loro generalizzazione induttiva, come del resto nessuno accettava l’idea che la scienza producesse certezza. La scienza si evolveva proprio nell’incertezza, nel dubbio, in un contesto di scetticismo sistematico (se ci intendiamo). Si può accettare quello che di scientifico e in vigore provvisorio in un determinato momento storico, contestualizzandolo conseguentemente, ma solo fino a prova contraria. Se intervengono delle ragioni teoriche e logiche, cioè delle contraddizioni di fondo, o delle ragioni empiriche, cioè delle contraddizioni di fatto; se in altre parole viene violata o la coerenza “interna” o la coerenza “esterna”, allora la scienza impone la sua deontologia: quel sistema di pensiero è da considerarsi in crisi, proprio come è avvenuto in particolare per quello propriamente detto “moderno” nella seconda metà del XIX secolo.
La scienza, propriamente e correttamente intesa, è una palestra di anti-dogmatismo, di ricerca continua, nella quale certezze verità e definitività non hanno posto. Simili superficialità possono riscontrarsi nel linguaggio comune, ma solo con l’avvertenza di trattarle con la massima attenzione e con il dovuto discernimento, e di farne oggetto di una critica profonda ed essenziale quando dal linguaggio comune si passi al linguaggio specifico, che dovrebbe poi essere l’unico linguaggio praticabile da parte di chi pretenderebbe di dirsi persona di cultura, ed anche (che non è lo stesso) da parte di chiunque pretenderebbe di parlare di educazione, di didattica e di scuola in generale.
La matematica in che senso è un’opinione
Verrebbe da pensare che le cose stessero diversamente (perlomeno) per la matematica, meglio per le scienze matematiche o magari per la logica, non trattandosi di discipline empiriche pur considerandole certo, per opinione concorde e per valide ragioni, discipline scientifiche in senso stretto, discipline scientifiche non empiriche.
Ad una teoria logica o matematica tutto ciò che richiediamo è la coerenza interna: non esistono esperimenti che possono falsificare una teoria matematica (geometrica, algebrica, o d’altra pertinenza) o una teoria logica. Ma ciò non significa il semplicismo secondo il quale “la matematica non è un’opinione”, come si diceva sempre nel XIX secolo e come qualcuno direbbe ancora oggi. Anche questo fu reso chiaro dall’evolversi della ricerca proprio nella seconda metà dell’800, pur se vi erano stati dei precedenti nei secoli “moderni” che però non erano stati oggetto di adeguata attenzione.
Come noto, la branca degli studi matematici che ha trovato la sua sistemazione più antica è stata la geometria: quella che rimanda al nome di Euclide (III sec. a.C.). La geometria euclidea, antica e “classica” e certamente non “moderna”, si basa sulla coerente deduzione di conseguenze logiche (teoremi, corollari, scolii) a partire da un numero ristretto di proposizioni di base, in particolare dai cinque “assiomi” che lo stesso Euclide ha formulato. Ebbene, nell’800 fu chiaro quello che, peraltro, si era già intuito prima, cioè che si potevano costruire teorie geometriche plausibili anche partendo da apparati assiomatici alternativi. Nulla costringe ad accettare i cinque assiomi che a suo tempo propose Euclide: una volta che noi li abbiamo accettati, allora certo la geometria che ne deduciamo non è un’opinione; ma è un’opinione l’accettazione di quell’apparato di assiomi, in quanto è perfettamente plausibile e lecito rifiutarlo in tutto o in parte, e sostituirvi un apparato in tutto o in parte alternativo. Questo fu fatto inizialmente in geometria, come la geometria era stata la prima branca degli studi matematici ad avere una sua sistemazione assiomatica; ma fu ben presto fatto anche in altri campi matematici, come la teoria degli insiemi, la teoria dei numeri, diversi sistemi algebrici, e così via.
Ciò è avvenuto largamente anche in logica: ancora ai primi del ’900, c’era chi riteneva che la logica fosse un fatto naturale, e che quindi non fosse possibile altra logica che non fosse quella “classica”, risalente ad Aristotele e sistematizzata nel medio evo dagli Scolastici. Ma già nell’800 si avanzavano logiche alternative, e nel 900 si è resa disponibile una pluralità di logiche, le quali fra l’altro hanno applicabilità differenziate a seconda dei campi di studio.
