di C. Gily Reda
Quando un fotografo frequenta pittori ed artisti, esercitando la sua propria arte può riuscire a disegnarne il profilo con le immagini. È il caso di questa graphic story, i può dire, che bene descrive il volto di un artista come il Leone di Napoli (titolo del libro di Philippe Daverio). Rino Vellecco ha saputo sfruttare l’icasticità dell’immagine ferma, che si sottrae al gioco perverso dell’Image mouvement (Gilles Deleuze) che si attua nel filmato: così simile al quotidiano da conservarne l’istantaneità. La causa di quel camminare senza capire per l’eccesso di cose e suggestioni, che collassano l’attenzione nella semplice presenza. Blow up, il film di Antonioni, oggi già antico, fece capire l’importanza dell’istantanea, che fissa il panorama completo e consente al viandante affannato di fermare il tempo e godere una pausa nel flusso della vita. Quando la fotografia conquistò l’istante, nell’800, con le parole di Baudelaire iniziò l’autocoscienza del nuovo mondo del corpo e della velocità, allora agli albori.
L’istantanea mostrò l’importanza del Caso, la Fortuna che vince sulla Posa – e così si vide che nemmeno essa era lo Spirito di Laplace, l’ipotesi scientifica del determinismo assoluto che finalmente elude il caso: è il perenne idolo del pensiero binario, la mente onni-calcolante che domina il futuro. Un sogno più che una ipotesi, ma continua a riproporsi con diverse vesti nel pensiero dell’uomo, dall’antico più antico. Perché forse ancora più della Morte, la Fortuna è il vero problema di ognuno: perché aiuta gli audaci e penalizza gli onesti? Bene, il fotografo sa molto presto che per quanti sforzi faccia per inquadrare secondo la sua sola volontà, il mondo si presenta poi nella foto a modo suo, e ognuno vi scorge cose diverse. Se da un lato rimane frustrato nel suo desiderio di dominio, il filosofo è un pragmatico, subito risolve il problema come si risolvono nel mondo dei frattali e del quotidiano: ripetendo – ed ecco l’invenzione del motore nella foto, anche dopo la scoperta dei Lumière della pellicola dentata. È l’affermazione netta e circostanziata dell’importanza dell’occhio sulla tecnica – l’immagine si giudica nell’esistente, nel risultato, ‘dopo’ – e non nell’idea o nel contenuto. La bellezza agognata da ogni artista anche in pectore vive di vita propria se sa nascere, e mostrarsi suscitando pensieri ed emozioni speciali e diversi, come fa ogni cosa di questa terra. Occorre che si incarni, che prenda forma, ed è questo che spiega la differenza tra foto ricordo e foto d’arte. Perché arte sia, occorre la padronanza del medium, ma il centro è l’occhio. Lo rivela lo sguardo inconsapevole dell’istantanea, che aprì i cammini della retorica della memoria visiva, indagando cosa nell’immagine realizzi il dialogo sussurrato che è il pensiero visivo. Il sapere estetico coglie la bellezza nella percezione, nella sua compiutezza di bello e brutto.
Lo studio di Giuseppe Antonello Leone, come tanti studi d’artista, vive di confusione. Ovunque opere ingombranti sono le sparse tracce del microcosmo dell’Opera. La casa invece, che sta più in alto, ha il suo ordine, custodito prima del portone da un antico cancello di ferro che sottolinea il suo status di cassaforte in cui realizzare un ordine homely. Un termine che uso come la livability ricordata da Bruno Zevi, l’abitabilità dell’architettura, che comprende anche lo spazio vissuto, libero di ruotare: già lui lamentava non vi sia il corrispettivo in italiano se non forse ‘familiare’. Oikos diceva il greco – per indicare il luogo dove si gode l’armonia del vivere e ci si sente a posto; e resta oggi nel prefisso del sostenibile, l’ecologia, l’eco ambiente di vita, dove si inizia con un ‘buongiorno’.
