di Franco Blezza |
Presso Gentile, autore della riforma del ’23, come del resto presso Croce che ne aveva curato un grosso lavoro preparatorio tra il ’20 ed il ’21, ed in genere presso la destra hegeliana italiana, una simile carenza di fondo rispondeva in modo molto chiaro, e dichiarato esplicitamente, ad un progetto politico e ad idee filosofiche (o meglio, ad ideologie) che avevano i caratteri dell’oppressione culturale, della non democraticità, dell’asservimento dell’uomo, dell’impedimento all’evoluzione. Con coerenza ed efficacia notevoli e degne di miglior causa, si perseguiva tale progetto ideologico mediante una scuola che educasse essenzialmente all’omologazione supina ed acritica a regole aprioristicamente prefissate, e a non operare una riflessione scientifica, razionale e critica sulla realtà. Il che si ritrovava, appunto, negli insegnamenti linguistici (L1 ed Ln, chiamate “lingua italiana” e “lingue straniere”, ed altresì nel latino e nel greco antico) riferiti ad un modello linguistico rigido ed indiscutibile detto “letterario” (in realtà arbitrario se non artificioso, riferito ad un segmento ristrettissimo della letteratura, intesa solo come narrativa e poesia e fotografata ad un periodo e ad un ambiente scelti), e nell’insegnamento matematico inteso ben diversamente da come lo si intenderebbe oggi, non cioè come soluzione di problemi con ricorso alla creatività bensì come ripetizione ed applicazione di regole e procedure prefissate. Si ritrovava nelle scienze umane, come la storia umana, l’educazione civica, la storia della filosofia, la storia dell’arte e della letteratura (nel senso ristretto cui s’è accennato) che non dovevano essere considerate né insegnate né analizzate come scienze. Ovviamente, le scienze della natura erano emarginate con tendenza all’annichilazione, come poteva avvenire anche appiattendole sulle materie tecniche, e sottraendo loro settori importanti come ad esempio la geografia. Mentre le materie tecniche, private come le scienze della natura di ogni valenza culturale, educativa, teoretica e formativa, erano ridotte a puri e semplici strumenti finalizzati ad eventuali professionalizzazioni.
Oggi, dovrebbe bastare questo ordine di considerazioni ad indurre, se non proprio ad imporre, una critica essenziale a tale impostazione generale della scuola che vada alle radici, e consenta di comprendere come istanze così coerenti con la dittatura fascista, o con altra forma di concezione politica anti-democratica, siano potute essere riproposte e perpetuate per decenni nel dopoguerra, ed ancora lo siano oggi.
Popper e il Razionalismo Critico novecentesco hanno avuto tra i loro meriti quello di evidenziare la profonda ed essenziale analogia metodologica tra una logica della ricerca scientifica realistica ed attuale, la visione politica di una società “aperta” e pienamente democratica, e un’educazione antropologicamente aperta ed evolutiva. D’altra parte, si tratta di idee e principi tutti già chiaramente presenti un paio di generazioni prima presso i fondatori del Pragmatismo classico, poi ripresi dagli epigoni novecenteschi di questa corrente di pensiero, negli ultimi decenni sotto la forma di un vero e proprio Neopragmatismo tanto filosofico quanto pedagogico (Hilary Putnam, Richard Rorty).
Quando ciò non bastasse, soccorre un dato di fatto che viene troppo spesso sottovalutato, o ignorato del tutto, più o meno scientemente. È noto a chiunque abbia anche una minima esperienza di scuola che gli allievi in tutti i gradi d’istruzione pre-universitaria di oggi, e da tempo, tendono a rifiutare con disinteresse e con noia lo sviluppo di qualsiasi abilità formale ed espressiva, se ciò non avviene nel contesto della trasmissione di contenuti che siano per loro significativi: proprio di quei contenuti, vale a dire, che potrebbero essere trovati egregiamente nelle scienze umane, nelle scienze della natura, nella materia tecnica, ed in altri campi analoghi.
