di Vincenzo Curion
In occasione del quattrocento diciannovesimo anniversario della salita al rogo di Giordano Bruno, sabato 16 febbraio si è tenuto, nei locali del Museo Archeologico un convegno dal titolo “Dagli infiniti Mondi alla Città del Sole”, durante il quale sono stati messi a confronto le figure di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella i due filosofi meridionali, il primo nato a Nola il secondo a Stilo, comune attualmente in provincia di Reggio Calabria, che hanno segnato con le loro idee, e con il corso delle le loro vite, la seconda metà del cinquecento e l’inizio del seicento. La manifestazione, promossa dall’associazione “Giordano Bruno” presieduta dall’avvocato Paolino Fusco, e inserita tra le attività per commemorare l’illustre cittadino, ha permesso di tracciare, grazie ai relatori intervenuti, un parallelo tra le figure dei due studiosi. A moderare l’evento il presidente dell’associazione. Invitato per i saluti istituzionali, il sub-commissario prefettizio Mario Ambrosanio, ha anche annunciato che è in fase avanzata la creazione di un centro studi dedicato a Giordano Bruno, istituzione che da tempo Nola attendeva. Per tale centro, ha dichiarato il sub-commissario, si è già in fase di ricerca di idonei locali. In veste di relatori la storica Anna Maria Rao dell’Università degli studi di Napoli “Federico II” e Saverio Ricci, dell’Università della Tuscia, autori di corpose biografie rispettivamente su Giordano Bruno e su Tommaso Campanella. Assenti i filosofi.
A presentare il tumultuoso contesto culturale e sociopolitico che fece da sfondo per i due studiosi la Professoressa Rao, la quale, nel suo intervento, ha offerto agli astanti, la narrazione di una avvincente pagina della storia europea, conducendo gli ascoltatori in un periodo caratterizzato sostanzialmente da una restaurazione, dopo la forte apertura in precedenza con lo “slargamento” del mondo dovuto alla scoperta dell’America. La centralità dell’Europa non era messa in discussione, ma la disomogeneità delle nazioni che andavano costituendosi o che rinsaldavano il loro ruolo nella scena continentale, rappresenta un necessario elemento da conoscere approfonditamente per comprendere quale fu il clima che fece maturare la decisione del rogo per Giordano Bruno, dei cinque processi e della prigionia per ben 27 anni di Tommaso Campanella e, dell’abiura nel 1633 di Galileo Galilei. Il continente europeo aveva vissuto l’invasione degli arabi che l’avevano successivamente abbandonato all’indomani della conquista nel 1492, di Granada. Dopo una guerra durata un decennio, la corona spagnola era riuscita a reimpossessarsi della parte orientale della penisola iberica. Ma a nord ovest c’era da contenere la potenza francese, altra superpotenza dell’epoca. Entrambe le corone avevano una fitta schiera di potenze satelliti, disposte in giro per il continente e lungo la penisola italiana. L’odierna Germania viveva ancora una fase di forte frammentazione con tanti centri d’interesse che stentavano a raggiungere le dimensioni nazionali.
Andava affermandosi, nell’Europa occidentale, il modello dello Stato moderno per opera delle monarchie dinastiche. La sua organizzazione era destinata a diventare modello anche per i grandi Stati territoriali dell’Europa orientale. Caratteristica di questa forma di Governo è la capacità di imporre una sola legge su tutto il territorio. Nel Cinquecento il potere dello Stato è il potere del re. Per difendere lo Stato e imporre la legge, il sovrano si serve di un esercito stabile e preparato che gli permette di sostenere le guerre con le potenze straniere. I re, per governare, si servono di amministratori, giudici ed esattori. L’insieme dei funzionari e degli uffici dello Stato costituisce la burocrazia. Il denaro necessario per mantenere la burocrazia e l’esercito proviene dalle tasse. A limitare il potere dei sovrani vi sono le assemblee in cui sono rappresentati i principali ceti sociali – nobili, clero, borghesi: Parlamento in Inghilterra, Stati generali in Francia, Cortes negli Stati spagnoli, Diete in quelli tedeschi. Questa strutturazione, antesignana delle odierne nazioni, non attecchì ovunque, in particolare, in Italia, dove permanevano piccoli Stati regionali. I gruppi di potere che si fronteggiavano erano costretti ad una convivenza che, per certi versi era causa di continue lotte e scaramucce, ma per altri versi era ben tollerata perché commerci e traffici erano alquanto fiorenti, grazie all’afflusso di materie che provenivano dal Nuovo Mondo.
