di Franco Lista |
Se in fase di studi critici (oggi, tempo de “L’inverno della cultura”, per citare il prezioso volumetto di Jean Clair), ci si esercita a sollecitare la massima attenzione del pubblico su i “numeri”, spesso di foggia psico-circense, dell’arte contemporanea, allora possiamo ben dire che i plastici grumi di preziosa e smagliante materia di Peppe Macedonio (Napoli, 1906-1986) sono ancora segni avvincenti di una poetica narrazione. Segni, direi, di un’attività estetica davvero appassionante sulla quale la critica e la storiografia artistica dovrebbero soffermarsi più a lungo e in profondità, valutando non solo la priorità ontologica del linguaggio suo ceramico, ma anche le interessanti correlazioni valoriali di carattere estetico-sociale, nonché le attraenti implicazioni spaziali e architettoniche. Cose queste che, a mio parere, costituiscono la chiave di accesso alla substantia del fare di Peppe Macedonio.
Per il nostro artista, infatti, una placca, una formella, un pannello, un piccolo portale di una abitazione o un grande svolgimento ceramico erano sempre considerati “un porre in opera incorporante di luoghi…per un possibile abitare di uomini”, come ebbe a scrivere Heidegger per la scultura. Peppe Macedonio perseguiva davvero queste finalità; era un artista, un pensatore, al quale non veniva mai meno il collingwoodiano “svanire della ragione” che spesso contrassegna l’artisticità istintiva o unicamente intuitiva. Chi lo ha conosciuto sa bene che egli faceva filosofia, sociologia, antropologia con la sua vita e con la sua arte, intimamente intrecciate. La sua filosofia, per chi lo ha frequentato e non certo per gli sprovveduti ai quali sfuggiva pure la rara singolarità del personaggio, era aspirazione e sconfinamento in stile di vita dove la relazione estetica, non disgiunta da quella umana e il pensiero visivo avevano un ruolo centrale nella sua arte, tale da dar voce a tutto ciò che è muto.
Insomma, era quel che si definisce con una locuzione consolidata da un largo uso, un maestro di vita che con la sua arte dava voce a tutto ciò che è muto.
L’aulico e il popolare, le tradizioni forti, radicate e identitarie e l’apertura al nuovo per Macedonio era un tutt’uno da fondere nella cristallina materialità della grande arte ceramica. Da questa consolidata, interiorizzata intenzionalità deriva la qualità, la densità, la profondità, la ricchezza che Macedonio veniva plasmando e cuocendo, quasi come solidificazione del primigenio gesto creatore. Ecco le nuove/antiche superfici che lasciano intravedere dense sovrapposizioni di smalti delle sue figure femminili o maschili, degli elementi vegetali, degli animali; insomma di tutto l’inesauribile repertorio arcaico/futuribile della sua vitale fantasia.
Basterà riferirsi a poche opere per capire lo straordinario risultato che Macedonio consegue in un arco di tempo che va dai leggeri e delicati portalini in ceramica degli edifici abitativi del dopoguerra fino ai complessi svolgimenti di proporzioni ambientali. Peraltro, questa produzione decorativa fatta di cornici e portali d’ingresso e di pannelli posti negli atri di edifici costruiti nel dopoguerra nei quartieri collinari, oggi, a ben guardare, costituisce una diffusa punteggiatura cromatica realizzata in svariati stilemi; una sorta di arredo urbano che vivifica l’anonima edilizia pseudo razionalista della città in espansione.
Macedonio si rivela artista in grado di affrontare e risolvere opere di grande impegno anche sotto il profilo dimensionale come accade per l’esedra della fontana della Mostra D’Oltremare, progettata da due grandi architetti, Carlo Cocchia e Luigi Piccinato. Due architetti che potremmo definire, per questa bella opera, amici del verde e dell’acqua. E’ noto, peraltro, che Bernini, autore di tante straordinarie fontane, considerava l’acqua al pari di un elemento architettonico, definendosi per questo “amico dell’acqua”.
Nel contesto del verde della Mostra, la fontana col suo maestoso ed elegante andamento digradante, affidato alle lievi pendenze laterali ha la suggestiva conclusione proprio nel grande svolgimento ceramico dell’esedra che si staglia sullo sfondo arboreo della retrostante collina di Monte Sant’Angelo.
E’ la splendida ripresa della grande storia, del felice connubio tra architettura e maiolica. Penso all’ampiezza visiva degli invasi di Vanvitelli nella Reggia di Caserta e soprattutto al settecentesco Chiostro delle Clarisse di Domenico Antonio Vaccaro e dei ceramisti Giuseppe e Donato Massa, per il quale Roberto Pane sottolineava la gioiosa invenzione resa dall’unitarietà tra arte decorativa, architettura e il verde della pergola e del giardino rustico.
Peppe Macedonio ha statura artistica tale da far fronte alla grande superficie di mille metri quadri dell’esedra. Il vasto svolgimento ceramico è il vero focus della fontana, laddove i lati lunghi della vasca convergono nella loro fuga, indirizzando la percezione visiva del riguardante verso l’accensione cromatica dell’esedra.
Al di là del contenuto ufficiale e celebrativo dell’opera, Macedonio mette in scena i misteriosi, ieratici ritmi dell’homo faber e della natura mediterranea; con grande sensibilità materica procede ad una solare narrazione ove colloca una sorta d’immaginativo, orfico adombramento dell’essenza mediterranea: un’arcadia del reale, della vita e del lavoro nel luminoso, sereno grembo mediterraneo, così come lo è l’intero complesso della Mostra d’Oltremare pur se oggetto di alcune pesanti compromissioni.
Credo che valutare criticamente l’opera di Macedonio, cercare di capirla possa realizzarsi solo collocandosi al suo interno; cioè all’interno di quella ineffabile mediterraneità fatta di luce, di effetti di fusione e di scambio cromatico tra ceramica, architettura e ambiente sempre in netto contrasto con gli azzurri del cielo.
Bisogna necessariamente collocarsi all’interno di quella “incarnazione di senso” (A. Danto) che va oltre il puro dato cromatico della ceramica e ci costringe, ci stimola a un esercizio di nostalgica immaginazione alla ricerca di una arcaica classicità ormai perduta per poter rinvenire un orizzonte di senso che appartiene alla nostra vera natura.
Nel confuso incrociarsi delle babeliche tendenze dell’arte contemporanea l’opera di Peppe Macedonio, per tutto questo, merita una seria, storica collocazione nel panorama dell’arte italiana. Sull’artista Macedonio il discorso critico va necessariamente approfondito, analizzato e circostanziato ed è nostro dovere, culturale e civile, proseguire in tale direzione.
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