Osserveremmo al riguardo che va considerato in tutta la sua positività il dato che ci siano i nostri allievi a richiamarci ad una evoluzione in tal senso della scuola e della didattica, che costituisce un necessario adeguamento agli sviluppi della cultura e della società democratica attuali. Ben lungi dal colpevolizzarli, dovremmo prenderne lo spunto per capire meglio noi stessi e quello che ci è richiesto dalla società e dalla cultura d’oggi, anche per uscire dalla crisi di ruolo e d’identità che ci affligge per l’unica via esistente, quella in avanti.
Ed invece, ciò cui ancor oggi si assiste è uno sviluppo delle materie espressive e formali, prevalenti o suvvalenti che siano, in tutto od in buona parte come cortocircuitandole su loro stesse.
È il caso delle varie materie linguistiche sviluppate sulle rispettive letterature (più o meno prese a “modello” nel senso detto), ovvero sulla curiosa “civilizzazione” di un solo paese nel quale la lingua è parlata. A volte si integra con qualche brano giornalistico: ma non c’è mai l’attenzione a che questo sviluppo linguistico avvenga sui contenuti scientifici o tecnici.
È anche il caso delle scienze matematiche sviluppate su problemi ed esercizi tratti dall’interno delle stesse scienze matematiche (applicazioni dell’aritmetica o dell’algebra alla geometria, ad esempio, o a problemi costruiti ad hoc).
Ed è altresì il caso dell’espressione musicale, o di quella figurativa, sviluppate con attenzione forte alle loro realizzazioni storicamente più rilevanti. O dell’espressione corporea riferita in modo prevalente se non esclusivo allo sviluppo della corporeità stessa.
A questo punto, due ordini di riequilibrio s’impongono a chi abbia preso coscienza della necessità di riportare la scuola italiana su quei binari di democraticità dai quali è stata deviata nel ’23, e dai quali da talune correnti non si è mai smesso di lavorare perché rimanesse lontana.
- Uno riguarda la ripartizione equilibrata di risorse umane, temporali, materiali e professionali tra i diversi domini nei quali si può suddividere la cultura umana, l’esercizio della creatività dell’uomo: appunto le materie espressive e formali, le scienze dell’uomo (che potrebbero comprendere, con la storia umana e con la storia del pensiero umano in tutte le sue concretizzazioni, scienza e tecnica comprese, anche la storia delle letterature e le varie “civilizzazioni”) se ed in quanto esse vengono trattate come scienze in senso stretto, le scienze della natura (restituite alla loro integralità, cioè comprese la geografia e le materie a base sanitaria o comunque riferite all’organismo umano, e alla loro dimensione teoretica e cognitiva) e la materia tecnica (restituita anch’essa alla dimensione teoretica e cognitiva, che è diversa da quella delle scienze).
- L’altro riguarda il superamento dell’attuale perseveranza a puntare quasi tutto sull’espressione linguistica (1a, 2a, 3a e fin 4a lingua …) rispetto alle altre (appunto musicale, figurativa, logico-matematica, corporea, manuale-pratico – operativa, informatica, …).
Per esplicitare meglio, ora, la proposta che è implicita ma già chiaramente leggibile nelle osservazioni precedenti, dobbiamo distinguere il discorso de iure condendo da quello de iure condito. Vanno fatti entrambi e contestualmente, ma non confusi.
Parlando de iure condendo, è il momento di inserire nelle proposte di riforma, di sperimentazione, e nei progetti in tal senso il principio del riequilibrio totale, almeno tendenziale, nel senso anzidetto: vale a dire, tra le materie espressive e formali, tradizionalmente privilegiate, e le scienze umane (restituite al loro ruolo culturale ed educativo di scienze), le scienze della natura (restituite alla loro dimensione teoretica e cognitiva e, quindi, anche educativa) e la materia tecnica (anch’essa restituita alle proprie valenze teoretiche e educative che sono differenti e specifiche).
