di Clementina Gily
Le immagini non sono una scienza esatta ma un invito a camminare. Non tentano di conseguire la verità, non si cerca la copia nei capolavori. Il colpo d’occhio punta su qualcosa e ne discute con chi passa e commenta – nel disegno come nella fotografia e nel cinema. Dipinti classici ed astratti, statue, design e musica – si vogliono far riguardare, cercano di fermare l’attenzione con una dissonanza che invita a riflettere: sono solo una lettura ipotetica, che cerca di condividere un punto di vista.
Perciò per imparare a leggerle bisogna camminare molto e spesso in circolo: è quel che induce a fare Salvatore Forte con le passeggiate napoletane – allestite in augmented reality per chi voglia praticarle in città, come per chi voglia cogliere le app fotografate nel testo. Nell’introduzione di Il Rinascimento napoletano e la tradizione egizia segreta, IVI 2015, l’autore spiega questo intento di turismo di classe, realizzato con appuntamenti frequenti in città, col sostegno però di questo breve libro che trae la sua continuità dal tessuto urbano, un campo limitato per poter evitare gli elenchi informativi per andare ad una narrazione.
E non è solo un giro turistico, perché l’autore, interessato allo studio delle pietre della città in prospettiva esoterica, ha costruito una metastoria esoterica, che quando legge un monumento non cerca i nomi degli artigiani ma del fine della costruzione, del senso per cui si dedica un tempio al Sole o a Cristo, e si impegna a trovare le risposte. La curiosità è quindi il pepe della storia, quel che la rende gustosa e frizzante – senza perdere però l’occasione di parlare di Giordano Bruno e di Giovanni Pontano senza voler dire tutto e troppo. Quel che basta per invitare anche chi non sia uno specialista a leggere ed approfondire.
Le città come Napoli, di storia più che bimillenaria, nascono da un progetto si cui si accumulano tanti altri progetti, a volte in senso proprio fisico – come dimostrano i lavori delle metropolitane. Strati su strati caratterizzano la crescita nella storia, ne segnalano i cambiamenti. Forte in un giro di qualche ora che ruota con molte fermate intorno ad un piccolo quadrato di strade, ripercorre una storia che va dagli Egizi al Rinascimento – quando quella parte della città ha finito col rimaneggiare, ma rimanere sostanzialmente simile – tanto da essere patrimonio dell’Unesco come centro antico conservato com’era e ancora abitato con normalità di commerci e costumi, un esempio unico. Come Pompei ed Ercolano, il centro storico dei Decumani è infatti invasa dal flusso turistico in modo sempre crescente, grazie al superamento dei problemi creati dalla cattiva politica. La torta fatta di strati porta la difficoltà di distinguere le epoche, le storie, e così passiamo diritto davanti a tutte le meraviglie, notando appena la differenza: corriamo tutti senza avere il tempo di vivere. Anche da turisti, spesso, disprezzando quella grande fonte di formazione equilibrata che è il territorio.
Ricostruire la rete anche oltre i decumani è il fine di una città dell’arte. I frammenti possono essere tutti veri e costruire messi insieme male una storia falsa: perciò bisogna costruire ipotesi, la metastoria esoterica ad esempio, cercare i fili e annodare solo quelli, rimandando ad altra occasione l’allacciamento dell’altro filo: il che si fece tempo fa con le mappe storiche della città, che avevano solo l’elenco; per ricostruire la storia, le guide, veri mattoni, utili per camminare, impossibili da leggere. Nel senso che quando si danno informazioni non connesse, non entrano nella memoria. Invece il libro parla solo di alcuni argomenti, anche fuori del giro come la Cappella Sansevero, ma in questi racconta una storia ricca di punti di vista e di domande, di ricostruzioni. Come anche la metastoria dello storicismo, che si differenzia per la delimitazione del campo e l’assetto di ricerca specializzato, vale a dire non finalizzato all’audience ma al giudizio storico, le ipotesi sono la base per iniziare a ricercare i punti d’appoggio giusti che diano coerenza ad una serie di tracce, per poi corroborare la fantasia con elementi che l’attestano. Anche il processo scientifico procede così, disse Popper – e oggi tutti concordano.
