Nel 2018 trecentocinquant’anni dalla nascita di Giambattista Vico – II mito in Gian Battista Vico

Napoli e Campania Maze ne parlano ancora

Ivana Vacca

II mito in Gian Battista Vico

La speculazione vichiana trae origine dalla critica al cartesianesimo e alla cultura accademica, dogmatica e scolastica ancora dominante durante la sua epoca. Cartesio aveva basato la sua gnoseologia sul criterio dell’evidenza, dell’idea chiara e distinta. Il modello di conoscenza sulle quali tutte le altre discipline avrebbero dovuto riformarsi era quello della geometria. Di conseguenza “tutto quel sapere non ancora ridotto o non riconducibile a percezione chiara e distinta e a deduzione geometrica, perdeva ai suoi occhi valore e importanza”, tale era la storia, l’osservazione della natura non matematizzata, la saggezza pratica e l’eloquenza, nonché “la poesia, che offre immagini fantastiche”.

Ad una cultura imperante critica ma sterile, che riduceva ogni cosa a discipline analitiche come logica e matematica, Vico oppone una scienza nuova, più legata alla sensibilità, nel segno caratteristico del pensare rinascimentale: “la barbarie dell’intelletto, così vigorosa di fantasia e di memoria, richiede di essere nutrita ed esercitata con la lettura dei poeti, storici e oratori e con l’apprendimento delle lingue. L’arte che si deve insegnare non è la critica ma la topica, la vera arte dell’ingegno, ossia della facoltà di inventare”.

La topica, la scienza dei luoghi comuni che la retorica raccomanda come primo atto di costruzione di un discorso, ha la proprietà di dare corpo e vita nuova alle parole ed agli esempi del passato, grazie all’analogia col fatto presente. Ciò non attiva la ‘copia’ né conduce a ‘leggi’, suggerisce nuovi punti di vista, come fa ad esempio il pittore che dipinge e incornicia un solo sguardo sul mondo. Il mito, meglio della storia, non si identifica coi fatti ma resta aleggiante sopra le cose, mostrando meglio l’analogia senza confondere.

Il mito non è quel che definisce l’approccio borioso dei dotti, ingegnoso rivestimento popolare” oppure “prodotto o strumento di svago e di voluttà”. Piuttosto è l’affermazione di un sapere pieno di sensibilità mentre i filosofi “professavano di ammortire tutte le facoltà dell’anima che provengono dal senso, e specialmente la facoltà di immaginare, che detestavano come madre di tutti gli errori. I poeti erano da essi condannati col falso pretesto che raccontassero favole: come se quelle favole non fossero le eterne proprietà degli animi umani, che i filosofi politici, economici e morali ragionano e i poeti presentano in vivi ritratti.”

Per Vico “niente è nell’intelletto che prima non sia nel senso”, nega quindi l’innatismo cartesiano in quanto, dice, contiene in sé il germe dello scetticismo che Cartesio pure intendeva scongiurare, ma la direzione logico-critica porta alla specializzazione dei saperi in un sapere frammentario che non tiene conto del sensibile non ridotto in scienza analitica. “Poiché l’uomo è mente e animo, intelletto e volontà” per Vico “il sapiente è l’uomo nella sua totalità e centralità, l’uomo intero”. L’importanza che il mito e le favole degli antichi rivestono nella speculazione vichiana deriva quindi dalla sapienza antica: ecco la sua affermazione del Verum ipsum factum, il principio gnoseologico universale secondo cui è possibile avere conoscenza vera di qualcosa solo da parte di chi ne è l’autore. E questo motto viene argomentato in modo mitico.

Nel “De antiquissima Italorum sapientia” Vico attribuisce agli antichi abitanti della penisola la dottrina secondo cui i concetti di ‘vero’ e ‘fatto’ sono identici. In tal modo solo Dio, che è l’autore di tutto, può conoscere con verità il mondo. L’uomo può conoscere veramente solo ciò che lui stesso ha creato, solo il mondo umano, così, quindi, la matematica (scienza arbitraria, senza nessuna corrispondenza con la realtà) e, soprattutto, la storia, ma non la teologia, la scienza e la metafisica. Quest’ultima infatti resta qualcosa che si avvicina ad un’ipotesi, empio è il tentativo di comprenderla. Della natura l’uomo può avere solo coscienza e non scienza. L’estetica, in quanto ‘filosofia della fantasia’, invece, è vera conoscenza umana, è il regno del verum ipsum factum. Così vengono declassate le discipline predilette da Cartesio e risollevate quelle che lui aveva svalutato.

