di Franco Blezza, DSFPEQ, Università “G. d’Annunzio”, Chieti
I – Un sapere e una metodologia della ricerca
Riprendiamo in questo saggio una parte delle riflessioni che costituivano la parte sostanziale delle nostre ricerche negli anni ’80, prima della svolta in senso sociale e professionale. Tuttavia, le ricerche sulla scienza come conoscenza e come metodologia della ricerca ci hanno molto aiutato anche nelle ricerche successive.
C’è molta letteratura in materia, culminata con un volume ormai introvabile della fine di quel decennio , con una riflessione qualche anno dopo in altra opera di difficile reperibilità . Entrambe queste opere, peraltro, si sono attenute alla dominante scolastica che caratterizzava il Magistero del tempo dove eravamo ricercatori, sia pure senza limitarsi ad alcuni gradi di scuola e coinvolgendo in via essenziale le scuole superiori, e ovviamente allargando il discorso a materie d’insegnamento, che a quel tempo non erano ancora etichettate con la dizione riduttiva di “discipline”, non in linea con le tradizioni di quella particolare Facoltà sciolta oltre un quarto di secolo fa.
Parliamo di scienza “in senso stretto”
Come è ben noto, il termine “scienza” è ampiamente plurivoco e comprensivo, tanto negli ambienti accademici e di ricerca quanto nella scuola. Non capita solo che lo si impieghi semplicemente per indicare con una dizione accattivante un certo sapere o una certa cultura, per cui se ad esempio si vuole fondare un dipartimento di giuristi, di farmacisti o di filosofi, e l’elencazione potrebbe prolungarsi molto a lungo, la scelta più gettonata è parlare di “scienze giuridiche”, “scienze del farmaco / farmacologiche”, “scienze filosofiche”. Nella letteratura non è infrequente, anzi è d’impiego molto disinvolto e sciolto da regole, un parlare ad esempio di “scienze morali”, “scienze dello spirito”, “scienze teologiche”, “scienze esoteriche”, ad indicare campi di indagine lontanissimi quanto a proprietà e quanto a metodo da ciò che nel linguaggio comune si considererebbe l’attività professionale di uno scienziato.
Probabilmente, tutto un discorso andrebbe fatto sulla necessaria dipendenza dalla lingua tedesca, a vocazione filosofica incomparabilmente maggiore rispetto alla lingua italiana, la quale invece è immensa risorsa linguistica per la narrativa, la poesia, la musica e il canto, le arti figurative. Si traduce disinvoltamente Wissenschaft con “scienza”, non tenendo presente che il verbo Wissen indica il sapere, e il suffisso “schaft” la sostantivazione, un po’ come in inglese il suffisso “ship”. Tanto è vero che in tedesco si distinguono le Naturwissenschaften dal vario e composito ventaglio delle Human- Sozial- Geistes- Wirtschafts- wissenschaften. Non è certo un caso che Karl Popper abbia intitolato la versione originale della sua opera fondamentale Logik der Forschung , e che abbia introdotto l’aggettivo scientific solo a partire dall’edizione inglese del 1957, aggettivo che ritroviamo anche nell’edizione italiana .
Qui parleremo di scienza “in senso stretto”, e la precisazione si rende necessaria a causa di una certa disinvoltura con la quale si impiega quel termine, anche da parte degli specialisti della materia pedagogica, della materia didattica, della scuola, e che diverge dall’impiego rigoroso che del termine si fa sia in epistemologia, cioè tra i filosofi specialisti della materia e che spesso sono a loro volta anche scienziati, sia tra gli scienziati e tra quanti comunque hanno esperienza diretta ed immediata di come realmente si svolga la ricerca scientifica, sia anche nel linguaggio comune.
Può sembrare strano che il linguaggio comune da un lato, e il linguaggio accademico e maggiormente specialistico dall’altro, convergano in un’accezione dello stesso termine che invece è impropria tra specialisti di altri settori, in particolare di quelli che qui ci interessano più direttamente in questa sede. Nessuno chiamerebbe “scienziato” un abile avvocato principe del foro, oppure un grande filosofo; i dipartimenti di “scienze giuridiche” o di “scienze filosofiche” rifiuterebbero con orrore di essere inseriti tra i dipartimenti scientifici, come un tempo avveniva per le rispettive facoltà.
