di C. Gily Reda
Il terribile dono del fuoco, il dono di Prometeo così difficile da accettare, per le speranze deluse che sono congiunte ad esso: è meglio evocato dall’immagine del suo tormento, come in questa immagine con l’aquila che distrugge regolarmente la sua forza – il suo fegato così eroico. Così è nella tragedia antica, punto di partenza del suggestivo e profondo libro di Massimo Iiritano, che una volta di più conduce la riflessione su di una sinfonia di consensi e dissensi, com’è dei dialoghi del fondamento dei discorsi umani, anche nella filosofia che non si fa teologia classica ma ne echeggia i problemi nel mondo della morte di Dio.
L’interesse dei saggi, per chi scrive, si lega ad alcuni temi, nuovi e come sempre ben posti: ho già discusso con lui su questo giornale più volte di Sergio Quinzio e di Collingwood. Qui vorrei fare spazio a due autori essenziali per tutte le filosofie del ‘900, oggi però molto meno presenti di una volta, cioè Kierkegaard e Dostoevskij. Un duo che si dimostra una volta di più fonte bene scelta, capace di far sgorgare problematiche attuali. È il caso di quella che oppone mediazione e paradosso, riportata in vita nella politica e nella società dallo scompaginamento delle argomentazioni tradizionali. Prima causa di ciò è la rinascita dell’infinito, discorsi tutti protagonisti che non consentono più l’orizzonte ordinato di una cultura. Si è trasformato in un accumulo di big data il campo dei ragionamenti infestato da mille parole senza mutuo ascolto. I blog dibattono in modo forsennato le questioni del quotidiano, e così hanno trasformato la discussione in un tumulto di folla; non ci sono ancora retori capaci di prendere la guida di queste folle, e se ci sono non si tratta di retori ma di capipopolo. L’argomentazione paradossale non riesce nemmeno a diventare mito, ma diventa il contenuto dei giornali ormai ben lontani da poter essere definiti, come diceva Antonio Labriola. La preghiera del mattino dell’uomo moderno.
La mediazione viene meno nei discorsi pubblici come nei privati, la giustizia si muove nei toni della contesa spiccia, si stenta a identificare i rei per via di continue fake news che si rincorrono per decenni. L’opposizione ha assunto vesti molto diverse da quelle ottocentesche, riprendere le tematiche dell’aut aut e della morte di Dio consente di cogliere le prime scaturigini del male, mentre compare l’unica parola che potrebbe essere la via d’uscita dalle strettoie mortali di questi opposti che non sanno trovare una mediazione nei dialoghi ormai impossibili per assenza di ascolto. L’occasione che si sostituisce alla possibilità, riporta in campo l’azione individuale nella storia, la possibilità di coglierla, di combattere la mancanza di senso. Basta con la disperazione che ironizza su tutto fino a diventare sarcasmo, facendo decadere il dono di Prometeo nel nulla. Perché Prometeo non fu solo venditore di speranza avvolta di fumi mortali. Non merita solo la presa in giro evidenziata crudelmente dall’aquila roditrice. Prometeo aveva regalato anche ‘il cotto’, come diceva Levy Strauss, la categoria anti-primitiva del nutrirsi; aveva regalato l’agape oltre il nutrirsi, il cibarsi in comune guadagnando le piccole, fruttuose, dolci conquiste di civiltà.
E se Vico ebbe ragione, è questo andare oltre il semplice bisogno, cioè l’andare verso il meglio, che davvero giustifica il vivere degli uomini in società. Lo stato di natura di un branco non è quello dell’uomo, non è solo una riunione di caccia. L’uomo medita e sceglie, coglie l’occasione, collabora attivamente con la misteriosa logica degli eventi, che infatti Vico chiamava Provvidenza… non certo pensando che fosse una madre gentile. Intesa come consensus gentium, è la possibilità che si realizza vittoriosamente, oltre la volontà di chi agisce – per quanto buona sia un’azione, per quanto ben pensata, senza il lavoro delle genti che approva, continua, trasforma l’azione egoistica in cura dei figli… nessuna buona intenzione diventerebbe fattore veramente umano di progresso.