In una storia della città, le ‘tracce’ e le ‘prove’ sono i monumenti e le piante stradali, i costrutti storici ed i romanzi, tra mito e storia. Neapolis era solo la città nuova che si addentrava nelle colline a declivio sul mare, iniziando dalle più prossime, l’Acropoli, nella zona sopra Piazza Cavour dove c’è il Policlinico, la zona dei decumani culminante in Piazza San Gaetano, l’antico Foro. Qua nuova si differenziava dalla vecchia, che si affacciava sul mare, a Pizzofalcone dove c’è da tempo la sede della scuola Militare La Nunziatella, di fronte al Castel dell’Ovo, allora isola, punto d’approdo dei Greci di Ischia, che si erano diretti prima a Cuma.
C’era nelle zone una popolazione autoctona, o almeno precedente, i favolosi Cimmeri, giganti abitatori del sottosuolo, presenza tramandata da Strabone a Pontano. Essi ben poco hanno lasciato sul territorio, perché, conoscendolo, preferivano abitarne le grotte dovute alla natura vulcanica del suolo, in cui c’era anche una buona climatizzazione. Nella terra ricca di doni naturali, riuscirono così a convivere prima di integrarsi, approntando però diverse porte di collegamento, la più nota è quella della zona chiamata a Cimmino, dal nome Cimmeri, un nome diventato poi cognome molto diffuso in città; si trova vicino a Sant’Agostino alla Zecca.
A Napoli i Cavalieri del Nodo tenevano riunione a Pentecoste con Arnaldo Da Villanova (1240-1313), attesta la fotografia di una tomba-monumento: ciò fa pensare ad un collegamento alla storia dei Templari, perché quando il 5 giugno del 1294 vi giungeva Pietro da Morrone vi era condotto dagli Angioini. Era diventato Papa Celestino V dopo una vacanza del papato di 27 mesi per il contrasto tra i cardinali: s’era così scelto un santo eremita della Basilica di Collemaggio vicino L’Aquila, dov’è sepolto dopo le dimissioni, che non era il primo a dare. Gli Angiò regnarono a Napoli dal 1266 al 1441, e dunque i Cavalieri del Nodo erano forse propinqui ai Templari – visto che Folco d’Anjou era non solo amico di Ugo di Payns ma addirittura nel 1131 Re Templare di Gerusalemme; era uomo di Enrico II d’Inghilterra, sposo di Eleonora d’Aquitania (ricordate Il Leone d’Inverno, con Peter O’Toole e Katharine Hepburn?). Carlo D’Angiò portò il Papa a Napoli e lo insediò a Castel Nuovo, l’attuale Maschio Angioino; qui, con l’aiuto del futuro papa Benedetto Caetani (Bonifacio VIII), raddoppiò il numero dei cardinali, rendendo più semplice l’ampliamento dell’elezione anche ai non romani. Forse sentendosi a Napoli nella stessa situazione in cui erano stati sinallora i Papi a Roma, stretti nella molla tra Orsini e Colonna e non solo, si dimise.
Papa Celestino V a L’Aquila aveva pubblicato la Bolla della Perdonanza, che anticipava il Giubileo di Bonifacio VIII; ripeteva quel lontano desiderio di sincretismo che aveva già animato il mondo cristiano, ebreo e pagano, e poi quello celtico cristiano che caratterizzò i romanzi cavallereschi della ricerca del Santo Graal.[1] Mary McCarthy è ottima autrice di romanzi del ciclo di Merlino, che illustrano il cammino che portò i principi romani cultori di Mitra a diventare poi Celti Re cristiani. A Napoli la fusione delle religioni era più che auspicata praticata. I rioni intitolati ad Egiziani, Pisani ecc. sono ancora così denominati, ricordando la reale stratificazione dei popoli.