Altro elemento che mitigava gli attriti era il fatto che le potenze tutte si riconoscessero nell’unica radice storico cristiana e nella cultura latina, sebbene vi fossero malcontenti per l’organizzazione e la spartizione del potere. Nel contempo la massima autorità spirituale rimaneva il Papa, pronto a sostenere l’imperatore nel caso in cui non fosse bastata la sola autorità militare. Ma la situazione era destinata a precipitare con l’avvicendarsi delle tesi che intendevano “riformare” il credo. Malgrado il potere del Papato fosse molto forte, gli argini alle spinte per una rivisitazione della dottrina e della pratica religiosa non ressero alle spinte di Lutero, nel 1517. Ad incrinare l’autorità religiosa, furono gli interessi politici ed economici che ebbero la meglio ingenerando reazioni a catena che portarono alla creazione di nuove configurazioni sociopolitiche. Prima di Lutero, riformatori religiosi quali Jan Hus in Boemia, movimenti eretici ad Orléans, Arras e Monforte, la Pataria di Milano e movimenti spirituali quali i Catari, i Valdesi e i Begardi avevano manifestato un modo di professare il cristianesimo diverso da quello praticato dalla Chiesa ufficiale. Ma nessuno di questi ebbe l’appoggio politico ed economico che ebbe Lutero da parte di quei prìncipi che, pur di distaccarsi dall’imperatore, non esitarono a fare del rito luterano la religione di Stato. E dire che l’imperatore Massimiliano, nel 1512, usava la dizione “Imperium Romanum Sacrum Nationis Germanicae” (in tedesco Heiliges Römisches Reich Deutscher Nation), già attestata fin dal 1417, nel preambolo di commiato al Reichstag di Colonia. Testimonianza del fatto che egli stesso non si aspettava che potesse scoppiare, di lì a cinque anni una vera e propria rivoluzione separatista per questioni di natura religiosa.
La riforma protestante, anch’essa nata come movimento dissenziente riuscì ad affermarsi, diffondersi e imporsi in alcune aree d’Europa per il particolare momento storico in cui Lutero predicò. Come ribadito dai relatori, la capacità di Lutero fu nel fatto di mettere a fattor comune tutte le principali cause del malcontento che serpeggiava tra i fedeli e le più importanti motivazioni che erano alla base delle spinte autonomistiche dei prìncipi. La tumultuosa fase della storia del cristianesimo, iniziata più di un secolo prima con il ritorno a Roma dalla cattività avignonese, non era ancora cessata, ma anzi stava per vivere una fase ancora più drammatica e sanguinosa.
La data d’inizio della Riforma Protestante coincide con l’invio di una lettera all’arcivescovo di Magonza nel 1517, entro la quale si notificava l’attività illecita di Johann Tetzel, occupato nello svolgere la vendita delle indulgenze in quei territori dov’essa era proibita. La dottrina dell’indulgenza è un aspetto peculiare della fede cristiana, affermata dalla Chiesa cattolica, che si riferisce alla possibilità di cancellare una parte ben precisa delle conseguenze di un peccato (detta pena temporale), dal peccatore che abbia confessato sinceramente il suo errore e sia stato perdonato tramite il sacramento della confessione. Con l’indulgenza, attualmente disciplinata dai documenti Indulgentiarum doctrina e Manuale delle indulgenze, avviene la remissione parziale o totale delle pene comunque maturate con i peccati già perdonati da Dio con la confessione. Ma nel 1517 papa Leone X, allo scopo di reperire fondi per l’erigenda Basilica di San Pietro, promosse la vendita delle indulgenze. Questo comportamento fu visto come pratica di simonia e ulteriore segno di corruzione della curia romana. Anche contro tale pratica il 31 ottobre 1517 Lutero pubblicò le proprie tesi, affiggendole sul portone della Cattedrale di Wittenberg come forma di protesta contro la Chiesa, secondo il racconto attestato dal documento del 1546, redatto da Filippo Melantone, seguace di Lutero dopo la morte del riformatore.
