di C. Gily Reda
Athanasius Kircher è l’autore dell’Oedipus aegyptiacus (1652), che fa parte dell’ampia letteratura esoterica del periodo che va avanti dal 1400 a conquistare il pensiero di moda dei due secoli seguenti. Esoterica ed ermetista, celebrante cioè la figura di Ermete Trismegisto sino a disegnarne in un mosaico la figura nel duomo di Siena. Di lui circolava un testo, l’Asclepio, una sorta di revisione della favola dell’Eden, imperniata su di un Adamo sorridente ed amato da Dio, come lo dipingeva Plotino. Per acquistarle importanza, si diceva che le opere di Ermete risalissero ai tempi di Mosè; caddero alquanto nell’interesse quando questa fama si dimostrò usurpata, per opera di Isaac Casaubon, che come Lorenzo Valla con la Donazione di Costantino, ne dimostrò la falsità filologicamente, indicando termini moderni nel testo delle frasi. Alla fine del secolo si aggiunsero all’Asclepio i 5 libri del Pimander, tradotti da Marsilio Ficino per il morente Cosimo il Vecchio. Il Rinascimento unì queste concezioni alle altre, raccontando la storia dell’Anima Mundi, una sorta di concezione universale in cui molti sognarono potessero terminare le contese di religione. Fu questo sogno a far nascere il giusnaturalismo, cioè la dottrina dei diritti naturali, gloria del pensiero occidentale.
Riflettendo sulle opere di Ermete Trismegisto insieme alla tradizione classica, soprattutto aristotelica ma sempre più anche platonica, arricchita allora dai testi portati dai dotti in fuga da Costantinopoli portavano in Italia, nacque il lavoro di studio nelle biblioteche che ripescò tanti autori antichi sepolti nella polvere delle biblioteche. Una di queste, molto rinomata e ricca, era quella di San Domenico Maggiore in Napoli, in tempi recenti traslata alla Biblioteca Nazionale della città. I dotti napoletani vi trovavano di tutto, ed erano rinomati in Europa per la loro cultura, tanto che formarono le prime accademie d’Italia, alcune ancora attive, come la Pontaniana. Ed erano noti e ricevuti ed ascoltati nelle corti di Europa. Tommaso Campanella, ascoltato dalle corti persino quando subiva molti anni di carcere per aver sollevato la Calabria contro gli Spagnoli, una volta scarcerato se ne andò a Parigi, accolto con tutti gli onori da Richelieu e introdotto al presenza del giovane re bambino, Re Luigi XIV, universalmente noto come il Re Sole: Questo nome fu certamente mutuato dal libro di Campanella La città del sole, che aveva a scritto a Napoli, in carcere, e che subito non si sa bene se riscrisse o pubblicò una volta uscito, e che era la sua Utopia, quella di una città di educazione e sereni colloqui di amicizia. Lui stesso aveva sereni colloqui col Duca di Osuna, a Napoli, scendendo dal carcere di San Martino sino al palazzo Reale sul mare, per discutere di religione e in specie del culto della Madonna, che entrambi consideravano importante. Napoli, edificata da Partenope, aveva nel suo centro storico oltre alla statua del Nilo (sempre gli Egizi!) che il tempio di Iside, quella Iside che era celebrata anche a Pompei nel 44 DC. Ecco come se si guarda alla storia di scopre l’importanza della cultura e del suo rapporto con la storia. Spesso le nuove cose si intrecciano all’antico, e la città mostra convergenze scritte nelle pietre.
Ma tante opere anche si riscoprivano, e con esse le antiche memorie. Un esempio eclatante fu la riscoperta di Lucrezio, nella città che dedicata tanto culto a Virgilio, seguace anche lui della scuola epicurea. Il poeta latino aveva scritto il De Rerum Natura, traducendo il termine greco dei trattati analoghi, περί φυσέως, che prima dell’inquadramento scientifico di Aristotele trattavano della visione del mondo fisico ma anche logico ed etico: Lucrezio fu la lettura comune di tanti umanisti e poi dei rinascimentali, diffondendo la teoria atomistica, la teoria epicurea del progresso, la concezione della natura amica: Lucrezio inizia il libro con l’Inno a Venere, la divinità della Natura e dell’Amore. Il libro fu riscoperto da un futuro papa, Enea Silvio Piccolomini. Quello che poi disse la celebre frase, poi più volte ripetuta, “siamo nani sulle spalle dei giganti”. Con ciò voleva contrastare l’opinione diffusa che l’età dell’oro, l’infanzia dell’umanità, fosse un Eden, poi precipitato nella miseria odierna per via di qualche peccato originale – un mito di molte antiche filosofie, che davano al presente un aspetto mesto, di sciagura. Ovviamente, dimenticando quelle del passato. Una visione ottimistica che dal Rinascimento si propagò poi in Europa, dando inizio all’età moderna. Lucrezio aggiorna il detto di Epicuro, lo porta nel mondo latino. Gli atomi e vuoto fondano una fisica materialista ma di grande altezza morale, che considera gli Dei felici abitanti degli intra mundia indifferenti alle sorti umane, e perciò vanta la vita beata nel mondo, grazie all’amicizia ed al tirarsi fuori dalle contese. Una visione poco romana, poco adatta anche alle guerre di religione; non le sconfisse, ma fu come un vento di primavera, il cui profumo entra negli ambienti chiusi suscitando riflessioni nuove.