Alla fin fine, si impiega ancora la logica classica o perché è la più forte (in quanto “a due valori”: vero-falso, 0-1, sì-no), come Popper affermava individuandovi addirittura l’organon dell’epistemologia, o perché è la più facile, l’unica trattabile con qualche approfondimento in tutta l’istruzione pre-universitaria.
Per esprimerci in un linguaggio semplice, ma non banale né scorretto: quella matematica (o quella logica) che “non è un’opinione a valle”, si rivela essere nient’altro che “un’opinione a monte”.
La negazione di un’immagine realistica della scienza, deprivazione educativa
Sulla base di questi ragguagli storici e critici, siamo in grado di comprendere come, perché e in che senso ci sia stata negata la scienza come cultura e come metodologia della ricerca, tanto a scuola quanto nella vita sociale all’incirca per un secolo. Se hanno potuto a lungo allignare quelle male piante di origine ottocentesca sia presso chi (a parole almeno) onorava la scienza ma la considerava “empiria pura”, cioè ne aveva una visione irrealistica e in fin dei conti ignorante, sia presso chi invece la scartava e la emarginava in nome di un asserito primato gerarchico di altri saperi, è stato proprio e solo perché il terreno era concimato d’ignoranza.
Né i Positivisti né gli Idealisti, perlomeno gli Idealisti e i Neoidealisti italiani, avevano un’immagine corretta, realistica e fruibile di che cosa fosse la scienza come conoscenza e come metodo di ricerca. Se rileggessimo oggi taluni scritti, fra l’altro dei più noti, di Giovanni Gentile e di Benedetto Croce a proposito della scienza, capiremmo subito come non solo questi illustri filosofi non conoscessero la scienza nel senso dei prodotti della ricerca scientifica, ma in particolare e soprattutto come e quanto ignorassero e storpiassero la realtà della scienza come procedura, come evoluzione, come ricerca. Ciò che essi criticavano, e facevano benissimo a criticarle, erano delle visioni filosofiche ottocentesche sulla scienza, in particolare proprio talune delle visioni positivistiche.
Meno fondata era la critica di Gentile allo Herbart, per una riduzione della pedagogia a filosofia e senza scienza. Dovrebbero tenerlo ben presente quanti parlano disinvoltamente di “scienze dell’educazione” pensando ed esemplificando con saperi che non sono scienze senza aggettivi, in senso stretto.
Va aggiunto, per chi volesse approfondire la questione dal punto di vista strettamente filosofico, che essi non stroncavano il Positivismo in assoluto, ma alcuni fra i più estremisti tra i positivisti, in particolare positivisti di lingua tedesca, oppure il fondatore Auguste Comte (1798-1857). Se studiassimo i positivisti di lingua inglese, e soprattutto quelli di lingua italiana che perlopiù si erano occupati non di teorie generali astratte bensì di applicazioni, vedremmo come certe visioni distorte della scienza che abbiamo criticato e che condividiamo nella critica con Croce e Gentile non fossero applicabili ad essi, oppure lo fossero solo in parte. Chi operava nei campi applicativi, sapeva perfettamente che non esiste esperienza pura, non esistono verità o certezze scientifiche. Mi riferisco, innanzitutto, ai pedagogisti di scuola o di matrice positivistica (in senso più o meno lato) come Aristide Gabelli (1830-1891), Nicola Fornelli (1843-1915), Pietro Siciliani (1835-1885), Andrea Angiulli (1837-1890), Saverio Fausto De Dominicis (1846-1930), Antonio Colozza (1859-1943), Giovanni Marchesini (1862-1932) e lo stesso Roberto Ardigò (1828-1920). Ma sarebbero ancora più interessanti ai nostri fini i metodologi della clinica Salvatore Tommasi (1813-1888) e Augusto Murri (1841-1932); essi ci hanno lasciato delle pagine di grande chiarezza sulla metodologia della clinica medica, le quali rivestono una grande attualità e potrebbero e dovrebbero essere rilette oggi da tutti coloro che intendano riesaminare il problema della scienza nell’ambito delle varie forme di cultura e di conoscenza, soprattutto per le finalità educative, formative, didattiche, scolastiche, di cultura sociale diffusa, che sono comuni ai nostri lettori. Né andrebbero dimenticati lo storiografo Pasquale Villari (1827-1917), i criminologi Cesare Lombroso (1836-1909) ed Enrico Ferri (1856-1929), e i numerosi altri che, purtroppo, con la sola etichettatura di “positivisti” troppi ritengono legittimo ignorare .