Nel linguaggio comune il termine “scienziato” viene attribuito in piena coerenza con ciò che nel mondo accademico si intende per “facoltà; poi dipartimenti, scientifici”, distinti di principio dalle entità accademiche che qualcuno chiama ancora adesso “umanistiche”, e che forse potremmo chiamare anche in altri modi. È assai difficile che qualcuno chiami “scienziato” un filosofo o un antropologo, un sociologo od un economista, un giurista od un pedagogista, anche se nel campo di sua competenza egli adopera anche la parola “scienza”; mentre chiunque chiamerebbe “scienziato” un biologo, un chimico, un matematico, un medico, un logico, un ecologo, un naturalista, un astronomo, anche se egli, invece, nel definire il campo delle sue competenze il termine “scienza” non lo impiega, non sentendone alcun bisogno.
Qualche equivoco nel linguaggio comune può riguardare, semmai, le discipline tecniche e i loro cultori, tecnici o tecnologi, ma questo nel linguaggio accademico e nelle filosofie relative non sussiste: la scienza e la tecnica costituiscono due domini di studio e due processualità essenzialmente differenti.
Un po’ di Storia della cultura nel Novecento italiano, quanto al rapporto tra Pedagogia e Scienza, ci aiuterebbe a capire questo apparente paradosso.
L’impiego assoluto del termine “scienza”
La specificazione “in senso stretto” è pleonastica: il termine in senso assoluto indica la scienza in senso stretto per il colto e l’inclita. Ad ogni modo, è essenziale comprendere appieno preliminarmente ciò di cui intendiamo parlare. Quando si impiega il termine “scienza” e derivati in assoluto, cioè senza alcuna specificazione ulteriore, ci si intende riferire precisamente a studi e ricerche di scienze della natura e di scienze formali (o scienze astratte: le scienze matematiche e le scienze logiche); ci si può riferire, con le dovute cautele ma in modo non improprio, anche a studi e ricerche in taluni settori di scienze sociali e della cultura, se ed in quanto tali ricerche vengono condotte, le procedure sono curate e i risultati ne vengono trattati, in modo coerente con i principi di fondo che regolano la ricerca scientifica e il trattamento delle risultanze relative nei settori predetti.
Non è l’oggetto che garantisce la scientificità di una ricerca, bensì il metodo: può essere scientifica una ricerca su un soggetto storico ovvero sociologico quanto una ricerca sull’energia o sui composti chimici; dipende da come viene concepita, condotta, e da come ne vengono trattai i risultati.
Il che non preclude che si possa impiegare il termine “scienza” con i suoi derivati anche in relazione a domini diversi, come possono essere i casi ad esempio delle locuzioni “scienze etiche”, “scienze del trascendente”, “scienze dello spirito”, “scienze dell’antichità” e via elencando. Questo è un impiegare il termine in un senso diverso e più lato, che diviene rigoroso se (e solo se) esso viene inserito in locuzioni aggettivate o diversamente articolate e specificate, ad esempio perifrasticamente. Il termine “scienza” in assoluto ha un significato profondamente differente, ed è in questo preciso significato che lo impieghiamo in questa sede.
Qualcuno la chiama anche “scienza in senso moderno”, ma avremo ben presto il modo di criticare direttamente anche questa dizione, in sé ingannevole oltre che impropria.
Una cultura scotomizzata, un’educazione negata
Queste considerazioni preliminari lasciano intuire un fondo di critica, ed anche di polemica, che anima la scelta del tema e il progetto per il suo svolgimento. Diciamo subito che se verranno avvertiti entrambi i caratteri, vale a dire sia quello critico che quello polemico, ciò incontrerà gli intendimenti di chi scrive ed è, anzi, da considerarsi benvenuto. Nelle nostre tradizioni novecentesche, Neoidealistiche ma non solo, si è scotomizzata la cultura minimizzando la scienza e d’altra parte confondendola con la tecnica: e non solo a scuola. In sostanza, un’educazione è stata negata, l’educazione scientifica e, per altri versi, quella tecnica.
