di Franco Blezza [1] |
Sui rapporti tra la scienza e la materia pedagogica, intendendo il termine “scienza” in senso stretto cioè riferito alle scienze della natura e a quelle tra le scienze della cultura che vi siano ravvicinabili per metodo, si annoverano anche nel nostro paese ricerche numerose e notevoli, sia nelle tradizioni ottocentesche e del primo novecento, che nel dopoguerra.
Sono, invece, carenti i contributi diretti di studiosi italiani di formazione scientifica nel campo pedagogico. L’eccezione di Maria Montessori, se impedisce di fare regola, non può deviare l’attenzione dal Trend che è netto, ed è in controtendenza rispetto all’andamento su scala mondiale della ricerca pedagogica dell’ultimo secolo. Si pensi a Claparède, a Decroly, a James, a Peirce, a Ferrière, a Dottrens, a Kerschensteiner, ai fondatori della Pedagogia Speciale, … Questa è una tematica che va posta sul piano più generale della ricerca nel settore, e dell’essenza della pedagogia.
Nel nostro paese, ancora oggi, l’apporto che gli uomini di scienza (intendendo formati alla cultura scientifica in senso stretto, e con esperienza di ricerca scientifica o del relativo esercizio professionale effettivamente condotta) recano alla materia pedagogica, o per lo meno all’educazione, va ricercato essenzialmente lungo tre direttrici: o lo sviluppo di alcune tra le scienze dell’educazione, magari in via ausiliaria (quando non proprio strumentale) rispetto alla riflessione pedagogica generale; o le didattiche speciali delle diverse discipline scientifiche, tecniche e logico-matematiche oppure di aree pluridisciplinari più comprensive; o le tecnologie per l’educazione e l’istruzione. Si tratta di tre campi particolari di ricerca pedagogica, a volte didattica, nei quali il contributo della scienza è necessario; lo sviluppo del terzo, e per certi aspetti anche del primo, soffre spesso della confusione tra scienza e tecnica, che nonostante tutto permane dal neoidealismo italiano, e tra tecnica e tecnologia che è invece più recente. Lo sviluppo, invece, delle didattica disciplinari e pluridisciplinari sulla scienza si configura spesso come una ghettizzazione, vale a dire come un evidente spreco di risorse di interesse generale in quanto tale. Tutti e tre questi riduzionismi conducono ad un impoverimento della ricerca pedagogica e della comunità che la sviluppa: tale apporto, in effetti, è recato a problematiche educative di fondo, e per queste è altamente significativo, pur se la potenziale generalità di tale contributo va presa e va letta attraverso una complessa e non agevole mediazione.
Viceversa, è ricca la casistica di riferimenti alla scienza da parte di Pedagogisti d’altra formazione: ma essi sono stati, e sono, fatti per lo più, in via non diretta, bensì attraverso la consultazione di opere divulgative, oppure di riflessioni filosofiche sulla scienza: sia storicamente che attualmente.
Il riferirsi ad opere divulgative, in sé, sarebbe anche positivo: ma se operato in via esclusiva, e senza la cultura specifica di fondo, ma presenta rischi molto gravi, e rimane ristretto entro limiti piuttosto angusti: è arduo fin l’immaginarsi, per questa via, un andar oltre aspetti particolari e cogliere la generalità dell’essenza scientifica in campo pedagogico. Spesso si mutuano solo Slogan e ci9tazioni decontestualizzate, senza alcuna consapevolezza della rispondenza o meno dell’impiego al contesto originario
Il ricorso a mediazioni filosofiche, ad esempio, presenta il limite di guardare alla scienza non come essa è, ma come la tratteggia uno studioso dall’esterno: ed è ben noto, ad esempio, come si oscilli, specie nell’epistemologia contemporanea, tra una deontologia che non serve a comprendere la realtà della scienza, ed un relativismo storico che comunque coglie della scienza solo quegli aspetti che rientrano in schemi concettuali aprioristicamente prefissati dallo storico. Il fatto, poi, che non pochi epistemologi dell’ultimo secolo fossero di formazione scientifica (Mach, Duhem, Bachelard, Kuhn, Hahn, …), e che vi siano stati dei notevoli apporti filosofici da parte di eminenti uomini di scienza (Einstein, Bohr, Schrödinger, Born, Monod, …), se consentirebbe di migliorare la qualità del riferimento alla scienza da parte del pedagogista, comunque non ne modificherebbe il carattere indiretto e i limiti relativi.
