Rosario Assunto e la poesia dei giardini – Il principio di individuazione del paesaggio (5)

di Serena Gianpietro

Cesare Brandi, Elsa Morante, Rosario Assunto e la moglie
Cesare Brandi, Elsa Morante, Rosario Assunto e la moglie

A. Apparenti aporie: la finitezza aperta

In modo inaspettato, Assunto esce dall’ambito teoretico ed estetico, per guadagnare il terreno dell’etica e della politica: le scelte concrete dell’Uomo, che riporta beninteso all’ambito speculativo. Perché è interessato alla “realtà effettuale” delle cose, alla coscienza kantianamente riferita al rapporto con quel che è fuori di me,[1] non gli accidenti storici che determinano la situazione, ma i meccanismi fondanti l’azione umana come sono speculativamente indagabili. E traccia i confini della definizione nel rapporto spazio/paesaggio individuato dalla dicotomia ‘finito/aperto’,[2] in cui scopre la peculiarità del paesaggio come spazio esteticamente definibile.

Intanto, non è vero che qualsiasi spazio possa essere assimilato al paesaggio, come è ben evidente nella pittura astratta in cui linee e superfici esteticamente rilevanti non definiscono spazi di paesaggio. Dal punto di vista insiemistico, lo spazio include il paesaggio e gli elementi che non gli appartengono, così come il paesaggio è ha in sé lo spazio e altri elementi che non vi si esauriscono perché si trascendono reciprocamente: “Potremmo con sicurezza affermare che non ogni spazio è paesaggio; e il paesaggio è spazio, ma non è soltanto spazio: perché il concetto di paesaggio include in sé note che non sono proprie del concetto di spazio in quanto tale”.[3]

Un manufatto in sé occupa uno spazio e, se esteticamente rilevante, non è detto sia un paesaggio. Ad esempio, una cripta, una sala affrescata, un interno, un qualsiasi ‘spazio chiuso’ non è paesaggio; una piazza, vista in sé non è paesaggio ma ‘spazio aperto’ e parte del paesaggio. Ciò se contribuisce, con la linea e le emergenze volumetriche e cromatiche, a definire un orizzonte o una individualità spaziale identificabile e valutabile in uno spazio tendente all’infinito. L’infinito in sé con le sue suggestioni estetiche (si pensi alla volta celeste) non ha i caratteri del paesaggio, che s’individua in un orizzonte visivo definito. Il primo carattere del paesaggio viene così isolato e descritto da Assunto: “Spazio limitato il paesaggio ma aperto: perché, a differenza degli spazi chiusi, ha sopra di sé il cielo, cioè lo spazio illimitato; e non rappresenta l’infinito (simbolicamente o illusionisticamente), ma si apre all’infinito, pur nella finitezza del suo essere limitato: costituendosi così come presenza, e non rappresentazione, dell’infinito nel finito”.

Sulla scorta di una tale proposizione si può dunque affermare che il paesaggio svolge una funzione insostituibile e insurrogabile per l’uomo e per la sua coscienza: “Tra i due estremi, della finitezza chiusa e della infinità illimitata, lo spazio che si costituisce come paesaggio è uno spazio in cui l’infinità e la finitezza si congiungono, passano l’una nell’altra: sicché la finitezza, aprendosi, diventa infinita nella continuità, che in essa viene ad instaurarsi, del limite e dell’illimitato”.[4] In questo rapporto si gioca la definizione del concetto di paesaggio. Non senza però, avere introdotto un’ulteriore riflessione sul rapporto finito/infinito, limitato/illimitato, come fatto non definibile solo spazialmente in quanto richiede categorie di analisi non quantitative. Esse attengono piuttosto al giudizio estetico, che non valuta fenomenicamente la quantità delle cose; esso è in grado di definirne il valore per sé, sia cioè il ‘senso’.

