di Serena Gianpietro
Porsi la questione del paesaggio di per sé vuol dire meditare la questione di fondo: se l’uomo ne sia parte – per quanto attiva e condizionante – o se, al contrario, sia il paesaggio a costituire per l’uomo il confine, il limite, tra il sé e l’Altro, tra il Sé e il per sé.
Come è evidente non è solo una questione teorica, piuttosto è la definizione di un campo d’indagine; è anche e soprattutto tema ontologico della definizione del soggetto conoscente stesso. Espresso nella forma classica del dilemma, apre al quesito ecologico, in un’epoca in cui l’influenza umana sulla natura è divenuta elemento di cambiamento troppo forte e negativo in modo a volte irreversibile, assumendo una cogenza del tutto nuova. Nel passato l’azione umana non aveva il potere distruttivo nei confronti del paesaggio che oggi consente la potenzia tecnica congiunta alla democrazia degli accessi, in un processo di cui è difficile controllare la qualità. L’uomo non aveva con altrettanta potenza “preso possesso” del paesaggio; le possibilità consistenti di costruzione erano affidate ad una selezione economica che rendeva necessario ricorrere all’arte – estetica e tecnica sempre per la sua costante selezione di competenze. Allora la questione aveva una rilevanza diversa, il paesaggio occupava un campo di ricerca contemplativa e rassicurante: come “cosa data”, estranea ed interdetta dagli agìti umani.
L’evoluzione della prospettiva, ad esempio, è maturata nel lungo passaggio tra l’approccio moderno della” ragione umana che conosce” a quello post romantico della “ragione umana che trasforma”; torsione compiutamente realizzata con il pensiero marxiano (conoscenza come prassi) ed ulteriormente sviluppatasi nel secondo ‘900 in seguito al diffondersi delle tematiche ambientaliste ed alla riflessione sull’effetto dello sviluppo scientifico e tecnologico sulla visione d’insieme del Mondo.[1]
Lo snodo fondamentale, nella maturazione di ogni riflessione praticabile al riguardo, è dato dal lungo passaggio dalla visione romantica e prometeica dell’uomo che realizza la propria “libertà” come azione non condizionata di assimilazione del paesaggio a se stesso.[2] L’uomo di oggi, quello della società post-industriale, è costretto a pensare il paesaggio come ultimo bene comune dell’Umanità da preservare (per quanto manipolato, alterato, irriconoscibile rispetto alla situazione preantropica) per salvare se stesso dal suicidio, per garantirsi la sopravvivenza come specie.
All’interno di una tale questione, si può leggere in filigrana anche il mutamento delle prospettive teoretiche degli ultimi due secoli di filosofia occidentale, vale a dire il curvarsi della teoretica da un ambito eminentemente gnoseologico (la questione kantiana della dimostrabilità del noumeno) a quello pratico (il riconoscimento fichtiano dell’altro come processo di superamento ed evoluzione della coscienza e quello hegeliano del posizionamento etico della conoscenza come processo di realizzazione attuale e non solo fenomenologica dell’Essere).
In realtà, oggi non è più possibile pensare al rapporto uomo/natura se non nel senso della ricomposizione di un conflitto che – perdurando – indurrebbe inevitabilmente alla morte di entrambi i contendenti il che ci porta, nella riflessione sul concetto di “paesaggio”, a dover ripercorrere e risistemare la visione complessiva non solo della “natura” ma di un “noi-naturale” appeso al filo di complesse e poderose scelte politiche di conservazione del pianeta. Una sfida, per certi versi, che la filosofia ha da tempo saputo individuare ed analizzare.
IL PAESAGGIO COME AMBITO DI RICERCA
- UNA PROSPETTIVA “TOLEMAICA”
Una sistemazione molto raffinata e problematica della questione del rapporto Uomo/Natura e della funzione che il “paesaggio” gioca nel quadro complesso così delineato, è per Rosario Assunto offerta dall’opera di Joachim Ritter che, già all’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, aveva posto il paesaggio come sfondo alternativo alla visione di un’attività umana ridottasi a mero sfruttamento del Pianeta a fini economici ed intesa a creare realtà artefatte e contrapposte alla natura. In tale visione, la civiltà appare “come realtà artificiale di istituzioni razionali, in seno alle quali progressivamente l’uomo dovrà estraniarsi al suo proprio essere al mondo che a lui appartiene quale retaggio della sua storicità”[3].