Ciò che è da vedere è quanto essenziale sia la scienza, nel senso stretto di cui dianzi, come cultura e conoscenza e come metodologia della ricerca, perché lo studio sia rigoroso e profittevole, nel quale il “laboratorio dei laboratori” è, in ultima istanza, l’ambiente. La nostra scuola, ancora oggi a quasi un secolo dalla riforma Gentile, la scienza è negata agli allievi, agli insegnanti, alla società intera, per il fatto stesso di aver negato e di seguitare a negare il pieno accesso a tutti nei confronti della scienza, tanto come prodotti quanto come processi, tanto come cultura e conoscenza quanto come metodologia della ricerca.
L’ambiente come il laboratorio scientifico più generale
Perché la scienza sia quel componente che è necessario nell’educazione e nella cultura, una buona strategia consiste nel porsi l’ambiente come suo laboratorio. Un discorso al riguardo va scandito, per lo meno per ragioni espositive e in ordine logico, su tre piani:
a. il rapporto tra vivente e ambiente;
b. il rapporto tra vivente uomo e ambiente, inteso come ambiente naturale;
c. il rapporto tra vivente uomo e l’ambiente, inteso come ambiente culturale.
Non sono discorsi disgiunti: al contrario, sono discorsi tra loro fortemente interconnessi. Ma vanno distinti per ragioni espositive, ed anche per la trattazione del nostro tema e per come ne intendiamo, coerentemente, la metodologia. Anche perché, come ci sono delle analogie, ci sono delle differenze profonde.
a. Quando parliamo, in generale, del rapporto tra il vivente e l’ambiente, parliamo dell’essenza stessa della vita. La vita costituisce una realtà che è fenomenologicamente impossibile separare dall’ambiente. Qualunque vivente intrattiene con l’ambiente un insopprimibile scambio continuo di materia, di energia, di informazione: una interruzione anche di breve durata di un simile scambio, cioè una separazione tra vivente ed ambiente, equivale alla morte. È chiaro a tutti che quando parliamo di questo abbiamo la necessità di far ricorso a concettualità e a strumenti espressivi ed operativi tratti dalle materie scientifiche cosiddette “di base”, cioè dalla fisica, dalla chimica, dalle matematiche, a meno di ambiguità insanabili o di banalità di infimo livello.
Se dovessimo far ricorso, anche a questo stesso proposito, a concettualità di scienze complesse, come di scienze della vita, di scienze geografiche e dell’ambiente, di scienze mediche e via elencando, dovremmo comunque ricorrere a definizioni di ordine fisico, di ordine chimico, e con un impiego organico di un apparato matematico, senza di che ricadremmo senz’altro in formulazioni vaghe ed equivoche, poco fruibili se non sul piano della retorica, e per nulla fruibili sul piano della conoscenza e sul piano dell’educazione, anche a scuola.
b. Se poi parliamo di rapporto tra vivente uomo e ambiente naturale, tutto ciò conserva la sua importanza, in quanto il vivente uomo è innanzitutto e necessariamente un vivente, quindi ha bisogno dello scambio di cui sopra e da studiarsi come detto. In questo vi sono delle analogie ma, quando si passa dalle scienze di base ed analitiche alle scienze complesse e sintetiche, emergono anche delle differenze sostanziali., che non si comprendono senza cultura scientifica adeguata. Le scienze di base sono necessarie nell’educazione sanitaria o nell’educazione ecologica, ma non sufficienti.
Un ordine di differenze, di importanza intuibile, riguarda le vicissitudini del rapporto tra specie ed ambiente quando questo rapporto sia contrastato, anche a causa di mutamenti che intervengano nell’ambiente stesso. Si tratta di differenze che rimandano alla corrente teoria dell’evoluzione consegnataci da Charles Darwin nell’Ottocento: e non si raccomanda mai abbastanza di applicarla in modo corretto, in quanto le strumentalizzazioni per finalità estranee, ideologiche, sono state tante e molto gravi, e lo sono ancor oggi, come forse per nessuna altra teoria scientifica .