Il compito che si è dato nell’introduzione Salvatore Forte è di ricordare la grandezza e l’importanza del regno di Napoli. L’ipotesi che argomenta solidamente è che il Rinascimento sia partito non da Firenze ma da Napoli, ovvia rotta di transito per i dotti greci in fuga da Bisanzio, Napoli era stata ducato autonomo o bizantina fino al 1137, poi normanna e sveva, aveva una celebre Università fondata da Federico II di Svevia (5.6.1224). La vicinanza fisica, culturale e politica dirigeva i dotti che recavano con sé il Corpus Hermeticum, insieme ai tantissimi testi che animarono l’umanesimo, che arricchirono la Biblioteca di San Domenico Maggiore, i cui lavori finirono nel 1394. A San Domenico Maggiore era anche la cattedra di San Tommaso dal 1271 al 1274.
Giordano Bruno, ampiamente trattato nel testo, studiò in questo luogo, vi trovò una grande messe di libri, alcuni proibiti, e lese molti di entrambe le categorie. C’era probabilmente anche l’opera di Raimondo Lullo, la cui presenza a Napoli è documentata: l’atra tesi di Salvatore Forte è che Giordano Bruno, sempre citato come Europeo e Nolano, debba essere considerato Napoletano, in quanto passò proprio a Napoli i 15 anni centrali della formazione, l’imprinting dell’adolescenza e giovinezza. E lo stesso potrebbe dirsi per Campanella, che vi passò molti anni di prigionia, una prigionia ariosa, che gli consentiva di incontrare il viceré e molti potenti d’Europa di passaggio a Napoli.
Ma Il viaggio dei dotti Greci proseguì per Firenze e vi trovò traduzione in latino. Firenze era molto legata a Napoli, la Tavola Strozzi, il celebre quadro che raffigura l’uscita di Carlo II d’Angiò con le navi per andare incontro agli Aragonesi, si trovava a Firenze. A Napoli nell’Università insegnava Michele Scoto cui dedicò il Liber Abaci il toscano Fibonacci, legato al discorso della sezione aurea come il conterraneo Luca Pacioli, celebre nel quadro di Capodimonte di Jacopo de’ Barbari.
Il tema in discussione è attuale ancor oggi, se la matematica sia solo aritmeticamente scrivibile, o se bisogna di quando in quando far ricorso alla sezione aurea, numero decimale e periodico, che risente invece di altri influssi più legati al mondo della fantasia. È il celebre insolubile problema della quadratura del cerchio, che tanto affaticò le menti, portando ad una introduzione del pensiero simbolico per significare quanto si voleva dire: ad esempio il Re Normanno Ruggero II Con Ruggero II nel 1130 dichiara la sua tendenza ermetica costruendo edifici a pianta ottagonale, una delle figure magiche più riconosciute nel loro potere magico.
A Firenze Marsilio Ficino, buon conoscitore del greco, stava traducendo Platone, quando gli giunse la raccomandazione di tradurre subito il Corpus Hermeticus appena giunto dalla Grecia. Nel 1463 Cosimo il Vecchio sentiva giungere la morte, era desideroso di precisare la sua visione metafisica, e quel che gli dicevano di questa filosofia si raccomandava ben più bella della condanna dell’uomo nella Genesi, la Genesi ermetica si compiace dell’uomo, che Dio torva bello, nei suoi occhi si rispecchia: il che beninteso è anche nell’Antico Testamento, si pensi al Cantico dei Cantici, il più noto, ma le traduzioni e soprattutto il rigore ecclesiastico facevano facilmente dimenticare, per privilegiare una visione ascetica e punitiva nei confronti del corpo e dei beni del mondo.