Il filosofo napoletano riserva, quindi, un ruolo importante alla fantasia. Del resto “il principio del Verum factum implica che alla ragione sono indispensabili, per funzionare, elementi che o le sono forniti dalla fantasia, come accade nelle scienze matematiche, o le sono dati dai fatti in cui si concreta l’azione, come accade nella conoscenza storica. Senza questi elementi o dati, la ragione umana sarebbe impotente a procedere, a differenza dell’intelletto divino che non ha bisogno di nulla fuori di sé, perché intende creando o crea intendendo”.

La ‘storia ideale eterna’ si sviluppa attraverso tre stadi: divino, eroico, umano. Nelle prime due età la storia è dominata dai sensi e dalla fantasia ed è caratterizzata dalla poesia. “La sapienza poetica, che fu la prima della gentilità, non fu ragionata ed astratta, ma smentita e immaginata, conformemente alla natura di quegli uomini” che erano “di niuno raziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie”. Secondo Vico gli antichi avevano una diversa forma mentis rispetto ai moderni: “di nulla erano astratte, di nulla assottigliate, di nulla spiritualizzate, anzi tutte profondate nei sensi, tutte rintuzzate dalle passioni, tutte seppellite nei corpi”.

Per Vico la conoscenza umana è dapprima mitica e poetica e, solo più tardi, razionale e storica. In una delle sue Degnità, ovvero gli assiomi che regolano le azioni delle genti, il filosofo afferma “la fantasia tanto è più robusta quanto è più debole il raziocinio”. Così in un’altra famosa Degnità afferma “gli uomini prima sentono senza avvertire, poi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura”. La mitologia è la forma originaria di conoscenza e di espressione dell’uomo ed è un discorso fatto di favole ed alimentato dalla vasta immaginazione propria della mentalità primitiva. È il linguaggio attraverso cui, ai primordi dell’umanità, venivano raccontate quelle che Vico chiamava le ‘favole vere e severe’, in quanto capaci di dischiudere gli orizzonti della verità e dell’eticità.

Nella Scienza Nuova si legge: “In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, come fanciulli del nascente genere umano, quali gli abbiamo pur nelle Degnità divisato, dalla lor idea criavan essi le cose, ma con infinita differenza però dal criare che fa Iddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento, conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro robusta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissima fantasia, e, perch’era corpolentissima, il facevano con una meravigliosa sublimità, tal e tanta che perturbava all’eccesso essi medesimi che fingendo le si creavano, onde furon detti ‘poeti’ che lo stesso in greco suona che ‘criatori’”.

Dalla fervida fantasia dei primi uomini nasce una ‘metafisica’ delle origini, ovvero una metafisica non ragionata e basata sui concetti, come sarà quella moderna, ma ‘poetica’, ‘sentita’ e ‘immaginata’. Essa coincide con le favole dei primi metafisici, i quali furono anche i primi poeti e i primi teologi. I primi uomini hanno tentato, così, di spiegare i fenomeni come farebbero i bambini e hanno immaginato gli dei come causa degli effetti naturali esprimendo la loro visione del mondo mediante immagini poetiche, anziché formulare concetti astratti. Così “gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che producon le cose […] danno alle cose la loro propia natura, come il volgo, per esempio, dice la calamita esser innamorata del ferro”.

Le favole assolvono, nelle cosiddette ‘nazioni gentili’, una funzione didattica. “La poesia non è nata per capriccio di piacere, ma per necessità di natura”, ed essa ha il compito di “ritrovare favole sublimi confacenti all’intendimento popolaresco, e che perturbi all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto, d’insegnar il volgo a virtuosamente operare”.

Vico polemizza riguardo all’approccio adottato da Francis Bacon sul mito nel De sapientia veterum, da cui pur prende le mosse per la sua riflessione. Bacon, accostando il mito alla parabola, intravede nelle favole degli antichi un mistico linguaggio divino, che parla agli uomini attraverso allusioni e metafore. Il De sapientia veterum scava all’interno del passato culturale per recuperare e rivendicare il tesoro di intuizioni sepolto dalla metafisica platonico-aristotelica e dalla tradizione scolastica, quasi vi fosse stato, presso gli antichi, un livello intellettuale superiore, poi dimenticato.