Tutti gli altri viventi debbono adattarsi, come specie, alle modificazioni dell’ambiente, e i casi sono due: o riescono a sopravvivere mediante gli eccezionali mutanti che presentino caratteri premiali rispetto quelle modificazioni, tali da consentir loro di raggiungere meglio le condizioni e l’età per la riproduzione, per cui quei caratteri tendono a fissarsi nelle generazioni successive di quella specie, evolutivamente; oppure si estinguono come specie. Invece, il vivente uomo è l’unico che può derogare da questa necessità, che è poi in sostanza l’evoluzione biologica, in quanto, è l’unico vivente capace di dar luogo ad un altro processo evolutivo, l’evoluzione culturale. In virtù d’essa, innanzitutto egli è in grado di far sopravvivere fino alla età della riproduzione e di consentire che si riproducano anche quegli individui della specie che sono meno adatti alla sopravvivenza nell’ambiente e nei suoi cambiamenti e che non presentino caratteri premiati; in secondo luogo, egli è in grado di modificare l’ambiente in termini a sé congrui, anche proteggendo i meno adatti.
Qui vediamo un ulteriore esempio di necessità inderogabile di cultura scientifica. Prima che qualcuno ipotizzi che quanto detto costituisca una posizione giustificazionista nei confronti di incongrui sovvertimenti cui l’uomo sottopone l’ambiente (buco dell’ozono, effetto serra, disboscamento, inquinamento dell’acqua dell’aria e del suolo, dissesto idro-geologico, saccheggio delle risorse non rinnovabili, …), precisiamo che si tratta di discorsi evoluzionistici i quali, come dovrebbe essere noto a chiunque possieda un minimo di cultura (senza aggettivi), vanno fatti solo e necessariamente in termini di specie e mai in termini di singoli individui o di singole partizioni della specie, compresa la specie umana. Quindi, se parliamo di evoluzione (biologica e culturale) con riferimento all’uomo, lo facciamo con riguardo al genere umano nel suo complesso: è il caso del passaggio (preistorico) dall’economia di caccia e di raccolta all’economia di agricoltura e di allevamento del bestiame, che comportò una profonda ed essenziale modificazione dell’ambiente da parte dell’uomo, ma che d’altra parte consentì, anche solo nella primissima fase, la sopravvivenza di un numero d’individui della specie enormemente più elevato. Questa maggiore possibilità di sopravvivenza si può stimare di un fattore dell’ordine di mille o diecimila. Molto di più, ovviamente, se parliamo di agricoltura e di allevamento del bestiame successivamente evolutisi con ritmi ed efficacie assolutamente eccezionali nei secoli più vicini a noi.
Ciò non legittima qualunque modificazione dell’ambiente da parte di alcune partizioni della specie umana: al contrario, un approccio rigorosamente scientifico, e solo questo, può permettere di distinguere quali modificazioni dell’ambiente siano legittime, in quanto umanamente congrue, e quali no.
Come si vede già nei primissimi passaggi, senza definizioni rigorose e competenze precise in campo scientifico si rischiano insuperabili inciampi, ovvero gravi inganni nei confronti degli interlocutori, a cominciare dai nostri allievi fin dalle età più tenere.
c. Al terzo livello, in ordine logico ed espositivo, abbiamo il rapporto tra il vivente uomo e l’ambiente culturale: si tratta del più importante in assoluto, e lo è con maggiore evidenza in una sede, come questa rivista, nella quale si parli di educazione, di scienze umane, di umanità.