Questa affissione, citata in diversi testi, secondo lo storico Erwin Iserloh non è storia, ma leggenda, e per di più contraddirebbe l’intenzione del riformatore che, nel 1517 non era a Wittenberg. Aldilà dell’epicità della scena, è opinione di diversi studiosi che le posizioni di Lutero inizialmente non fossero in aperto contrasto con quelle della Chiesa di Roma. Quando il cardinal Caetano cercò di ottenere da Lutero una pubblica e completa ritrattazione, il monaco tedesco non si considerava un eretico. Rifiutò perciò la richiesta del legato, invocando la protezione del papa contro i calunniatori e i nemici. Lutero fino ad allora non aveva mai auspicato una frattura del mondo cristiano. Tutti gli scritti di quel periodo dimostrano anzi, un chiaro intento di riformare dall’interno la dottrina della Chiesa, che ai suoi occhi aveva smarrito la missione assegnatale da Cristo. Verso la fine del 1518 fu inviato a Wittenberg il giovane sassone Karl von Miltitz, parente del principe Federico, con l’incarico di convincere il monaco riformatore a rinunciare alla polemica pubblica. In cambio il papato avrebbe garantito il silenzio degli avversari di Lutero in Germania. Il frate agostiniano accettò e promise di pubblicare uno scritto per invitare tutti a rimanere obbedienti e sottomessi alla Chiesa cattolica; questo testo fu intitolato Istruzione su alcune dottrine (1519).
La tregua formale non durò che qualche mese giacché nelle università e in luoghi prestabiliti avvennero dibattiti e confronti. Il più noto di questi confronti accademici fu quello svoltosi a Lipsia nel febbraio del 1519 tra Lutero e un professore proveniente da Ingolstadt, Johann Eck. L’importanza di questo dibattito risiede nell’ammissione da parte di Lutero di condividere alcuni punti della dottrina hussita. Ciò fornì al papato il capo di imputazione necessario per la condanna di Lutero giacché cento anni prima il Concilio di Costanza aveva giudicato le proposizioni hussite come eretiche. Tornato a Wittenberg, Lutero si rese conto del pericolo che stava correndo e cercò di spiegare meglio la sua posizione con un opuscolo, le Resolutiones Lutherianae super propositionibus suis Lipsiae disputatis, ma il chiarimento non sortì alcun concreto effetto. A quattro anni dalla pubblicazione delle tesi, il 3 gennaio 1521 con la bolla Decet Romanum Pontificem, papa Leone X scomunicava, con l’accusa di eresia hussita Martin Lutero, che imperterrito continuò la sua opera teologica pubblicando nuovi scritti che invocavano la pace e la separazione delle faccende temporali da quelle spirituali, in conformità con le teorie agostiniane non rinnegò mai.
All’indomani della pubblicazione di quelle 95 tesi, il papato venne investito dalla forza d’urto di ampie parti della popolazione continentale a cui il monaco tedesco seppe dare voce.