Il paesaggio, a questo punto, riguarda più il sensus inditus che il sensus additus; più la conoscenza di sé che quella delle cose, come insegnò Campanella. Nella lunga trattazione di Assunto sul rapporto spazio/paesaggio (finito/infinito, limitato/illimitato), argomentazioni e parametri di confronto sono tratti dalla poesia e dalla pittura. Nell’arte è possibile ricongiungere infinito/finito, limitato/illimitato senza necessariamente attribuire loro qualifica univocamente metafisica. L’arte funge da organo di percezione organica del sé. Chiarissimo, al riguardo, un passaggio dell’opera di Assunto: “Paesaggi che avvolgono una costruzione, oppure la distanziano da noi, istituendo, per così dire, un rapporto obbligato tra noi e lo spazio chiuso” e allo stesso tempo “paesaggi che, dipinti sulle pareti, assumono in sé l’ufficio di queste, delimitando uno spazio chiuso, nello stesso tempo ne contestano la chiusura in modi che possono simulare il congiungimento della realtà effettiva del chiuso con una più bella realtà ‘ideale’, affinché quella partecipi a questa, e la nobiliti”.[5] O, ancora, l’esempio di Leopardi con il suo ‘Infinito’: “nessuno forse è riuscito, meglio del ventunenne Giacomo Leopardi a dire l’unità e quasi l’identità dell’infinità e della finitezza nello spazio di un paesaggio che mostra l’infinito nella propria limitatezza, e questa limitatezza in quanto tale apre al di sopra della finitezza sua“.[6]

 

B. Apparenti aporie: la finitezza aperta

Non vi è dubbio che, messa in questi termini, la questione assume una rilevanza esclusivamente estetica il che, obiettivamente, rischia di diminuire l’impianto dell’opera di Assunto, che ne è consapevole, tanto che aggiunge che è necessario ”spendere qualche parola, per approfondire concettualmente il tema specifico della nostra ricerca, l’idea del paesaggio come realtà estetica; o, se si vuole, come soggetto di giudizio estetico”.[7] Chiarirne la complessità infatti porta chiarezza nelle riflessioni inerenti alla questione dello spazio urbano, di come il problema dell’analisi del paesaggio porti su un terreno più che estetico, storico; solo così ci si riappropria dei motivi della trasformazione dell’ambiente. Qui si presenta però la coscienza che la partita intellettuale sul tema è persa: la realtà nostra è di una “cultura più adeguata alle esigenze della produzione e del consumo, è la cultura dell’uomo tecnologico e industrializzato: produttore, non uomo: consumatore, non uomo”, intollerante del diverso.[8]

Prima della caduta delle ideologie, prima cioè che con la caduta del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica si parlasse di globalizzazione, prima dell’appiattimento delle menti indotte dalle massicce dosi di televisione commerciale, di effimero e di tecnologico, già era il caso di preoccuparsi del ‘pensiero unico’: “Qu’est-ce que la pensée unique? La traduction en termes idéologiques à prétention universelle des intérêts d’un ensemble de forces économiques, celles, en particulier, du capital international… Le capitalisme ne peut s’effondrer, c’est l’état naturel de la société. La démocratie n’est pas l’état naturel de la société. Le marché, oui, l’économie est placée au poste de commandement. Une économie débarrassée, il va de soi, de l’obstacle du social, sorte de gangue pathétique dont la lourdeur serait cause de régression et de crise”. Cos’è il pensiero unico? L’affermazione ideologica per cui gli interessi particolari di un insieme di forze economiche rappresentino invece interessi universali; l’idea – imposta con le armi della sopraffazione dell’economia privata sulla stessa sovranità degli Stati – che “la democrazia non è uno stato naturale della società. Ne consegue che l’economia è collocata ai posti di comando. Un’economia, ovviamente, svincolata dall’ ostacolo del sociale, ridotto ad una sorta di patetica incrostazione la cui pesantezza sarebbe causa di regressione e di crisi”[9]. Nel sociale, nel valore aggiunto costruito dalla Storia con il sacrificio e il lavoro dei nostri pari, si nasconde quel che rende la vita umana desiderabile e feconda: la solidarietà, il rispetto dell’altro, la curiosità della ricerca scientifica non applicata – tutta intera quindi la cultura artistica.