Nel Corpus Ermeticus si completava la celebre Tavola Smeraldina (tradotta dall’arabo nel 1250) , dava in dieci passi i principi dell’immanenza che furono la base della concezione rinascimentale dell’Anima del Mondo (Ciò che è in basso è come ciò che è in alto, e ciò che è in alto è come ciò che è in basso, per fare il miracolo di una cosa sola), che nell’ermetismo vedeva il nascere di una nuova concezione dell’unità necessaria per sapere e fare ogni cosa – la forza dello spirito, quella della mente, senza cui nessuna idea è fatta realtà. È la base comune di partenza, oggi, ma allora era eresia, l’idea di Dio aveva teso ad escludere quanto possibile il suo commercio col mondo per precisare sempre meglio la metafisica. L’unità trovava così la sua affermazione filosofica, non solo fideistica, o almeno ricca di una fede non mistica, che non ha bisogno di chiudere gli occhi al mondo per vedere Dio nel mondo, nelle cose, negli uomini: come fa anche l’epistola Laudato si’, con cui Papa Francesco ha iniziato il suo percorso di scrittura. Dove l’ecologia è trattata come la necessità dell’uomo di vivere una vita in equilibrio con la società e la natura.
L’Anima del Mondo invita ad una religione naturale, ad uno spirito solidale che accoglie ognuno nella sua casa terrena, non un incalzare della paura della morte che toglie ai tanti la forza di agire nel mondo sentendosi giustificato ad osare. È per questo che l’anima rinascimentale resta nel pensare illuministico e nella scientificità moderna come una forza irresistibile, che nel 900 torna alla luce con la scienza della falsificabilità e della fisica quantistica. Una magia delle cose è ciò che ispirò la tesi della sezione aurea, non tutto si può calcolare e misurare.
Nella tesi del Rinascimento Napoletano e nella Napoletanità di Giordano Bruno, le due tesi intorno a cui si accumulano miriadi di note e tratti che dalla storia e dai monumenti camminano felicemente nella città: si trae l’amore di Salvatore Forte per la città, un amore tradito da tanti: da sempre i napoletani fuggono e lascino la città allo straniero, indebilendone le resistenze intrne, perché è vero che a Napoli tutto è complicato dal fatto che sono tutti protagonisti, a partire dagli scugnizzi, e tutti, come dice un ‘espressione tipica, “escono a dint’o ffuoco”, nascono dal vulcano, e perciò non tendono ad obbedire, se non sono convinti. Ma se lo sono, corrono come lepri. Nel bene, è un pregio, nel male, porta alle organizzazioni criminali (e sono ancora quelli che sparano meglio) che accorciano la via creando una direttissima che brucia la montagna di ostacoli. Ma tanti napoletano, quelli che sanno contentarsi della diretta via, vivono tranquilli anche se per via di tutto ciò perdono la forza dell’unità che consentirebbe una politica normale.
Napoli, ricorda Forte, era un Regno molto ambito, che tutti prima o poi pretendevano di avere o almeno di avere nella propria sfera: ciò che contesta la ‘questione meridionale’ di principio, essendo un regno molto ricco e fertile, i cui sovrani diventavano ricchi con facilità, spesso facendo anche il bene dei popoli. Ricordo la domanda di un bambino dodicenne a Mario de Cunzo, in un seminario sulla grandezza di Napoli, che gli chiese con la franchezza dei ragazzi: “Ma se Napoli è tutto questo che dice lei, perché tutti ne parlano male?”. Ricordare a tutti che la ‘questione meridionale’ è iniziata insieme ai Re d’Italia, che si arricchirono improvvisamente alla conquista passando dal passivo all’attivo, che la maggior banca italiana è quella che ha fagocitato il Banco di Napoli, oggi risorto in quasi clandestinità – è una boutade – è compito dei napolatani, soprattutto se professori ed educatori. Ricordare a tutti che è vero che chi rimane a Napoli si definisce spesso ‘eroe’, ma non rimane solo per eroismo, non avrebbe ragione: se non fosse che si fa eroe per amore, come gli amici che amano bellissima principessa dal cattivo carattere, molto prepotente e difficile da condurre alla ragione – ma non l’abbandonano mai.