Ed ecco che Ritter individua nella “natura in quanto paesaggio esteticamente mediato”[4] la possibilità di svincolarsi da simile visione riduttiva, cui si lega la continua distruzione della natura come evento necessario per la costruzione di un ambiente umano; per attingere a diversi punti di vista, in primo luogo l’estetico, per ricostruire una visione oggettivata della natura, tale da porre all’uomo rinnovati spazi di indagine libera e creativa.
Sul piano filosofico, ciò parrebbe solo un cambiamento di punto di vista, un rivolgersi ad altri approcci gnoseologici ma in realtà l’assunto è di ben altra portata. Negare la visione meramente economicistica e scientista del rapporto uomo/natura, non vuol dire chiudere gli occhi alla realtà inoppugnabile dell’inquinamento, sconvolgimenti climatici, stravolgimento degli assetti idrogeologici del Pianeta: la cosa è, infatti, di una tale e palmare evidenza da aver indotto, anche sul piano delle teorie economiche, al forte richiamo alla sostenibilità del perdurare di simile, devastante azione umana: “La parola d’ordine della decrescita ha soprattutto lo scopo di sottolineare con forza la necessità dell’abbandono dell’obiettivo della crescita illimitata, obiettivo il cui motore è essenzialmente la ricerca del profitto … con conseguenze disastrose per l’ambiente e dunque per l’umanità”.[5]
La prospettiva individuata da Ritter è invece avvolgente: partendo da altri punti di vista è possibile ricomporre un nuovo spazio d’azione per l’uomo che incida sulla ricomposizione del conflitto indotto dallo sfruttamento economico. In apparenza l’approccio ritteriano pare neoromantico, estetizzante: “la natura viene portata dinanzi a noi non nel concetto, ma nel sentimento estetico; non nella scienza ma nella poesia e nell’arte”.[6] In realtà, Ritter propone la rivoluzione al contrario, il ritorno ad una visione tolemaica in cui la Natura conservi la sua propria alterità rispetto all’uomo e ne determini la condizione di osservatore che la pone al centro del sistema, opposta specularmente alla copernicana, in cui la natura è reificata a mero campo d’azione. L’azione umana è un adattamento dell’uomo alla natura, è ricerca e scoperta di uno spazio eticamente percorribile che consenta di scongiurare per l’uomo l’esito –ineludibile e nefasto – del “possesso” della natura, semplice oggetto del conoscere e dell’agire umano.
In questo senso, il paesaggio si propone come spazio in cui l’uomo deve adattarsi: è la costante di un’equazione le cui variabili sono l’economia, l’arte, l’urbanistica, la pianificazione del territorio. Ecco come concretamente si ribalta la prospettiva: la costante non è più l’economia, la natura non è una variabile del profitto: la filosofia propone un mutamento dell’assetto prammatico. Assunto riconosce che, parlando 50 anni prima, Ritter non considerò le estreme conseguenze della sua prospettiva oltre – filosofica; questa sua rivoluzione tolemaica in realtà minima “non essendo ancora a qual tempo esplosa in tutta la sua drammaticità la crisi in cui gli uomini sono stati gettati dal pericolo di una totale distruzione della natura conseguente a quell’atteggiamento copernicano del quale il Ritter scriveva”.[7]
Ciò non di meno, sul piano filosofico la rottura proposta da Ritter non è di poco conto. Perché la questione non è riconoscere nel giudizio riflettente della terza Critica kantiana la possibilità dell’indagine non scientifica sul noumeno; non si tratta di discutere la duplicità kantiana di giudizio determinante e riflettente. Il problema non è teoretico ontologico ma squisitamente etico, pratico e valoriale: la conoscenza trova la sua ragion d’essere a partire dalla Ragione Pratica, perché solo nel ragionare di azione e delle sue certezze indimostrabili, l’essere trova l’unica strada per la propria autocoscienza nel conoscere. Ciò restituisce alla Ragion Pratica una rinnovata centralità. La necessità di salvare il Pianeta obbliga oggi ad un’azione che non prenda le mosse da un approccio meramente gnoseologico, quello delle scienze positive, né da una prospettiva esteticamente contemplativa: la visione tolemaica di Ritter guida ad un’azione eticamente e scientificamente fondata, ad organizzare un’estetica fondata nello spazio umano. È una nuova missione per la scienza e per l’economia, fondare sull’etica della responsabilità,[8] anche nei confronti del paesaggio: l’altro-da-sé inviolabile quanto quotidianamente vissuto e praticato dall’uomo. Il paesaggio è così lo spazio dell’azione eticamente fondata, condizione necessaria ma non sufficiente per la salvezza della natura. È spazio complesso e strutturato, fisico per i fatti della natura; spazio etico, per l’azione umana; spazio teoretico, in cui le scienze naturali e umane ridefiniscono l’epistemologia come conoscenza e trasformazione sostenibile dei processi produttivi e delle interazioni sociali.