Soggetta alle esigenze di ceti dominanti, ormai del tutto scollegati dalla cultura del proprio paese e tutti immersi in una realtà virtuale fatta di contemporaneità ed ubiquità, la cultura sociale, l’intelligenza collettiva di un popolo, divenuta misconosciuta e clandestina, è accettabile solo se funzionale ad una ristretta élite finanziaria, utilizzabile come artifizio al servizio dell’incremento del profitto finanziario (questo il destino dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità in serie? E del paesaggio ridotto a spot per l’industria del turismo di svago o scenario delle pubblicità?). Dopo la mutazione del capitalismo internazionale indotta dalla crisi energetica del 1973 e il conseguente espandersi di bolle speculative finanziarie degli anni ’80; e poi ancora dopo la deindustrializzazione dell’Occidente scientificamente praticata negli anni ’90 e di recente quella del 2008 che tragicamente surclassò quella del 1929 – si può dar ragione alla preoccupazione di Assunto per il pensiero unico ed i danni indotti nelle società. Le parole di Assunto furono lungimiranti, la sua speculazione estetica seppe comprendere il mutamento delle strutture profonde della cultura italiana.

Il danno indicato è ancora oggi rilevante, la perdita del valore meta culturale dello spazio urbano, che non va interpretato in termini di rapporto di volumi o di forma dei manufatti urbani ma di qualità.

Se si confronta ad esempio l’altezza dei palazzi dei vicoli storici di Napoli o di Genova con quella dei mega condomini sorti negli anni ‘50 e ’60 del secolo scorso, si può osservare che il rapporto tra larghezza della strada e altezza dei palazzi non è mutata di troppo. Perciò, nemmeno può dirsi che nei nuovi quartieri la vita possa essere troppo diversa, ma spesso i nuovi quartieri appaiono diversi per il profilo dell’abitabilità e della valenza paesaggistica. Ciò perché per Assunto è “diversa è la qualifica formale degli uni e delle altre, perché la forma individuale delle vie, delle piazze di una città è qualificata dall’aspetto degli edifici che le fiancheggiano e le delimitano non risulta meno che dal tracciato, dalla larghezza, dall’altitudine delle costruzioni. E quando diciamo aspetto, diciamo anche memoria visibile, storicità: il passato presente a noi come forma”.[10]

Le linee, le dimensioni concorrono a formare l’aspetto di un luogo e nell’aspetto non c’è solo quello che vediamo ma anche quello che noi sentiamo e percepiamo di un luogo, proprio quando, di fronte ad una persona, ognuno ne percepisce l’aspetto a seconda di ciò che vede in esso, di ciò che vi “intenziona”, cioè si basa sulle aspettative, che cambiano a seconda di ciò che noi già sappiamo. Il paesaggio urbano si pone come “meta spazio”, una realtà spaziale che al di là delle determinazioni geometriche è uno spazio dell’anima, della mente e delle emozioni.

“L’apparenza della piazza, della via cittadina, sono più che spazio soltanto: come tale, essa è modellata, oseremmo dire, anche dal paesaggio che nella sua formazione interviene tutte le volte che (esse) hanno in sé un paesaggio” cioè siano raccordate in continuità con l’esterno a creare la connessione tra il limite e l’illimitato, tra il finito e l’infinito. ”Il limite, diciamo, è, qui, anche punto di contatto, tra l’una e l’altra delle due meta spazialità: le meta spazialità che ormai possiamo chiamare urbana e la meta spazialità più propriamente paesistica. E le due meta spazialità si corrispondono al punto che dobbiamo cercare la città nel paesaggio e il paesaggio nella città, se davvero vogliamo appurare la differenza del rispettivo loro modo di esser spazio-più-che-spazio”.[11]

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[1] La locuzione ’realtà effettuale’ è proposta da Kant nella Critica della ragion pura, Laterza, Roma-Bari 2000, pp.13-31.

[2] La finitezza aperta è il titolo del paragrafo di p. 8 in R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini ed., Napoli, 1973.

[3] Ibidem, pag. 9

[4] Ibidem, pag. 11

[5] Idem pag. 15

[6] Idem, pag. 11

[7] Idem, p. 46

[8] Idem, p. 30

[9] Ignacio Ramonet, in “Le Monde Diplomatique”, janvier 1995 – citato nel testo.

[10] Idem, p. 32

[11] Idem, pag.33