L’autore racconta Napoli con la sua storia e cultura egizia, su cui poggia la grande tradizione ermetica che a Napoli ebbe un centro importante. Ancora oggi la statua del Nilo, il CORPO DI NAPOLI, ricorda il quartiere egizio dove c’era il tempio di Iside, e pare sia dove ora c’è la Cappella Sansevero. A Iside bene si lega la tipica cultura degli epicurei napoletani, Virgilio e Lucrezio, che tanta importanza diedero al corpo, ma senza eccedere. Epicuro insegna che il piacere è – non aver fame non aver sete non aver freddo – e il sesso è già tanto se non nuoce. Nel tardo 1300 la riscoperta del De Rerum Natura di Lucrezio riportò in auge questo antico deposito di saggezza, che Luciano De Crescenzo nei suoi libri e film dimostrò essere l’autentica anima del Napoletano, in cui tutti si riconobbero per quello spirito che gira nelle strade, povere e trascurate, oggi non più piene di canzoni: ma le battute che s’intrecciano tra mercati e acquirenti sono spesso esilaranti. Massimo Troise non è un frutto raro, è solo un ottimo frutto di uno spirito diffuso nella città. Che è beninteso anche la sua dannazione, rallentando l’ambizione di creare industrie.
Camminare narrando è quel che IVI fa, col suo tour di virtual vision. Giungono al Corpo di Napoli ricordando il Nilo, il Purgatorio ad Arco, gli Alessandrini, con speciale attenzione per la Cappella Pontano. Leggendo le immagini nelle architetture e nei simboli, di cui uno con l’aiuto di Eugenio canone è stato fotografato da Salvatore Forte nella Cappella Carafa – dove era anche un affresco di cui parla Frances Yates con le immagini astrologiche, distrutto nel dopoguerra. L’occhio di Horus e la Fenice sono nella mattonella in copertina, e sono citati già da Erodoto, il primo dei grandi viaggiatori/pellegrini/camminatori: un chiaro segno egizio nel tempio cristiano, il simbolo di cui si è in cerca: Giordano Bruno avrà visto, disse Yates, quel quadro astrologico nello sceneggiare Lo spaccio della Bestia Trionfante. Ciò dimostra che è giusta la rivendicazione della napoletanità del Nolano, che a Napoli certo studiò Averroè e tanti autori classici nella Biblioteca di San Domenico Maggiore: lo dimostra l’ampia conoscenza esibita ne La Cena delle Ceneri.
L’anima mundi parla con la luce del sole nella Cappella Pontano, illuminando le morte moglie e figlia di Pontano nel giorno del loro compleanno; un’apposita apertura nel muro compie il suo servizio, come negli antichi templi egizi. Pontano abitava agli allora Portici di San Gregorio Armeno dal 1429 al 1503 – di cui resta una parte nel decumano: fece scrivere nei muri della Cappella, costruita in obbedienza alla regola aurea nelle proporzioni e poi restaurata da Carlo di Borbone al suo arrivo nel 1759, le parole magiche e i simboli di Maria Mater Dei. Iside, come Maria, è donna.
L’accademia Pontaniana si riuniva prima qui, era stata fondata dal Panormita nel 1492 sulle ceneri della Alfonsina nel 1442. Ferrante di Aragona gli affidò la cartografia del Regno ed esaltò nei simboli la MAIESTAS, l’astrologia compie il suo cammino nel segno di Urania. L’accademico Antonio Beccarelli fu chiamato a Firenze- dando una nuova dimostrazione delle convergenze su cui si può basare la tesi del Rinascimento napoletano. Astrologia, magia, alchimia sono le scienze medievali, solo dopo Galilei nell’Università ci saranno astronomia, fisica, chimica escludendo la magia. L’astrazione vincente, che ha portato l’uomo sulla Luna, s’è però poi infranta nella scienza del 900, che ha dovuto riconoscere la fantasia, la relatività e l’infinito nel tessuto della scienza.
W BRUNO Gily Salvatore Forte – Il Rinascimento Napoletano
[1] In proposito, sii può ricordare un’opera meno famosa del compianto Umberto Eco, Baudolino, dove la coppa del Graal in un Tavolo di Pescatori e Re Pescatori assume la sua giusta forma di una scodella di legno: lo ricordo perché paragonato ad altri romanzi mantiene un tono avvincente come solo Il nome della rosa seppe fare, e conquista per giunta un sapido colorito di umorismo.
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