- IL PAESAGGIO DINAMICO E LA VOLONTA’ FABBRILE
A questo punto il discorso porta dal piano teoretico a quello etico a quello dinamico: il paesaggio è, a questo punto, definibile come qualcosa di diverso dalla natura e di diverso dall’uomo. Il paesaggio non è natura, non bastano a determinarlo le risultanze delle scienze, né la misurazione dei suoi fenomeni con le relative relazioni fisiche e chimiche, né le varie forme della fenomenologia. Non è oggetto variabile in funzione dell’ utilità, si definisce culturalmente come spazio del gioco dialettico uomo/natura che determina la cifra di riconoscimento di una civiltà. È elemento decisivo di tensioni, desideri e proiezioni di una comunità. Il suo ambito di riferimento privilegiato è l’antropologia culturale: una
così impegnativa affermazione parte da riflessioni sulla dinamicità del paesaggio e dal suo continuo modificarsi in spirale, ciclico per le stagioni, lineare per l’erosione umana.
La libertà dell’uomo ha il suo limite nella conservazione dello spazio in cui tale libertà può esercitarsi e della materia con cui essa può agire, poggia sulla sostenibilità e compatibilità dell’opera di trasformazione della natura: “La fabbrilità dell’uomo, diciamo, in quanto sia tale che con la propria praxis non distrugga la natura come paesaggio, ma la metamorfosizzi, provocando la transazione da un paesaggio all’altro…assumendo la natura a materia cui la cultura dà forma”[9]. È l’orizzonte culturale a definire la linea del cambiamento, non la sola cultura teorica, anche della cultura diffusa della comunità. Acquisizioni scientifiche, valori morali, senso comune, costituiscono l’humus antropologico della trasformazione e dell’evoluzione tanto delle comunità quanto dello spazio fisico, etico e teoretico in cui essa vive. “Il solo contributo che alla giusta formulazione di questo problema possa portare una trattazione speculativa intorno al paesaggio, consiste nel dedicare la più attenta indagine teorica alla natura modificata dall’essere umano, nel suo configurarsi, ancora, come nuovo paesaggio: un ulteriore orizzonte per la libertà dell’uomo”[10] .
Libertà è scelta, prendere atto delle condizioni, cui corrispondono gli esiti conformi. Il margine di sfasatura tra atteso e realizzato dipende dall’ imprevedibilità non eliminabile dovuta ad errori di calcolo – una collina che frana, distorsioni di sistema – lo speculatore che modifica il piano, il velleitarismo speculativo – le cattedrali nel deserto, gli eventi naturali disastrosi. Il problema per la comunità è compensare il disavanzo con azioni di modifica sostenibile, per ristabilire una linea di paesaggio riconoscibile. Anche in casi abnormi, la volontà fabbrile è l’esercizio intenzionale e condiviso di una comunità.