Anche qui, non meno che nei due livelli precedenti, sono necessari strumenti concettuali mutuati dalla scienza in senso stretto. e in particolare dalle “scienze di base”. Ma non ci si riferisce solo ai prodotti delle scienze di base, che si applicano al vivente uomo in quanto vivente, ma la cui eventuale trasferibilità alle scienze della cultura umana andrebbe discussa, valutata e, se del caso, dimostrata. Le scienze di base e le scienze naturali complesse hanno un loro oggetto definito, che non è lo ἔθος umano. Un eventuale impiego dei prodotti delle prime sul secondo va innanzitutto dimostrato nella sua legittimità e nel merito. Ad esempio, molto parlare di “darwinismo sociale” è stato fatto presupponendo che la teoria dell’evoluzione biologica di Darwin sia direttamente trasferibile al culturale senza la minima mediazione; ed invece non c’è uno straccio di dimostrazione di tale possibilità, e ci sono innumerevoli motivi contrari.
Fra l’altro, questi prodotti della ricerca scientifica, in quanto tali, sono storicizzati, e quindi provvisori, contestuali, fallibili, precari, come per la scienza e perfettamente fisiologico ed è storicamente sempre avvenuto. Ci si riferisce bensì alle processualità delle scienze di base e della relativa ricerca: innanzitutto, alle condizioni di rigore scientifico che caratterizzano le scienze di base, alla imprescindibilità che i concetti trattati siano trasferibili intersoggettivamente, cioè da un soggetto-persona umana all’altro, conservando il medesimo senso e il medesimo significato.
Ma di scienza abbiamo anche un altro bisogno, che diremmo più essenziale: la necessità di una rigorosa metodologia della ricerca scientifica, per quanto essa ci può dare anche nel campo della cultura umana, nel campo della sociologia, nel campo della pedagogia, nel campo della storia, nel campo della antropologia, nel campo della geografia antropica, e negli innumerevoli altri campi di scienze umane e sociali che siano scienze in senso stretto, che potremmo evocare a proposito.
La metodologia della ricerca scientifica, senza altri aggettivi
È proprio questo che manca, anche nella nostra scuola: una sana e rigorosa metodologia scientifica “senza ulteriori specificazioni”, che sia applicabile all’insegnamento e allo studio della storia, della geografia, della società, della cultura, della storia della letteratura, della storia della filosofia, della storia dell’arte, anche ammesso che questa metodologia trovi applicazione nell’insegnamento e nello studio della chimica, della fisica, delle scienze biologiche, delle scienze matematiche, delle scienze della terra, delle scienze dell’universo, delle scienze logiche. Non è infatti detto che un insegnamento di soggetto scientifico sia a sua volta rispondente alle regole metodologiche della scienza, e suscettibile di effettiva educazione scientifica negli allievi.
La necessità di metodologia scientifica, con tutte le implicazioni di rigore, di trasferibilità intersoggettiva, di controllabilità, di coerenza, è generale. Da ciò una carenza di fondo ben precisa della nostra scuola, che non è una carenza di oggi e non è una carenza casuale. Questa è una necessità culturale di fondo, che certamente non sfugge alla sensibilità dei nostri lettori, e non necessita di ulteriori illustrazioni.
Ciò che, invece, richiede un approfondimento specifico preciso è che cosa vada inteso per “scienza”, e di conseguenza (ma soprattutto) che cosa ci sia stato effettivamente negato a scuola come anche nella vita quotidiana. Un simile problema si evidenzia bene in coloro che, pur dicendosi persone di cultura, e magari dichiarandosi intellettuali e dotti, confessano tra il serio e il faceto di non aver mai capito nulla di matematica, ovvero di fisica, ovvero di altre scienze di base in senso stretto. Come si concili questa dichiarata ignoranza, con la pretesa di questi soggetti di dichiararsi anche solo persone di cultura. È un problema che riguarda loro. Semmai, ciò che dovremmo capire oggi e che costituisce per noi un problema è perché ancora oggi si incontrino tante difficoltà a recepire queste esigenze, per loro stesse evidenti, nella nostra scuola.