Alimentava la diffidenza della gente nei confronti delle autorità ecclesiastiche, il fatto che la liturgia fosse celebrata soltanto in latino e che fosse difficile poter accedere a traduzioni della Bibbia in lingua volgare. Anche se queste esistevano già, in tedesco, italiano, francese, etc., non erano mai utilizzate nella liturgia, e furono viste sempre con atteggiamento piuttosto ambiguo dalle autorità ecclesiastiche. Soltanto i chierici e pochi laici istruiti potevano accostarsi alla lettura delle Scritture. Lutero, come i suoi predecessori, auspicava un diretto avvicinamento di tutti i fedeli alla Bibbia. Per tale motivo si adoperò a tradurla in tedesco curandone diverse edizioni che si diffusero rapidamente, grazie all’invenzione della stampa a caratteri mobili dell’alsaziano Johann Gutenberg nel 1455. Leggendo e studiando la Scrittura, Lutero ebbe modo di riconoscere con maggiore chiarezza anche le contraddizioni tra l’operato del clero e una presunta dottrina cristiana originaria. La predicazione di Lutero, riprendendo motivi anticlericali e antiromani diffusi nella società tedesca ed europea del tempo, seppe proporre con vigorosità un nuovo modo di vedere il rapporto con Dio e la Chiesa, che la scrittura stessa insegnava, soprattutto attraverso una lettura rinnovata delle epistole dell’apostolo Paolo.
Altre cause della riforma furono la rilassatezza della gerarchia ecclesiastica, che perseguiva obiettivi economici e di potere (critica al potere temporale della Chiesa); e la corruzione del clero. La Chiesa infine, possedeva vasti territori e riscuoteva decime. I nobili passati al protestantesimo poterono secolarizzare queste proprietà e prenderne possesso, rendendole ereditarie. Fu in questo modo che ad esempio si costituì il nucleo della Prussia, con la secolarizzazione dei territori dell’Ordine Teutonico dopo che il Gran maestro Albert di Hohenzollern passò al luteranesimo. A quel tempo le cariche ecclesiastiche potevano essere cumulate per beneficiare di più rendite e senza che a queste corrispondesse effettivamente lo svolgimento di un ministero ecclesiastico. La predicazione era il più delle volte affidata agli ordini mendicanti, mentre vescovi e abati dei grandi monasteri erano spesso membri di famiglie di nobili che si disinteressavano dell’aspetto religioso dell’amministrazione delle diocesi. Spesso i prelati si facevano sostituire da propri subalterni per dedicarsi ad attività mondane. La vita di corte e le attività militari erano attività tutt’altro che precluse al clero (nelle guerre in Italia il re di Francia Luigi XII aveva nel suo stato maggiore tre cardinali, due arcivescovi e cinque vescovi). Ad esso si associava la simonia, che nel Medioevo era la compravendita di cariche ecclesiastiche. Il termine, utilizzato più in generale per indicare l’acquisizione di beni spirituali in cambio di denaro, deriva dal nome di Simon Mago, taumaturgo samaritano convertito al cristianesimo, il quale, volendo aumentare i suoi poteri, offrì a san Pietro apostolo del denaro, chiedendo di ricevere in cambio le facoltà taumaturgiche concesse dallo Spirito Santo. La storia della cristianità abbonda di casi di simonia. La pratica della simonia non scomparve mai e accompagnò tutti i momenti di decadenza del papato. Vi era poi il problema del nepotismo. I Papi assegnavano cariche pubbliche (piccolo nepotismo) o territori (grande nepotismo) ai propri familiari (per esempio papa Paolo III ottenne il Ducato di Parma e Piacenza per il proprio figlio Pier Luigi Farnese). Tutto ciò indebolì la reazione religiosa, più che quella politica, alle critiche teologiche di Lutero verso l’organizzazione ecclesiastica.
A tutto questo si intrecciò il fattore politico. Il Sacro Romano Impero era un organismo complesso, costituito dall’imperatore, al tempo Carlo V, che doveva regnare con il consenso dei principi e dei feudatari. La religione era un importante elemento in questo equilibrio precario, a sua volta in relazione con il papato, con le altre monarchie europee e minacciato dalla Turchia nelle frontiere sud-orientali.