Un dovere nei confronti delle generazioni a venire
Se pensiamo in questi termini alle generazioni a venire, e stigmatizziamo ciò che è stato negato per decenni, cioè per parecchie generazioni nella scuola negando la scienza e soprattutto la sua processualità, non possiamo non interrogarci circa quelli che ci appaiono essere, chiaramente, dei precisi doveri.
Il processo di riforma, graduale e minimalistico, che ha avuto luogo in Italia nella nostra scuola tra i primi anni ’70 ai primi anni ’90, aveva legittimato qualche aspettativa relativamente a questo annoso ed irrisolto problema. Perlomeno nei tre gradi di quella che allora si chiamava “scuola di base”, vi erano delle non trascurabili premesse perché si avviasse un processo di un recupero (seppur ancora parzialissimo) della scienza come cultura e come metodologia nell’educazione delle giovani generazioni. Ci riferiamo, va ribadito, non solo a ciò che era scritto in alcune particolari sezioni dei programmi che avevano per oggetto la cultura scientifica o la cultura tecnica, ma ciò che era scritto nelle parti generali.
Quei documenti, come del resto altri atti normativi dello stesso periodo, contenevano delle pagine eccellenti di metodologia scientifica e di educazione scientifica. Sarebbe bastato essere coerenti con esse, estenderle alla scuola superiore e tradurle in atto nella didassi e nell’educazione scolastica, liberandosi dal pregiudizio insostenibile secondo il quale la scienza vada considerata una appendice di un procedimento didattico altrimenti impostato.
In estrema sintesi che cosa è la ricerca scientifica? Basterebbe rileggersi quei documenti per sincerarsene. Si tratta di documenti normativi validi per tutti; e del resto, di rari casi di norme scritte in un linguaggio fruibile in modo generale. Rimandando ad altre sedi per quegli approfondimenti che pure sarebbero necessari, qui ci limiteremo a riepilogare l’essenziale.
Per “scienza” va inteso il processo di continua posizione di problemi, vale a dire di reazioni costruttive rispetto a contraddizioni, interrogativi, discrepanze, squilibri, incertezze che ciascuno di noi incontra nel suo interagire con l’ambiente culturale.
Quando si sia posto un problema, si cerca di risolverlo. In questo, entra in gioco quell’alta facoltà umana che è la creatività, la quale permette di escogitare possibili soluzioni; con essa, acquistano il loro pieno valore anche la divergenza, il pluralismo e la socializzazione di punti di vista che siano quanto più possibile differenziati.
Tutto ciò che viene proposto nel tentativo di risolvere problemi, e come tale socializzato, va poi sottoposto alle regole proprie della ricerca scientifica. Del resto, qualunque atto di creatività umana è normato.
Una di queste è l’inquadramento di ipotesi e leggi scientifiche in teorie e sistemi di pensiero più generali, senza di che non si dà cultura né conoscenza.
Un secondo e l’apparato delle regole della logica, ossia l’ottemperanza alle regole della coerenza “interna”.
Un ulteriore apparato di regole sta nel controllo con la esperienza di fatto “futura”. Dalle ipotesi avanzate, e inserite nel loro contesto più generale, attraverso le regole della logica si possono dedurre delle conseguenze che riguardano fatti assertivi od empirici. Questo guida l’indagine empirica, la quale si rivela essere nient’altro che un controllo delle ipotesi avanzate. La coerenza con essa si chiama anche coerenza “esterna”.
Vi è un’essenziale a-simmetria logica tra i due possibili esiti del controllo: i dati a favore, per quanto siano numerosi e vari, non danno mai certezza né verità, bensì “corroborano” l’ipotesi; invece, basta un dato negativo per dare falsità né senso di inficiare logicamente con l’ipotesi e, con essa, l’intero sistema di pensiero.