In educazione, dove il realismo è deontologico, si pone dunque un problema d’opportunità di andare oltre qualunque tipo di mediazione, e di cogliere direttamente ed in via essenziale il contributo che la scienza può dare nel suo modo d’essere reale ed attuale. Un tale contributo vale per la delineazione di fondo della materia educativa, per una teoria generale della Pedagogia, che preferiamo non chiamarla “epistemologia” se prima non si sia dimostrato che la Pedagogia è effettivamente una “episteme; e vale altresì per la ricerca generale in ambito pedagogico. Esso dovrebbe portare a vedere le applicatività particolari (come quelle lungo le tre direttrici sopra richiamate), correttamente, come conseguenza delle istanze di fondo.
Il discorso sarebbe ovviamente lunghissimo, e alcuni aspetti li abbiamo sviluppati nei decenni, ad esempio in Educazione e scienza (SEI, Torino 1989), Didattica scientifica (Del Bianco, Udine 1994), Educazione 2000 (Pellegrini, Cosenza 1993) e poi Educazione XXI secolo (Pellegrini, Cosenza 2007). In questa sede ci limitiamo ad indicare, a titolo d’esempio, alcuni settori generali nei quali la proficuità di tale contributo appare con risalto maggiore:
- la definizione dell’educazione in termini di evoluzione culturale cioè di peculiarità umana, e quindi congrui con le caratteristiche dell’uomo studiate dalle scienze della natura che comunque all’uomo si riferiscono;
- la ridefinizione del rapporto tra la ricerca pedagogica che può riconoscersi nelle regole delle scienze empiriche, codificate e coltivate nelle scienze della natura, e la problematica educativa generale, sulla base degli sviluppi specifici che la scienza ha avuto a partire dalle rivoluzioni della fine del secolo scorso, cioè dal superamento “rivoluzionario” della scienza cosiddetta “classica”;
- l’impiego in via essenzialistica nella materia educativa di strumenti concettuali elaborati dalla scienza contemporanea, e differenti da quelli della scienza fino all’ottocento, come ad esempio l’indeterminazione, la complementarità, il probabilismo, il relativismo, la complessità, la teoria dei sistemi, la teoria qualitativa, la catastrofe, la non decidibilità, la base casuale delle mutazioni e la conseguente selezione, e così via;
- una metodologia della scienza che sia realisticamente proponibile per come la ricerca scientifico-naturalistica di base si va svolgendo in questi decenni, diversa dalla ricerca tecnica e da quella tecnologica, le quali a loro volta possono apportare contributi non meno importanti:
- un’attenzione per i fini e la loro critica, che permetta di vedere come la natura e la tassonomia dei fini della scienza sia differente e a volte divaricante da quella della Pedagogia, e come anche sul piano della critica vi siano delle differenze essenziali.
Mentre simili contributi possono risultare di grande proficuità per l’evolversi dell’educazione, appare difficile fruirne senza competenze ed esperienze dirette e specifiche nei campi scientifici interessati. Visioni della scienza filosofiche o storiografiche possono servire a poco, quando non a sviare l’attenzione.
[1] P.O. Dipartimento di Lettere, Arti e Scienze Sociali, Università “d’Annunzio”, Chieti
W FORMAZIONE Blezza Pedagogia e scienza per un rapporto più diretto
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