Si presenta così un secondo carattere del paesaggio da esaminare, quando alla dinamicità finalisticamente orientata dall’azione di governo del territorio si affianca il carattere condiviso di tali dinamiche. Il cambiamento è sempre opera di un “fabbro collettivo” che esercita con mille mani, il cambiamento è la risultante di forze contrastanti il cui vettore risultante indica la linea di sviluppo della società, le forze dominanti e i ceti egemoni della sua trasformazione: superando ogni individualismo prometeico ed eroico, l’esito finale della trasformazione non è solo frutto delle decisioni dei soggetti giuridicamente preposti alla pianificazione, spesso vi si esercitano forme di dominio illecito e violento o anche consuetudinario. Tutte esse vanno considerate, si riconoscono anche nella lettura dinamica del paesaggio in filigrana, come stratificazioni e dinamiche forti, da tenere in considerazione come costitutive di una comunità. Così la fabbrilità può esplicarsi come “produzione di paesaggi” invece che come “distruzione del paesaggio”.[11]
Perciò, non si può del tutto rinunciare alla “prospettiva contemplativa”, rifiutata come aristocratica e consolatoria del paesaggio come “bello assoluto”. È la retorica illuministica del beau souvage, il bozzetto arcadico e idilliaco della pittura neoclassica che pareva scomparso nell’industrializzazione. Modificata dalla rivoluzione modernista di Le Corbusier e della Bauhaus, torna nel “bello” che si lega alla fruibilità e riproducibilità di massa.[12] Teoricamente, l’estetica continua a determina la “forma” del paesaggio. La volontà umana di produrre paesaggi si genera dal “costituirsi come libertà fabbrile della libertà contemplativa, che nasce dalla scoperta di un paesaggio in quanto natura disponibile all’uomo, forma per il suo sentire e insieme materia alla quale la cultura possa dare nuova forma”.[13]
Sulla produzione di paesaggi prevale, oggi come ieri, la necessità di rendere produttivo il territorio. “L’uomo, lavorando per trasformare la natura in vista di finalità utilitarie” consegue risultati del finalismo senza scopo della natura.[14] È come se l’opera del suo lavoro fosse stata “ordinata e modellata in vista della contemplazione disponendone bellamente i prodotti”.[15] L’opera dell’uomo diventa elemento degno di contemplazione se incardinata come tessera “naturale” del paesaggio – ad arte. L’oggetto artistico si qualifica per la sua autosufficienza se esaurisce in sé la funzione di oggetto estetico – il paesaggio elevato ad arte inserisce il suo valore d’uso in un contesto finalizzato come esteticamente rilevante: diviene oggetto di contemplazione perché si inserisce in un contesto culturalmente riconoscibile benché sia un paesaggio, una scena naturale.
La definizione dinamica del paesaggio come processo di adattamento tra natura ed uomo costruisce un “serbatoio della memoria collettiva” di cose, idee e fedi nella loro stratificazione, nella memoria di una comunità.
In questo senso, l’architettura paesaggistica di un Paese come l’Italia poggia su un patrimonio solido, è il “risultato estetico di una gamma vastissima di fattori e particolarmente di alcune componenti spirituali che si travasano nel territorio mediate il lavoro dell’uomo”:[16] alti afflati spirituali, leggende terrene e credenze popolari si intrecciano inestricabilmente con la particolarità dell’orografia delle pianure alluvionali e dei vulcani, delle nevi perenni e delle isole mediterranee. Coltivati tipici come vite e ulivo unendosi alle varietà arboree convergono in una produzione umana che “postula una ideale riconversione dell’arte nel paesaggio in arte del paesaggio.”[17] L’architetto paesaggista si pone come “ideatore di forme nuove e verificatore delle capacità dell’ambiente di recepire un nuovo equilibrio ecologico”,[18] che va compresa per evitare gli equivoci.
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[1] “La filosofia ambientale è un processo che attinge conoscenza da ogni attività umana (scienze, letteratura, arte, miti ecc.), la elabora in un processo di integrazione multidisciplinare per enunciare principi utili ai legislatori nel perseguire la sostenibilità, l’equilibrio e l’armonia con la Natura” Piergiacomo Pagano, L’ecocentrismo non basta, XXIII Congresso mondiale di filosofia
[2] Cfr. R. Assunto, Il paesaggio e l’estetica, Giannini ed., Napoli, 1973, vol. 2°, pag. 10.
[3] R. Assunto, op. cit., vol. 2°, pag. 3
[4] Ivi, vol. 2°, pag. 4
[5] Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Boringhieri,Torino 2007
[6]Jaachim Ritter, Landschaft. Zur Funktion des Asthetischen in der modernen Gesellschaft, 1964, in R. Assunto, op. cit., vol. 2°, pag.4
[7] R. Assunto, op.cit., vol. 2°, pagg. 5-6
[8] Assunto si riferisce alla Verantwortungsethik weberiana, l’etica della responsabilità, opposta all’etica dei principi, come analisi di mezzi e fini compatibili con le condizioni sociali, sviluppata da H. Jonas ne Il principio responsabilità, Einaudi, Torino 1990.
[9] R. Assunto, op.cit., vol. 2°, pag. 23
[10] Ibidem, pag. 19
[11] Ibidem, pag. 22
[12] Cfr. il testo fondamentale di Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, del 1936, oggi in Id., Aura e choc, Einaudi, Torino 2012.
[13] R. Assunto, op. cit., vol. 2°, pag. 25
[14] Ibidem, vol. 2°, pag. 41
[15] Idem
[16] G. Ferrara, L’architettura del paesaggio italiano, Milano, 1969 in R. Assunto, op.cit. pag. 51.
[17] R.Assunto, op.cit., vol. 2°, pag. 53
[18] Idem, pag. 53
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