Da questo ricaviamo l’immagine di una scienza in continuo divenire, tutta provvisorietà, incertezze, fallibilità, cagionevolezza, dubbio, imperfezione processualità.
Quelli che vengono presentati in un certo momento storico come prodotti della scienza sono nient’altro che delle tappe: le ultime fino a quel momento, le prime del processo che avrà luogo negli anni a venire.
Ovviamente non abbiamo né lo spazio né l’opportunità di entrare in maggiori dettagli, dettagli che si possono rinvenire in quei documenti normativi non remoti e, peraltro, misconosciuti e disattesi. Quel poco più di scienza essenziale che si sarebbe potuto, e dovuto, introdurre nella scuola degli ultimi decenni e stato lasciato sulla carta.
Il frenetico avvicendarsi di riforme più o meno organiche ma sempre di enorme portata e con velleità palingenetiche, che ha caratterizzato la cosiddetta “seconda repubblica”, ha finito per far perdere ed eclissare anche questa parzialissima linea di tendenza, per quanto la necessità si vada facendo sempre più elevata e chiara.
Il Pragmatismo-Strumentalismo alle radici di un processo di riforma attuale
In chiusura, limitiamoci ad osservare che questi principi sulla educazione scientifica, o se si preferisce sulla educazione “senza aggettivi” con l’apporto essenziale anche della cultura e della processualità scientifica , non si debbono all’insegnamento di Popper, anche se egli ha avuto un ruolo importante nel portarli all’attenzione della più ampia gamma di studiosi.
Lì trovavamo ben codificati e sistematizzati già presso i Pragmatisti “classici”, vale a dire ancora nell’Ottocento, ma al di fuori del dualismo chiuso Positivismo-Idealismo nel quale si “avvitava” tanta filosofia europea.
Soprattutto, li trovavamo tradotti in termini direttamente fruibili in pedagogia e in didattica (cosa che non si può dire delle teorie di Popper) già nel Pragmatismo classico e, in particolare, nello Strumentalismo di John Dewey (1859-1952). Non parliamo di un Dewey poco noto o da riscoprire in archivi polverosi: parliamo del Dewey di My pedagogic Creed (1897), The School and Society (1899). How We Think (1910; riveduto nel 1933), Democracy and Education (1916), di Reconstruction in Philosophy (1920, poi Reconstruction of Philosophy 1948), Human Nature and Conduct (1922), Experience and Nature (1925), The Public and its Problems (1927), The Quest for Certainty (1929). Logic: The Theory of Inquiry (1938), e via elencando: tutte opera tradotte in italiano e diffuse da decenni.
Basterebbe rileggersi Dewey e gli altri pragmatisti in originale, e non in tante divulgazioni che hanno consentito che ci si riempisse la bocca del nome del grande pedagogista statunitense senza peraltro coglierne l’essenziale e, per il resto, rimanendo su posizioni oscurantiste ed incoltamente anti-scientifiche. Fra l’altro, la sua trattatistica è scritta in termini molto semplici, leggibili, che non richiedono prerequisiti particolari. Come, del resto ne sono immediatamente applicabili le proposte nella didattica di tutti giorni, in qualunque grado di scuola.
Questa è la cultura che ci è stata negata, ormai per poco meno di un secolo: ci è stata negata per motivi di scarsa comprensione (non solo nel senso del “capire”, ma nel senso latino del “pretendere cum”), di inadeguata assunzione tra i campi del sapere umano di ciò che effettivamente la cultura scientifica aveva da recare.
Un dovere professionale e culturale, un compito pedagogico
Ma allora noi capiamo che, se dobbiamo prendere atto di tanto, dobbiamo poi poterne trarre le conseguenze più direttamente fruibili nell’ambito della scuola, e negli ambiti della cultura e dell’educazione che in essa hanno vita. Sono conseguenze che investono direttamente il nostro esercizio professionale.