Quelle persone, sedicenti di cultura, dovrebbero astenersi dal parlare di educazione e di scuola in generale; e, se si azzardano a giudicare “supra crepidam”, non andrebbero seguiti. Per fare questo, per poter maturare un atteggiamento costruttivo nei confronti della scienza, dobbiamo vedere la scienza per come essa realmente è, soprattutto per come essa si è realmente svolta negli ultimi secoli; non, cioè, per come essa ci è stata presentata, proposta o propinata, per decenni ed ancora oggi, secondo schemi e teorie interpretative essenzialmente filosofiche, le quali si rifanno a idee di un passato lontano che non sarebbe riproponibile oggi, e che pure non vengono fatte oggetto di quella contestualizzazione storica che sarebbe doverosa e imprescindibile.
Periodizzazioni storiche
Stiamo vivendo un periodo di transizione, grosso modo da alcuni decenni. Questa è una constatazione che potremmo compiere tutti senza eccessive difficoltà e senza divergenze .
Una delle evidenze “dotte” di questa transizione sta nel successo che ha avuto il neologismo coniato negli anni ’70 da Jean-François Lyotard, cioè del termine “postmoderno”. Per gli specialisti di scienze della cultura, tale successo è stato alquanto debole ed effimero, tanto che oggi si tende a non impiegarlo; qualche successo lo ebbe nei contesti per i quali era stato coniato vale a dire nella critica d’arte, nelle arti figurative, nell’architettura. Si è trattato, comunque, di un successo di durata relativamente breve. L’aggettivo e la sua sostantivazione sono invece rimasti nell’uso comune, molto opportunamente, proprio per la sua adeguatezza a marcare una transizione, pur nella piena inadeguatezza a descriverla.
Che il neologismo “postmoderno” segnalasse una esigenza, ci può andare benissimo; ma come questa esigenza sia stata da esso soddisfatta, no.
In realtà, il successo di quel neologismo si dovette più al prefisso “post” che non all’aggettivo “moderno” cui il prefisso si applicava. La particella indicava chiaramente che un’epoca, o un evo, era in corso di superamento. Il termine nel suo complesso era tuttavia inadatto a precisare quale epoca od evo fosse effettivamente in via di superamento.
Che significa “moderno”, propriamente?
È proprio vero che in questi ultimi decenni siamo usciti dal “moderno”?
Per quello che qui ci interessa più direttamente: abbiamo superato negli ultimi decenni quella scienza che si direbbe rigorosamente “scienza moderna”?
È andata in crisi la conoscenza scientifica che potremmo aggettivare in quel modo, con proprietà e rigore, con tutti i suoi portati di metodologia e di cultura generale?
Le domande sono precise, e altrettanto precise possono e debbono essere le risposte.
Queste risposte sono tutte negative, senza alcuna riserva.
Lì sta l’esigenza rimasta disattesa. Ed è proprio da lì che bisogna ripartire. L’evo storicamente detto “moderno” è durato circa tre secoli dopo il medio evo, ed è andato incontro ad una transizione caratterizzata dai Lumi e dalle rivoluzioni borghesi; questo basterebbe, per noi “moderno” è termine tecnico che non può confondersi con i suoi significati nel linguaggio comune (attuale, oppure alla moda). Già questo basterebbe: ma c’è stata una scienza moderna propriamente detta che è crollata ed è stata avvicendata da oltre un secolo.
Per la cultura dei lettori, simili concettualità non si prestano certo ad equivoci .
Potremmo discutere a lungo su quando sia iniziato e su quando sia terminato l’evo “moderno”: anche perché le letture dell’evo moderno possono essere legittimamente diverse, ed altresì perché tutte le transizioni epocali richiedono un certo lasso di tempo e presentano delle difformità da un territorio all’altro. Fissare delle “date di svolta” è sempre un atto arbitrario, che fa perdere più di quanto non faccia guadagnare. Ciò non toglie che nessuno possa cadere nell’equivoco secondo il quale nei decenni che vanno grosso modo dagli anni ’50-’60 agli anni ’80 ’90 del secolo scorso, decenni appunto di transizione, sia terminato l’evo moderno propriamente detto.
L’epoca moderna, comunque la si intenda, è terminata grosso modo nella seconda metà del XVIII secolo, in particolare sotto la spinta delle rivoluzioni propriamente dette “borghesi”: la rivoluzione industriale, la rivoluzione americana, la rivoluzione francese, e la successiva diffusioni dei principi dell’Illuminismo in Occidente, specie ad opera di Napoleone.