Ed ecco, basta entrare dalla porta per illuminarsi d’immenso: la finestra dirimpetto apre sulle colline, il primo insediamento di Napoli, Pizzofalcone. Dovunque si guardi, in su e in giù, ci si trova immersi in un’oasi di verzura, nel sole e nel mare: incredibile a dirsi, ma in quel sito più frequente di quanto s’immagini; casa e studio sono attigui alla Scuola Militare della Nunziatella. Ma venendo dai vicoli del Monte di Dio si è colti da una sensazione claustrofobica, e ciò racconta meglio di tante sociologie i problemi di Napoli. La grande bellezza sua resta oltre i muri eretti da stranieri e dalle corti ossequienti: il vento ne contrabbanda il respiro nell’anima della gente. Al balcone sedeva Antonello, negli ultimi tempi, quando mi mostrava un suo recente ritratto del Filosofo Cacciari.
L’inquadratura del guardare camminando è l’arte propria della fotografia, che cerca il silenzio delle cose, il sublime senso nascosto. Lo inseguiva Cezanne, nel racconto di Merleau Ponty, quando cercava il posto per piazzare il cavalletto. Quel posto giusto Rino Vellecco lo ha trovato, girando nella casa studio dell’artista. Se guardiamo il sito di Rino, troviamo film e fotografie documentarie di azioni sociali collettive come le processioni e i quartieri di Napoli. Vi si raccontano le storie degli uomini nel vivente corpo del popolo, si fa attenzione alle storie e ci si distrae dalla ripresa – se il montaggio è abile, fa scomparire il taglio. Ma qui che l’attore è scomparso, così vivo nella memoria mentre pure l’ambiente sta per sparire, fedele come il cane che insegue il padrone fino alla tomba, Rino mostra che le cose possono raccontano l’anima di quell’amore ricambiato. E così chi segue il percorso delle fotografie, riconosce quella caratteristica di Giuseppe Antonello Leone che lo fa diverso da tanti altri, la pacata gioia di vivere: l’ambiente è homely, è una casa confortevole, ma in realtà per Antonello è il mondo che è homely. Vissuto in epoca nichilista, patendo le consuete traversie degli artisti non sostenuti da ben condotte scelte di mercato (raccontava scherzando la fortuna di Guttuso, che aveva sconfitto nei primi concorsi) ha saputo mantenere l’anima della scoperta. La rinascimentale Anima Mundi gli parla nelle grandi cose, ma anche nelle piccole.
E così da artista operò nelle istituzioni, dirigendo scuole d’arte, ebbe famiglie vive d’affetto, e tutto ciò contribuì a conservargli il sorriso – ma la vita insegna che amare la vita ed amare l’arte, la più vera caratteristica di Antonello Leone, è una scelta difficile. Ma essa arricchisce tutto di senso, e l’anima sa connettere il senso del tutto, lega le pietre e le plastiche dorate alle grandi opere di scultura e pittura che si possono vedere nei siti a lui dedicati. È un artista che sa essere fanciullino, come diceva Pascoli, per la fiducia semplice che non si lascia impaurire. Leone ama col genio artigiano perfezionato nelle arti plastiche e visive, ma sempre va, come un guascone, alla conquista dell’occhio, il terzo occhio dell’equilibrio metavisivo, o il sesto senso esaltato dal puro visibilismo… quello che sa scorgere l’infinito, come la filosofia. Concretamente, il vedere traccia possibilità nelle cose e anche nei rifiuti; sulla pietra scartata dai costruttori, Pietro, Gesù eresse la sua Chiesa. L’ipotesi, l’idea di un’opera, come anche il possibile riuso, nascono se si cambia punto di vista; l’opera d’arte mostra la forma del processo creativo, basta mettere frutta in un cestello e inseguire la luce, e si può cambiare la storia dell’arte, come Caravaggio.