Del resto, lo ius condendum non è solo un esercizio teorico ed astratto. Prima che si imponesse, in parte, l’attuale pesantissima inerzia, i programmi e altri elementi importanti della scuola cambiavano ogni 10 – 15 anni: basta un po’ di storia della scuola per rendersene conto. In questo senso, c’è stata a lungo eccessiva inerzia nel quasi mezzo secolo di “prima repubblica”, soprattutto per quel che riguarda la scuola superiore; e c’è stata una linea realistica frenesia di avvicendamento di riforme mai attuate e quindi mai controllabili nelle rispettive conseguenze durante tutta la “seconda repubblica”.
Se, insomma, fino a circa vent’anni fa si era portati a considerare lo ius conditum come una sorta di ius immobile et immutabile, il concetto si è fatto sostanzialmente inafferrabile negli ultimi vent’anni.
Ad ogni modo, parlando de iure condito checché ciò significhi, deve essere innanzitutto chiaro che si opera in un contesto normativo che rimane in controtendenza rispetto alle linee evolutive della cultura, dell’educazione, della società odierna.
In tale situazione critica, una possibile soluzione consiste nel valorizzare appieno il carattere di trasversalità intrinseca delle materie che persistono ad essere privilegiate nonostante tutto: si tratta di non farne uno Slogan valido a mantenere una scuola fuori della realtà attuale per ragioni di interesse privato, bensì una via di valorizzazione ed, insieme, di funzionalità al progresso della società e della cultura odierna.
In effetti, fare un’ora di chimica o di storia o di elettrotecnica (ad esempio) significa in qualsiasi grado di scuola fare già un’ora di italiano in senso pieno (esattamente come se si parlasse di letteratura e, probabilmente, anche con maggiore efficacia educativa); e potrebbe significare aver fatto anche una buona mezz’ora o più di scienze matematiche, di espressione iconica, di manualità pratica, d’informatica e così via.
Questo potrebbe aiutare molto lo ius condendum, corredandolo di quelle idee di base nuove delle quali si sente un grande bisogno; ma ha un’applicabilità immediata anche allo ius conditum, basta che non si pretenda d’inchiodare i contenuti alle forme, ma al contrario si cerchi di adeguare il dispiegamento delle seconde alle priorità educative e culturali dei primi.
All’atto pratico, ciò significa che gli insegnanti che si vedono invariabilmente assegnare spazi, risorse ed orari largamente prevalenti si sentano impegnati, anche per ragioni strettamente didattiche e di interessamento dei loro allievi, a sviluppare le loro materie nel contesto della veicolazione di contenuti significativi per gli allievi stessi, a cominciare proprio da quelli che possono (e, forse, debbono) essere ricercati nelle scienze della natura, nelle scienze dell’uomo, nella materia tecnica ed in domini consimili.
Ciò significa, inoltre, che essi cercheranno altresì quei nessi che vi sono tra le modalità espressive da loro sviluppate e le altre, meno o per niente considerate in ciascun ordine e grado di scuola.
Ad essi dovranno corrispondere analoghe ristrutturazioni nei fondamenti delle materie di competenza degli altri insegnanti, come sarebbero un’organica scientificità senza residui nelle materie antropologiche, ed un rifiuto della confusione tra scienza e tecnica; ed il riconducimento di tutte a dimensioni culturali ed educative ad ampio spettro, con il rifiuto di qualsiasi strumentalità malintesa.
Non si tratta di scomodare parole spesso abusate, come ad esempio “interdisciplinarità”: tanto più che molta letteratura del settore e gran parte dell’espressione ministeriale equivoca fortemente da decenni proprio sul concetto di “disciplina”. Si tratta, semmai, di prender atto di ciò che è possibile fare da parte di ciascun insegnante, immediatamente e senza un impegno notevole se non nel superare pregiudizi e schematismi latenti quanto disumani.
All’atto pratico (e, forse, non a quello psicologico), sono piccoli passi per l’insegnante, ma dall’enorme dispiegamento di conseguenze per i suoi allievi proiettati nella società del domani.
GF SAGGI BLEZZA Scelte educative e culturali a scuola e rapporto forma-contenuti (2)
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