L’educazione otto-novecentesca secondo il Bürgergeist
Fu in seguito a quelle rivoluzioni che si affermò un certo spirito borghese (Bürgergeist) il quale ebbe pesanti ed essenziali ricadute proprio in campo pedagogico, e la cui egemonia rimase indiscussa fino ai decenni testé richiamati della transizione di fine ’900. Potremmo osservare che quello stesso spirito borghese aveva avuto dei significativi precorrimenti ad esempio in Inghilterra alla fine del ’600, e qualche cosa di interessante sul piano delle forme politiche si potrebbe trovare in Islanda. Ciò non toglie che il vero e proprio “post moderno” si è avuto secoli fa, e non in decenni a noi vicini.
Questo “spirito borghese” era antagonista ed alternativo esclusivo proprio rispetto allo “spirito moderno” e ai rispettivi valori. Si pensi a che cosa fosse lo stato propriamente detto “moderno”, cioè assoluto: lo stato nel quale il sovrano assoluto esercitava il potere in alleanza con la borghesia avvicendando con i propri funzionari tratti da questo ceto i nobili che avevano invece detenuto il potere nell’evo precedente, nello stato propriamente detto “medievale”, cioè feudale. Lo stato che si è affermato negli ultimi due secoli lo si può chiamare in tanti modi e ha avuto molte concretizzazioni diverse; ma certo non lo si può chiamare “moderno” nel senso di cui sopra, cioè nel senso storiografico rigoroso, nell’unico senso possibile nel nostro dominio culturale.
Fra l’altro, quell’alleanza è durata solo alcuni secoli: fino a quando i borghesi, ormai in possesso di tutti i gangli del potere pubblico, non hanno preso atto che potevano fare da soli, impadronirsi di tutto il potere, detronizzare o decollare il sovrano assoluto, e semmai darsi in seguito un sovrano costituzionale sotto forma di bandiera od emblema della nuova realtà statuale.
I sistemi politici e le forme statuali non sono oggetto di questo saggio, per lo meno non direttamente. Ma questi brevi cenni concorrono ad aiutarci a capire che non l’evo “moderno” è terminato qualche decennio fa, bensì l’evo a sua volta succedutosi all’evo moderno propriamente detto. Ci potremmo quindi porre oggi il problema di una nuova nomenclatura, ad indicare una transizione successiva rispetto ad un evo che potremmo chiamare propriamente “postmoderno”: un evo assai breve, che è durato due secoli scarsi. Ma si capisce che non è terminologico il nostro problema principale.
Dal punto di vista della cultura scientifica, il discorso lessicale è doveroso, e per certi aspetti e fin più semplice. Per lo meno, e più semplice quando si delineano le idee generali, anche se esso diventa più complesso quando si deve scendere in esemplificazioni le quali richiedono un minimo di cultura scientifica per essere colte in tutti i loro dettagli.
Che cosa intendiamo per “scienza moderna”
Innanzitutto, com’è chiaro, con l’aggettivo “moderna” noi designiamo non la scienza “di oggi”, corrente, attuale, pur se nel linguaggio comune l’aggettivo “moderno” si può anche impiegare in questa accezione impropria. Nel campo storiografico generale sarebbe scorretto; nel campo della storiografia della scienza e della metodologia della scienza lo è ancora di più, in quanto è fuorviante. E così nel campo pedagogico e didattico a più forte ragione.
La scienza che potremmo dire propriamente “moderna” si è formata nella cultura europea occidentale tra il ’600 e il ’700, anche qui con qualche precedente. Come personaggi emblematici potremmo indicare, ad esempio, William Gilbert (1544-1603) o Galileo Galilei (1564-1662); ma come conquiste e soprattutto come teorie scientifiche dovremmo andare ad Isaac Newton (1643-1727) per la fisica, a Gottfierd W. Leibniz (1646-1716) per la matematica, ad Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) o a John Dalton (1766-1844) per la chimica, o a Linneo (Carl von Linné, 1707-1778) per il naturalismo. Grossi personaggi, non solo della scienza, che hanno dato luogo ad un corpus di teorie scientifiche, con un apparato di regole, di lessico, di procedure, di strumenti e quant’altro, che agli inizi dell’Ottocento poteva essere considerato talmente saldo da potersi prendere come se fosse definitivo.