L’artefatto è sempre umile opera d’artigiano che pensa grandi cose e usa scalpelli e colori per far emergere il nascosto. Anche nei fustini in plastica (oggi poco fustini in realtà) dei detersivi del supermercato c’è poesia. La maledetta plastica esaltata da Koons e in senso feticistico collezionata da Renzo Arbore, diventa con Antonello Leone un modo di rivivere, sorridendo, le storie di antichi cavalieri e animali mitologici. Così aveva riconosciuto la Forma nelle pietre che esibivano l’intrinseca capacità di Ermes, l’arte di ordinare il mondo ridendo, dissolvendo la solidità per aprirla al futuro dell’arte e conquistare la Bellezza. E se non danno forma al mondo pietre, fiori e plastiche – e tutte le opere dell’ingegno umano – come potrebbe farlo l’artista? Amichevolmente nel silenzio gli artefatti parlano nel quotidiano della mano divina dell’Opera, che ovunque splende nell’aria e per li campi esulta diceva quel malinteso pessimista che fu Leopardi. Basta saper vedere: è la parola stessa del riconoscimento – così aulica, così banale, così familiare. La verità è semplice, diceva Aristotele.
Ho conosciuto Antonello Leone ai suoi quasi novant’anni per merito di Franco Lista, nelle prime sperimentazioni della Federico II che davano forma alla didattica della bellezza: una scuola estiva per bambini. Ricordo la sorpresa di tanta naturalezza nel tratto, nel parlare con i piccoli diretto e divertente, che si faceva rispettare generando silenzio con continue trovate, come il parlare incomprensibili linguaggi futuristi… Lo sconcerto e la splendida oratoria del gesto… per poi tornare, sconcertando viepiù, dalla performance istrionesca alle indicazioni sul da farsi. Una lezione in immagine, un teatro del sapere: cosa si può dir meglio per far capire che la spontaneità non esclude i vocabolari e le tecniche? O, dall’altro lato, che anche una buona argomentazione ha bisogno di colore, per parlare a tutti? Erano chiare indicazioni della sua familiarità al mondo, del suo voler vedere e voler sapere senza troppa ironia – ne basta poca se non ci si vuole nascondere nel genio maledetto. Gli artigiani operano così, gli Artisti preferiscono i paludamenti. Mi era tutto chiaro, ma solo la graphic story (non novel, come si dice dei romanzi) di Rino Vellecco, ha saputo illustrarla, distraendo dalla purezza delle opere e ricomposto il cammino incerto del rapporto di vita e arte.
Con una sensibilità cromatica che sarebbe piaciuta ad Antonello, le foto seguono l’iter della ricezione della voce dell’ambiente che svela il segreto del vivere d’arte nelle parole delle cose. Come documenti, le foto sono una pittura della crasi, l’accostamento senza sintesi, che si presta al cambiamento di punto di vista. La porta aperta al silenzio, non è l’allestimento del museo che sottolinea l’effetto, non c’è la sindrome di Stendhal a distogliere dal capire. Si rivive la creazione nel suo nascere nella gioia di creare e partecipare. La mostra idolatra la bellezza senza le dovute misure – Hans Belting indica nel sacro dell’arte il punto della conquista del sublime, quando essa conserva in sé la vita tutta: la brutta madonnina nera che ha raccolto tante speranze, parla al cuore più dei capolavori, e connette arte, artigianato, vita e capire in una.