Quando Bruno entra novizio a Napoli dunque, Lutero aveva da tempo prodotto lo scisma che aveva ingenerato l’allontanamento di ampie regioni dell’Europa del Nord dalla Chiesa di Roma. La stessa penisola non era rimasta immune alla Riforma: le classi colte, imbevute dello spirito umanistico e laico del Rinascimento, che vedevano nella riforma, soprattutto legata allo Zwingli e a Calvino, un’affermazione della classe borghese rispetto al tradizionalismo della Chiesa romana. Il movimento aveva preso piede anche tra il clero sia con posizioni estremiste sia con posizioni moderate. Nel corso del XVI secolo si diffusero in Italia diversi circoli di simpatizzanti protestanti, fra i più importanti quelli di Venezia, Napoli e Ferrara.
D’altro canto la Chiesa, per arginare queste frammentazioni, operò su due fronti: quello romano con un proprio tribunale dell’Inquisizione ed un secondo, dove grazie alla corona spagnola, ebbe un braccio secolare che doveva provvedere a riportare l’ordine e stroncare tutti i movimenti che avrebbero potuto sobillare altri scismi all’interno delle regioni d’Europa. Il Concilio di Trento, che durerà dal 1545 al 1563 è il modo con cui la Chiesa rivide se stessa, il proprio operato ed il proprio ruolo nel nuovo scenario che si era venuto a creare. Tesa a riaffermare il proprio potere sulla popolazione e a non perdere il ruolo di porta celeste, non esitò a scacciare con vigore qualunque idea che potesse anche vagamente essere giudicata eretica. La repressione in una prima fase fu durissima. Successivamente il Tribunale assunse il compito di giudicare i libri, ne furono messi al bando centinaia, ed i neo convertiti al cristianesimo. Agli inquisitori fu anche chiesto di sorvegliare l’attività di persone, sospettati di crimini ideologici.
Proprio i crimini ideologici furono il motivo di condanna di Bruno e di Campanella. I due pensatori, entrambe domenicani, seppur pressoché contemporanei e su posizioni simili, vissero esistenze travagliate e differenti. Come ricordano i relatori, Giordano Bruno ha una visione della storia come “ciclo di eventi”, mentre Tommaso Campanella ha una visione più improntata sulla causalità. Mentre quest’ultimo è convinto della affermazione nella storia, il primo non ne avverte il motivo. Entrambe convinti di una religiosità più concreta e scarna, senza “le allegrezze della Vergine”: Bruno subirà un primo processo, avvenuto tra il 1566 e il 1567, dovuto ad accuse per il disprezzo delle immagini dei santi, a cui ne farà seguito un altro dieci anni dopo, che lo costringe a ritirarsi prima a Roma, dove, per un breve periodo, viene accolto nel convento di Santa Maria sopra Minerva (lo stesso in cui Galilei, nel 1633, avrebbe abiurato la teoria copernicana), e poi in Liguria, a Noli.