Ai primi del secolo XIX, insomma, c’era chi riteneva che rispetto al complesso delle conoscenze scientifiche “moderne” allora consolidate non ci fosse più granché da scoprire come leggi e teorie generali: tutto si riducesse a quella che Thomas S. Kuhn (1922-1996) ha chiamato in tempi recenti “scienza normale”, cioè “una ricerca stabilmente fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore. Oggi tali punti fermi sono elencati, seppure raramente nella loro forma originale, dai manuali scientifici […]”. In pratica, ciò significava rendere più rigorose le nostre misurazioni e sistemare i conti, determinare “una cifra significativa in più” nell’ambito di conoscenze già consolidate che nessuno trovava seri motivi per mettere in discussione nei fondamenti e nelle travi portanti.
Sulla base di simili convincimenti, e di una realtà stagnante della ricerca scientifica come quella, qualcuno è fin arrivato a cadere nel tranello di credere che si potesse costruire su questa scienza una teorizzazione filosofica, od anche pedagogica, come fu il positivismo. Questo lo possiamo capire proprio con il dovuto senso della contestualizzazione storica. Lo si capisce, ovviamente, e non lo si condivide né lo si giustifica, e neppure lo si propone come esempio da seguire in assoluto ed in particolare oggi: quella era una scienza bloccata, negata al proprio intrinseco carattere procedurale senza del quale non è neppure legittimo parlare di scienza in assoluto e in senso proprio.
La scienza, in quanto tale, è una procedura conoscitiva in continuo ed inarrestabile divenire: questo lo sa bene chiunque abbia conoscenza diretta della ricerca scientifica. Può non capirlo chi, non avendo una siffatta conoscenza diretta, parli della scienza con una competenza inadeguata in quanto maturata attraverso canali di comunicazione e di formazione indiretti: in particolare, chi parli della scienza conoscendo solo ciò che della scienza hanno scritto taluni filosofi.
Basterebbe osservare che la scienza propriamente detta “moderna” si è avvicendata ad una scienza preesistente. Gli storici della scienza hanno ben documentato come la scienza non sia nata nel ’600-’700, ma abbia seguito più e più fasi sia nell’antichità che nel medio evo, che qui non percorriamo per ragioni di economia del discorso, ma che dobbiamo segnalare nella loro esistenza, anche per relativizzare storicamente la stessa scienza “moderna” propriamente detta, come andrebbe fatto di qualunque fenomeno scientifico e di qualunque fenomeno storico.
La scienza non è nata con Galileo e con Newton. “Scienza” in senso pieno erano ad esempio la matematica, la geometria e l’astronomia dei Greci, la fisica di Archimede (287-212 a.C.), la medicina di Ippocrate (450-365 a.C.) e Galeno (129-200 d.C.), il naturalismo di Aristotele (384-322 a.C.) e dei suoi allievi. Grande è stata la medicina medievale, largamente erboristica e non invasiva, sviluppata in particolare nei conventi, specie dai Benedettini; grande è stata la chirurgia e l’anatomia, in particolare della scuola padovana verso la fine del medio evo. Grande scienziato, oltre che grande tecnologo, è stato Leonardo da Vinci (1452-1519) che, come l’astronomo Copernico (Nikolaj Kopernik, 1473-1542) è nato e vissuto nel medio evo, o appena agli inizi dell’evo moderno, e comunque ben prima di Galileo. Sono esempi di grande importanza e di grande rilevanza, portati ovviamente alla rinfusa, ma dei quali riteniamo che difficilmente potrebbe fare a meno il docente che volesse dare all’allievo, a qualunque livello di scolarità e di età, un’idea realistica della scienza e del suo procedere, e cioè l’idea di una storia più che bi-millenaria, e non certo riducibile a qualche secolo .