Anche il solo parlare di cultura “umanistica”, in contrapposizione alla cultura “scientifica”, costituisce (per lo meno) una improprietà, in quanto la scienza è un prodotto umano, fatto per risolvere problemi umani, frutto della medesima creatività di cui sono frutti la letteratura, la filosofia, la storia, l’arte, la matematica, la logica, la tecnica. Ciò che cambia dall’una modalità di esercizio della creatività umana all’altra è solo l’apparato di regole cui ottempera l’esercizio di tale facoltà umana. Il che rende del tutto privo di senso qualunque tentativo di gerarchizzare l’una modalità d’esercizio dall’altra.
Il problema si sposta sul piano dell’individuazione delle regole proprie dell’esercizio della creatività scientifica, che si differenziano dalle regole proprie dall’esercizio della stessa creatività sotto altre forme, per esempio quella letteraria, o quella filosofica, o quella tecnica.
Il che ci pone un altro ordine d’interrogativi, che può accompagnarci lungo tutto l’esercizio della nostra professione scolastica, indipendentemente dal grado di scuola e dalle materie insegnante; in che senso e fino a che punto questo o quell’insegnamento, questa o quell’area o disciplina, questa o quella modalità di esercizio della creatività umana, risponde alle regole proprie di ciò che può considerarsi rigorosamente “scientifico? E, di conseguenza, in che senso e a quali condizioni possiamo considerare pienamente “scientifico”, ad esempio, l’insegnamento della storia o degli studi sociali, l’insegnamento della storia della filosofia o della storia delle varie letterature, l’insegnamento delle materie classiche o l’insegnamento delle materie artistiche, l’insegnamento delle materie tecniche e, financo, gli stessi insegnamenti delle materie che si definirebbero “scientifiche” in assoluto?
E viceversa: quali sono gli insegnamenti che seguono delle altre modalità d’esercizio, cioè che rispondono a una diversa legalità metodologica, e che quindi seguendo queste modalità diverse possono correttamente relazionarsi con i saperi, le culture, gli insegnamenti e le discipline “altre” che possiamo dire a rigore “scientifiche”?
L’affermazione delle prerogative, culturali pedagogiche e didattiche di ciascun insegnamento va di pari passo, lo si comprende immediatamente, con l’affermazione dei relativi limiti. Solo una piena integrazione tra saperi, culture, modalità di ricerca, può realizzare un’educazione della persona che possa dirsi “integrale” con proprietà.
In questo modo, fra l’altro, non solo non si accorda alcuno spazio ad una qualsivoglia compartimentazione del sapere, ma si recupera l’integralità della persona nell’integralità della cultura.
Ciascuno di noi può, e forse deve, chiedersi fino a che punto, nella propria personale formazione, possa constatare come vi siano state delle potenzialità ben precise che sono rimaste tali e non hanno avuto che una parzialissima e inadeguata attuazione. Il che è come chiedersi quali essenziali componenti della cultura gli siano stati negati.
Uno sforzo in tal senso ci è richiesto proprio in relazione alla particolare contingenza nella quale stiamo vivendo ed operando, e alla considerazione dalla quale siamo partiti. La transizione epocale costituisce un impegno umano pesante, del quale portiamo le conseguenze prima di tutto dentro di noi: non abbiamo bisogno di consultare archivi, documenti, vestigia del passato per renderci conto di quale educazione abbiamo ricevuto e, quindi, di come l’educazione scolastica debba essere modificata in relazione all’evoluzione dei tempi, con particolare riguardo al pieno recupero di quegli aspetti della cultura che sono stati a lungo negati.
Dobbiamo farci carico noi del recupero di questa esperienza, e della correzione delle negatività che essa ha apportato a noi in primo luogo, ma che potrebbe apportare per nostro tramite anche i nostri allievi.
Impegniamoci in questo, riscoprendo ciò che di scientifico è stato negato a noi, perché non dobbiamo poi negarlo ai nostri allievi.
Lo possiamo e lo dobbiamo fare, caricando sulle nostre spalle un ulteriore peso non indifferente, proprio perché questo peso non vada a gravare sulle spalle più gracili e meno formate dei nostri allievi. Il peso della transizione che tutti viviamo non lo possiamo ridurre né trascurare: lo possiamo allocare in modo tale che sia portabile a buon esito da tutti.
GF Blezzza Sulla scienza e l’educazione scolastica – II L’attualità
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