La cattura magica della foto rivive Il gioco degli occhi (titolo dell’autobiografia di Elias Canetti), per comunicare il Visual Thinking, (titolo di Rudolf Arnheim) che si ritrova oltre lo sguardo – nell’empatia che ogni artista cerca. La casa studio di Leone mostra il suo il compiacimento di vivere perché la bellezza consola. L’itinerario tra le cose illumina la vita nella casa, bisogna che la foto la ordini seguendo l’aura diffusa, immergendo nel cammino. Si inizia dall’homely: antichi reperti declinano sulle carte intagliate, pagina 1 e 2, tra la madonnina di plastica e la poltrona comoda. Tavoli e libri non danno concessioni a romanzi e politica, ma non ci sono zoomate a rivelarlo; seguono subito fotografie e disegni della memoria, gli amati defunti, moglie, fratelli, genitori, parroci… tra le bottiglie di liquore e gli interruttori della luce. Subito dopo le opere degli ultimi anni, gli intagli in plastica; Riccardo Dalisi ne ha realizzati tanti in latta, educando lattonieri e bambini: Leone ha sagomato strutture in carta, solide come statue; ma poi le plastiche trasformate in personaggi del teatro si sono rivestiti di oro con un po’ di vernice dorata… la solita bugia d’artista, il riciclo d’arte, il sogno del futuro, la trasformazione alchemica. La plastica diventa oro grazie alla pietra filosofale, che tritura e mescola in forme nuove il mondo. Sperimentare i materiali, l’ossessione del Novecento di tecniche e tecnologie, è antico costume dell’arte. Se eccedere la misura dell’arte rischia il virtuosismo, il Saper Vedere (titolo già di Marangoni e di Zevi) di Antonello Leone media il miracolo dell’apparire della forma. L’oro dell’arte è la visione organica di un tutto che non si fa di parti – che le accosta guidato dalla luce; in sé è l’oltre, l’uno dov’è compreso il mistero, il domani. Saper vedere è lo scorgere nella pietra la figura di Michelangelo, è intuire il punto della trasformazione del legno in madonna, della bottiglia di plastica in guerriero. L’arte transustanzia, disse Duchamp, anche solo dislocando, se sa essere scrittura dell’indicibile, l’essenziale fatto forma.
Quest’anima è l’oggetto delle prime otto pagine della graphic story di Vellecco, poi si passa all’illustrazione della collezione domestica, ambientata tra cappelli sull’attaccapanni e quadri di questo Novecento lunghissimo, per chi guardi alle rivoluzioni della comunicazione, ben presenti all’artista. Secolo vissuto quasi per intero da Antonello Leone (1917-2016), dall’epoca dei media terrestri del futurismo a quella dei media della comunicazione, e poi della tecnologia incalzante e della rete… un millennio non ha fatto di più di questo secolo, eppure vissuto nell’espace d’un matin dell’istantaneo, dei fotogrammi ripetuti. Altroché secolo breve!
Gli stili, la varietà delle opere di Antonello documentano questa necessità di ricominciare da capo giorno per giorno – e cantano la solidità consistente nel sapersi ancorare alle tecniche e ai valori comuni. Vellecco così passa agli strumenti e scende nello studio; dove c’è anche il gesso del suo famoso gallo, quello che guarda Napoli e l’home di Antonello – dalla vetta di Castel dell’Ovo. Forse frutto anche della stagione esasperatista.
Tecniche che sono sapienze del sapere e del fare occorrono, ma anche strumenti di falegnameria e pitture, colla e chiodi. È il minimo bagaglio di chi pratica le lingue dell’arte. Ma ovviamente anche qui sono protagonisti gli affetti e i valori: compaiono subito i busti di due donne, Irene Sbriziolo e Maria Padula Leone, e a fianco gli amici, Rocco Scotellaro, Marcello Gigante, Aniello Montano. Fu il filosofo Montano a presentare all’Istituto di Marotta a Monte di Dio la scultura delle pietre di Antonello Leone. E tra altre pietre una che ricorda tanto l’immagine di Maria che forse è proprio il calco del busto in bronzo… basta il dubbio per intendere il realismo della filosofia delle pietre… visionario Leone! C’è una misura aurea, dicevano i Pitagorici, la musica delle stelle è scritta nel cuore dei girasoli, oltre che nell’aritmetica della misura.