Per il filosofo napoletano il mito non assolve la funzione di trasmettere verità come in Bacone. Da un lato Vico condivide il punto di vista prevalente tra i suoi contemporanei e sottolinea l’ignoranza, nonché l’egemonia della fantasia, nelle prime fasi dell’incivilimento; dall’altro, però, egli pone l’accento sul fatto che le nazioni gentili raggiungono i livelli avanzati della civiltà e della scienza “in virtù del loro stesso esser sorte sotto l’imperio della fantasia e dei miti, poiché questi hanno creato le condizioni del costituirsi dei rapporti civili”. Nel mito vi è il germe dello sviluppo storico dell’umanità. Con la sua capacità poetica, l’uomo immette nel suo rapporto con la natura un sovrappiù di senso e questo gesto ermeneutico è un gesto fondativo, non solo perché fonda il mito, ma perché attraverso il mito, apre un mondo, dà avvio al tempo storico e istituisce la stessa umanità dell’uomo.

Per Vico il mito è inaugurazione del mondo umano, come “un ‘rammemorare’ l’origine linguistica del mondo e l’istituirsi delle molteplici forme storiche entro l’apertura del linguaggio”. In tutta l’opera vichiana infatti, come si è visto per il verum factum, assume valore fondante l’indagine etimologica, considerata una via privilegiata per ‘rammemorare l’origine’. In quest’ottica anche la Scienza Nuova, in quanto scienza empirica che mette insieme filosofia e storia dell’umanità, può essere considerata “un’articolata strategia di rammemorazione per recuperare il movimento dell’ermeneutica originaria del mondo”. Del resto lui, docente di rettorica, era portato continuamente a meditare riguardo alla poesia e alle forme del linguaggio. Il fondamento della conoscenza estetica è la ‘forma fantastica del conoscere’, appunto la poesia e il linguaggio. Nella poesia, e quindi nel mito, vi è l’origine delle lingue.

Nel terzo libro della Scienza Nuova, vi è chiarificata la cosiddetta ‘questione omerica’. Dato che la poesia è una attività fantastica pre-razionale tipica della mentalità mitica dell’umanità primitiva, aliena alla riflessione cosciente, la poesia omerica va letta per quella che è senza sovrapporle significati derivanti da una mentalità posteriore e da successive tendenze culturali. La poesia omerica deve essere interpretata non come manifestazione di una riposta sapienza filosofica, ma come espressione spontanea della mentalità mitica dei popoli arcaici. L’Iliade e l’Odissea vanno viste, quindi, nel loro legame con il mondo da cui sono sorte, con le tradizioni, le istituzioni e i costumi propri dell’età eroica dei greci.

Vico arriva alla negazione della personalità storica di Omero. Omero però, non sarebbe un’entità fittizia bensì, “lo stesso popolo greco che, attraverso la voce dei suoi rapsodi, ha preso coscienza della sua storia”. “Invece che a uno o due poeti singoli, si pensa ad un popolo intero poetante”.

Il concetto della poesia e del mito che emerge dalla dottrina vichiana sottrae la poesia all’attività intellettuale o raziocinante e le attribuisce una funziona autonoma, in quanto essa è appunto spontanea. Della sapienza poetica, oltre al mito, fa parte anche il senso comune, che guida il diritto naturale e quindi l’insieme delle norme e delle istituzioni che servono al vivere in comunità. In ultima analisi “la dottrina vichiana della sapienza poetica vuol essere così l’accertamento, fondato su prove filologiche, della presenza nel genere umano, fin dai suoi primordi, della coscienza dell’ordine storico che dirige la storia. Per quanto adombrato in immagini, in miti, in personaggi fantastici, quest’ordine è presente nella sapienza poetica e stimola gli uomini con tanta maggiore efficacia in quanto agisce, non attraverso la riflessione, ma attraverso il senso”.

Del resto il compito principale che Vico si è assunto nella Scienza Nuova è la dimostrazione che la storia umana è un ordine e che tale ordine consente, meglio di quanto non faccia quello dettato dal mondo naturale, di risalire alla provvidenza divina come causa prima.

GF Vacca Nel 2018 trecentocinquant’anni dalla nascita di Giambattista Vico