Entrambi entrati in convento per amore del sapere e della conoscenza. Se il Nolano volge la sua ricerca ad una sfera più solitaria e distaccata dalle cose del Mondo, il secondo è molto più pragmatico e concentrato sulla geografia politica del tempo. Mentre uno parla di “infiniti Mondi” l’altro invece, più prosasticamente si pone il compito di pensare e di realizzare, concretamente una città, dunque un’aggregazione politica, cosa che, a dire dei relatori sfugge completamente al Nolano. È Campanella, sottolinea il Professor Ricci, “a vedere nel cristianesimo cattolico un qualcosa che doveva essere riformato, con l’abbandono del latino, con la conversione di una forma religiosa in una forma di filosofia diffusa”. È Campanella a proporre la secolarizzazione del Cristianesimo, laddove Bruno lo abbraccia, lo sconfessa per amore di conoscenza, per poi riabbracciarlo. Sarebbe dunque Campanella e non Bruno ad avere idee più assimilabili a posizioni eretiche. Sono entrambe antiluterani, ed entrambi convinti che il Cristianesimo vada riformato. Tuttavia il frate nolano ha posizioni più antipapali, che lo porteranno ad abbracciare per un breve periodo la causa calvinista. Entrambe si discostano dalle idee di Aristotele. Campanella abbraccia le teorie di Telesio e Cardano. Bruno, come attestano le sue lezioni ad Oxford tenute sull’immortalità dell’anima, apertamente nega le tesi aristoteliche al punto da risultare inviso anche all’ambiente universitario. Trasferitosi in Inghilterra nel 1583, pubblica subito dopo il suo arrivo, l’Ars reminiscendi, e nel giugno di quell’anno tiene ad Oxford diverse lezioni, negando le tesi dello Stagirese. Questo suo atteggiamento gli provoca l’ostilità da parte dell’ambiente universitario. Nel 1584 vedrà la luce il primo dei «dialoghi morali», lo Spaccio de la bestia trionfante, a cui seguiranno La cena de le Ceneri, il De la causa, principio et uno, il De l’infinito, universo et mondi, tutti permeati da un tono di aspra critica nei confronti dell’aristotelismo allora dominante e della «pedanteria» degli accademici inglesi, e pubblicati nel 1584 presso l’officina di John Charlewood. Nel 1585 viene pubblicato la Cabala del cavallo pegaseo, una feroce critica dell’intera tradizione giudaico-cristiana – ed infine De gl’heroici furori.
Frattanto il domenicano calabrese pensa al cristianesimo come ad una forza di liberazione del Mondo, una filosofia politica che possa condurre alla creazione della organizzazione politica universale, un’unica monarchia che possa essere la risposta a tutte le afflizioni e ai mali sociali. Questa visione porterà Campanella alla composizione, nel 1602 in volgare fiorentino e nel 1623 in lingua latina, dell’opera la Città del Sole, un importante scritto di carattere utopico, dove l’autore pone a capo di questa fantasmagorica città il Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, pur presupponendo razionalmente che coincida con la religione cristiana. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifà a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517). Quest’ultimo, scrittore e cancelliere cattolico, era stato condannato a morte nel 1535 dai riformisti anglicani, gli stessi che avevano accolto Bruno.
Ponendo a capo di questa fantasmagorica città il Metafisico, un re-sacerdote volto al culto del Dio Sole, un dio laico proprio di una religione naturale, di cui Campanella stesso è sostenitore, Campanella sembra sconfessare la posizione del cristianesimo ma, di fatto, presuppone razionalmente che questo culto del Dio Sole coincida con la religione cristiana. Dunque come Bruno è per istanze, più prossimo alla religione cristiana rispetto al rito calvinista, così Campanella non si discosta dal cristianesimo, attribuendo alla figura del re-sacerdote tutta la sapienza, così come era propugnato negli ambienti più filopapali dell’epoca. Nel delineare la sua concezione collettivista della società, Campanella si rifece a Platone (V secolo a.C.) e all’Utopia di Tommaso Moro (1517). Quest’ultimo, cancelliere e scrittore cattolico, era stato condannato a morte nel 1535 dai riformisti anglicani, gli stessi che avevano accolto Bruno nel 1583, quando giunse, al seguito dell’ambasciatore francese Michel de Castelnau.
Il discorso utopico di Campanella, che era stato preceduto anche da La nuova Atlantide di Francesco Bacone, partiva dal presupposto che, poiché non si poteva realizzare un modello di Stato che rispecchiasse la giustizia e l’uguaglianza, allora questo Stato si ipotizzava, come aveva fatto a suo tempo Platone. Tuttavia mentre Campanella tratta una realtà utopistica, Niccolò Machiavelli a cui si rifece anche Bruno, ricordano i relatori, resta un precursore della visione politica unificatrice. L’autore de Il Principe rappresenta la realtà concretamente, e la sua concezione dello Stato non è affatto utopistica, ma assume una valenza di metodo di governo, finalizzato ad ottenere e mantenere stabilmente il potere.
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