Giuseppe da studente era un viandante maratoneta; studiava a Napoli e quindi, in quel mondo di poche ferrovie, camminava da Pratola ad Avellino, poi dalla stazione all’Accademia: e raccoglieva pietre, materie economiche, che con pochi tocchi diventano figure. C’era già nel gesto il segno dell’amicizia del mondo creato che ispira ogni artista –o la si canta o la si implora maledicendola. Sembra dire questo il busto di Marcello Gigante, il papirologo, che risvegliò gli antichi rotoli con una scuola gloriosa, anch’essa passata di mano – una scuola capace di editare i frammenti dei papiri in molti libri, tra cui il Perì Physeos di Epicuro, maestro di Lucrezio, cultore di Venere. Tutti personaggi che con la loro opera hanno costruito l’argomentazione del vivere in armonia, procedendo però nella strada della gloria – ad onta di tutto. Il gallo di Castel dell’Ovo racconta proprio questo, l’arte dà la sveglia, forse meno poeticamente dell’allodola di Giulietta: col chicchirichì del gallo rinasce il sole, ed un giorno di più per fare, per chi ha buona volontà.
La storia si chiude come era cominciata: con la pagina 30 compare Rosellina, la figlia, dirimpetto alla mamma, nel busto di bronzo che torna nella foto per esaltare la somiglianza di due anime d’artista, figlia e madre, che si sono espresse in modo così diverso ma con pari passione ed inventiva – e infine ecco Antonello, l’immagine della maturità che non cambiò molto negli ultimi dieci anni. Aveva proprio il cuore del leone di cui portava il nome, ma si identificava col gallo: era, per non essere altro che un risvegliatore, uno che ti insegna a guardare.
Anche per non ami l’eccesso di immagini senza parole, che spesso deraglia dalla strada segnata dall’autore e l’interpretazione, credo, è valida solo se si è capito il testo: qui il percorso è molto chiaro e, come spero di aver mostrato, scrive una storia che raduna le idee anche di conosce già l’argomento ma non lo ha espresso in modo chiaro. Cambiare punto di vista rivela verità inaspettate. Per leggere le opere di Giuseppe Antonello Leone è importante sottolineare questo legame con la vita vissuta, sempre importante ma negli artisti spesso involgarita dalla scarsa capacità di ascolto umano di tanti. Sono spesso pessimi familiari, troppo centrati in sé, amici su cui è inutile contare, quando non sono geni maledetti – l’arte occupa tutti i momenti liberi, l’egocentrismo è un rischio di sordità necessario… ed ecco il vate intento all’auto celebrazione per concentrarsi sulla nuova opera. I grandi artisti sono in esempio per essere grandi, ma non grandi uomini, insistono sempre le malelingue dei critici, raccoglitori di aneddoti divertenti, che umanizzano tanto irraggiungibile splendore … ecco, Antonello Leone era invece uomo vero prima di tutto, lo si avvertiva nel parlargli, non poneva la sua grandezza a piedistallo su cui ergersi dinanzi ad una Corte di inabili, come tanti.
Si esprimeva da uomo leale che cerca l’altro quel che era; sapeva che i dialoghi danno ricchezza se lo scambio è sincero e non finge interesse né vanta tecnica e opere – l’esposizione è tutt’uno con la vita vissuta come la tecnica lo è con la mano, in equilibrio organico da tanto tempo. Mente e mano del pittore lavorano in equilibrio, come le due gambe nel camminare – e disegnano un uomo libero, senza compromessi, aspro come le sue pietre, pieno del senso della vita. Lo dimostra Rino Vellecco, con la sua tecnica che si fa arte nello stesso modo, anche superando la mano e la sua abilità compositiva: allo stesso modo ordina le emozioni, scrive frammenti, dosa i colori: ed infine compone la ricostruzione dell’uomo intero, dietro l’artista.
GF Gily Rino Vellecco, il libro fotografico sullo studio di Giuseppe Antonello Leone
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