RIFLESSIONI in cui il mistero riprende ad avere il suo peso, ma in modo diverso: è un mistero da svelare, se si sa usare un sistema ‘empirico’, dice Bacone. Leggendolo con Giambattista Vico, un suo cultore, troviamo che quando si fa a ripensare il mistero, Bacone cerca nell’allegoria degli antichi poeti, scrivendo il De sapientia veterum, che gli suggerirà i chiarimenti del Diritto universale (1720) dissolvendo l’ambiguità che in proposito riscontra in Bacone che restringe la questione alla giustezza della memoria, mentre per Vico sarà questo il significato della «prima poesia» … vale a dire della sua stessa visione estetica, riconosciuta da Benedetto Croce ma non considerata dalla gran parte dei suoi interpreti rilevanti. Perché il pensatore della storia è in realtà convinto soprattutto della diversa forma di conoscenza che nella storia si rileva; mentre la maggior parte degli storici diventano poi filologi puri, come diceva Croce; perdono la loro curiosità per il problema e conservano quella per il monumento/documento. Ma non è l’accertabile che interessa chi legge di storia; la narrazione seguita nell’accertabile, consentendo di venire a capo di un tema, di rispondere al dubbio che ha condotto alla lettura. L’accertamento documentale è essenziale solo se non dimentica, come troppo spesso fa, la domanda. Cioè la vita stessa del problema storico.
In proposito, ricordo che Vico già nelle Notae in librum alterum (1722) parla di due fasi nella storia della poesia. Nella prima fase, la poesia tiene unite le genti con metafore spontanee, canti, momenti legati alle comunità di ascolto e lotta. Ma già nella seconda fase sorgono, documentate negli scritti, le favole dei Greci e i geroglifici degli egiziani. Nasce così il linguaggio crittografico che ha più che altro valore sociale di distinguere il parlato e lo scritto, la creazione degli ottimati non ha lo scopo di unire la comunità ma di sottolineare le autorità che si intende tramandare, distinguendo le genti tra chi legge i segni e chi no. Elemento essenziale quindi alla nascita della cultura è il creare il gruppo dei prescelti, nella quarta delle sue Dissertationes Vico suggerisce che gli autori delle favole delle umanità antiche siano stati i primi filosofi che celavano in enigmi le loro opinioni intorno agli dei, così da nasconderle al volgo ponendole in favole che distraevano dalla comprensione di significati occulti, così da avere consenso anche a pratiche prepotenti. Quando nel 1725 scrisse la Scienza Nuova prima (1725) riprende questa tesi e la precisa, la filosofia in origine si disse sapienza arcana proprio per poter trasformare quelle prime favole, diventandone i secondi autori – e allora la prima fase delle metafore spontanee diventa una poetica, ma la seconda, dove già si manifesta un ordine ‘logico’ cioè prettamente umano di lettura dei tempi e dei costumi, è una vera e propria fase ‘filosofica’. Ed ecco quindi che già così la concordia con l’idea di Bacone che le favole hanno una funzione didattica solo in un secondo momento, mentre il carattere di espressione spontanea è più compatibile con la mentalità primitiva – e qui vale la pena di ricordare il commento di Croce, che quel che Vico pone come sequenze storiche tra ‘primitivi’ ‘mitici’ e ‘uomini’ va inteso piuttosto come una storia ideale eterna, con una frase vichiana dei tempi successivi. Perché in realtà questo carattere metaforico, analogico, tendente ad esprimersi subito come un canto in armonie o in parole, è in realtà l’inizio del pensare; seguito da un pensare estetico che ordina tutto ciò ai fini della comunicazione del bello, del vero, del potere. È una sorta diremmo oggi con un termine nato però al tempo di Vico, una fenomenologia, una storia della mente che se si fa attenzione si riscopra in sé. Tutto ciò riguarda la storia del pensare: il pensiero invece, la legge scientifica, la storia ordinata, la riflessione teologia – sono invece comunque di un altro modo di pensare, di un altro emisfero cerebrale, si potrebbe dire metaforicamente.
Ed ecco il consenso di Vico a Bacone, che vede più il positivo di una comunicazione che l’astuzia di una fake news nella favola, «si cercava la maniera d’insegnare, non l’artifizio di occultare, poiché a quei tempi le umane menti erano rozze e insofferenti, per così dire incapaci di sottigliezze se non di quelle che cadevano sotto i sensi». L’interesse di Vico all’origine alle favole comunque non nasce solo dalle letture di Bacone, cui si dedica con profitto, ma ad esempio a Boccaccio, alle sue Genealogiae deorum gentilium che Vico cita quando inizia a parlare del mito. Boccaccio nella narrazione afferma quello che sarà la scoperta vichiana, l’esistenza cioè di un principio di coerenza storica in un campo così aperto alla menzogna, alla narrazione, al dispiegamento della fantasia. In ciò addirittura si mostra presente il nesso originario tra poesia mitologica e teologia. Nesso originario che dice in realtà l’indipendenza della poesia dalla filosofia, dell’estetica dalla logica diremmo oggi, per il carattere di poesia profondamente umana, originaria, che caratterizza il nascere del pensare nella poesia dei popoli antichi. Ciò attesta l’opportunità per Vico di trovare un fondamento storico nelle favole, il mito racchiude il germe dello sviluppo storico dell’umanità, narrato come la musica del senso: e diceva Aristotele “la musica non è necessaria né utile, ma ci abitua a saper godere dei piaceri e perciò forma il carattere l’educazione estetica e musicale sono “educazioni” alla bellezza, mimesi metessi e parusia.
W Gily Rinascimento – le basi della filosofia dell’illuminismo (1)
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