Procida, Mon Coleur

di Franco Lista

La lunga, dirimpettaia linea dell’orizzonte che si estende da Vivara a Punta Serra sembra quasi tracciata per appagare quel desiderio d’infinito che è in noi.

Ancora accade ciò a Procida dove, tra Ciraccio e Ciracciello, tutti allungano l’occhio là dove finisce il mare e inizia il cielo: un esercizio che rinfranca lo spirito, lasciandogli scegliere la via da seguire, tra ammirata contemplazione e altre forme di pensiero.

Ma chi si avventura sulla strada delle cromie procidane – i colori delle case e le tinteggiature del mare e del cielo – inevitabilmente la sua attenzione sarà infastidita dai mutamenti del paesaggio.

Allora, lo sguardo si staccherà dall’azzurro che si perde nell’orizzonte, si libererà dalla sua ammaliante, metafisica geometria per dirigersi verso l’icastica realtà isolana, sempre segnata da piccoli e grandi problemi.

Un sintomo, questo, dello sguardo che si estranea dalla bellezza colta nella sua immediatezza visiva. “Tale è il sintomo della profondità abitata”, avrebbe scritto Giorgio de Chirico in proposito. Una profondità paesaggistica che s’identifica con la profondità interiore di chi percepisce e contempla, spesso fortemente disturbata da compromissioni e illeciti edilizi, come – per fare un solo esempio – da una costruzione posta sul ciglio di una falesia, come accade al Ciracciello.

Sono cose che all’occhio sensibile, non ancora assuefatto, appaiono come una riconferma di un futuro disordinato, probabilmente ancor di più del presente, dove abusivismo, gigantismo, cromatismi, ecc. altereranno ancor di più l’immagine di Procida.

Sarà utile, per le nostre considerazioni, partire dai piccoli problemi, quelli meno impegnativi, quelli che impropriamente sono considerati minimali e trascurabili; essi forse sono i veri indicatori di una evidente pigrizia, se non negligenza, nel pensare e nell’agire di chi dovrebbe avere a cuore la loro pur non difficile soluzione.

Prendiamo in esame il caso del distributore di carburante per barche che si affaccia sullo specchio d’acqua della Chiaiolella.

L’impianto, rifatto recentemente, è un vero e proprio pugno nell’occhio con la violenza cromatica del suo accesissimo rosso che serve solo a richiamare l’attenzione dei diportisti.

Un rosso stridente e innaturale, al quale finanche la Ferrari ha rinunciato per le sue vetture di Formula 1.

Ebbene, nella cornice della piccola insenatura, ancora equilibrata da quel felice connubio tra cultura e natura (per adoperare i termini sui quali, filosoficamente, Rosario Assunto ha indagato il paesaggio) e cromaticamente modulata sulla tipica tavolozza procidana, quel rosso, tra il vermiglione e il cosiddetto sandalo, non solo è totalmente estraneo al contesto, ma annulla tutti gli altri colori; sia quelli della architettura tradizionale sia quelli del tufo e del suo ricoprimento vegetale.

Se si tenta di comprendere il portato di questa compromissione cromatica, si conviene che essa risiede tutta nella perdita della “mediterraneità”, proprio nella piena accezione di Camus e di Grenier.

C’è di più! Procida, recentemente si è dotata di un “Piano del colore”, cioè di uno strumento che dovrebbe garantire, operativamente, l’accurata tutela e valorizzazione dei particolari colori procidani, naturalmente di tutto l’insieme, non solo quelli della straordinaria, superstite architettura mediterranea.

Redatto da un ottimo gruppo interdisciplinare, il “Piano del colore” fissa un valido principio, considerando che “il più immediato segnale della presenza di caratteri di disturbo nell’immagine è proprio il colore”. E, pertanto, si autodefinisce “arma contro una forma d’inquinamento ambientale”.

Non c’è alcun dubbio sul pregio e la validità dei colori di Procida; essi sono da ritenersi espressione olistica di cultura, cioè di funzionalità ed estetica insieme.

Prova ne sia l’interesse mostrato da Jean-Philippe e Dominique Lenclos, studiosi del fenomeno cromatico e autori di un interessante saggio (Les couleurs de l’Europe), sui colori di molti insediamenti europei, laddove per l’Italia individuano le isole di Procida e di Burano.

Basta riferirsi a questa ricerca e alla adozione del recente “Piano del colore” per rendersi conto dei motivi di forte dissenso nei confronti della violenza cromatica perpetrata alla Chiaiolella.

Una lacerazione tale da interrompere l’effetto di fusione cromatica tra architettura e ambiente, sottoposte entrambe al lento e organico processo di cangiamento dei colori, che i paesaggisti chiamiamo “intonazione cromatica” del panorama. Ed è un valore apprezzato non solo da studiosi, architetti, urbanisti, pittori e fotografi, ma anche dai turisti che colgono la singolarità tutta procidana dell’uso dei colori, rivolta a conferire una significativa e individuale fisonomia a ognuna delle case. Una sorta di contrassegno cromatico degli abitanti.

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Purtroppo, pare che permanga nella comunità procidana un malinteso atteggiamento mentale nei confronti del “Piano del colore”, e anche di altri strumenti di pianificazione se è vera l’esistenza del fenomeno dell’abusivismo. Cioè, la scarsa considerazione nei loro confronti, quasi che obiettivi e finalità dei piani, la connessa competenza tecnica alla loro origine siano opinabili e dunque norme e prescrizioni sono da intendersi come indicazioni dalle quali si possa derogare, salvaguardando quello che impropriamente si ritiene un diritto, cioè l’espansione dell’area di libertà di ognuno.

Ecco dunque il vero nodo della questione di natura assolutamente antropologico-culturale: il rigetto della progettualità come forma di azione rivolta al bene comune.

Che la progettualità civile, civica, sociale, sempre intimamente legata a quella politica (nel significato alto del termine) sia cosa difficile a farsi, più che a dirsi, è cosa ben nota!

Tuttavia, la via progettuale è irrinunciabile, a partire dalle buone pratiche delle amministrazioni rivolte agli amministrati. Solo così è possibile sperare nell’interiore coinvolgimento di tutti i soggetti.

Allora, vale la pena considerare anche le realtà minime, rifiutandone sia la mercificazione del valore cromatico sia la connotazione “fringe”, cioè di cosa marginale, di frangia, intervenendo con la necessaria, opportuna tempestività.

Solo così sarà possibile avviare, in modo realistico, crescente e graduale, un percorso virtuoso di sensibilizzazione comunitaria e di interiorizzazione dei valori della nostra isola, ovvero di riconferma identitaria di chi vi abita, con la mente e col cuore.

W Lista Procida, Mon Coleur