Triste la sorte di Giobbe, però avere coscienza storica del Caso, del Kairos, della poca argomentatività della Fortuna… non diventa perciò stesso il problema del male radicale, che deriva da queste riflessioni. Esse provocano una saggia lontananza dai problemi urgenti, e così consentono di ritrovare l’ascolto lento, che modula il problema costante dell’esistenza – la sua fragilità – che rimanda alla fede, l’unica forza di superarla. Sono temi che lo storicismo, ma in genere il pensiero del 900, hanno meditato a lungo, dando idee luminose che in genere però non hanno goduto di riconoscimento, non sono diventati abito culturale, troppo spesso inclinando al terremoto della coscienza storica che non sempre sa evitare la maledizione – come si dice nel saggio sul tema davvero suggestivo del rapporto di Thomas Eliot e Robin Collingwood, autori diversi che risentono del mood del ‘900: secolo in cui anche chi segue percorsi costruttivisti non può fare a meno di impallidire nello sfondo nichilista che va per la maggiore. E nemmeno i più ottimisti riescono a rievocare l’entusiasmo del Rinascimento e dell’Illuminismo, un tesoro perduto alla fine del ‘700.
La punta massima dell’interesse però è, sempre per chi scrive, il saggio sul film di Dreyer Gertrud, e non è un caso perché le cose più belle di Massimo Iiritano sono per me quelle che riguardano il pensare per immagini, illuminato da Iiritano nel classico con Gioacchino da Fiore, nel contemporaneo con Ruskin e Collingwood. Ha saputo trarne spunti di riflessione molto interessanti, regalando agli amici nuove traduzioni e riflessioni: il pensare per immagini è un tema importante del nostro tempo che trova in un film teatrale come sono spesso i lavori di Dreyer un punto centrale di osservazione. Proprio questa scarsa attualità nello stile filmico è una scelta compiuta per riconoscere nel predominio del linguaggio che così si caratterizza la giustezza dell’osservazione di Kierkegaard che così caratterizzava la commedia moderna – dando spunto a Nietzsche.
Eppure nel film il linguaggio diventa volto; così conquista l’estasi dell’esistenza e la strana possibilità di dire con la sua solitudine totale una intima compassione che sfuggiva alla parola. Ecco che il lavoro fatto da Deleuze sull’immagine movimento sa indicare il modo in cui avviene questo intimo mutare delle coscienze: nel tempo in cui la coscienza non ha più un Coro a condividere la tragedia, il volto porta su di sé il peso intero della libertà, evidenziando una tragedia in questa conquista terribile forse, ma formatrice, datrice di forma, arte e bellezza – da tutti esaltata tranne che appunto da Kierkegaard. L’estetica così mostra d’essere una solitudine tragica, lo specchio di un dialogo che non sa evadere l’effimero, non sa amare e agire, in cui l’esibizione pare l’unica soluzione: ricompare l’aut aut di Kierkegaard – ma nelle vesti che il 900 fa diventare film di un’azione che diventata il vero mistero per l’uomo, ridotto a paralisi dall’incomprensibilità del suo mondo.
Anche se va riconosciuta la forza di questo impatto, volgendosi cioè non all’adattamento al mondo dell’uomo ma alla pretesa di volere l’impossibile… pur riconoscendo che è proprio questa folle pretesa a generare nell’uomo il potere e la vittoria sugli eventi, ma anche sui dubbi e le sconfitte… il lamento di Giobbe, e prima il motto di Sileno (meglio non esser nato…) … insomma, senza togliere nulla all’importanza di questa impostazione… pure va detto che non è questa l’unica chance utile a dare senso al dono di Prometeo.
Come accennavo si tratta pur sempre di un dono. Imposterei questa differenza come la distanza tra la mistica maschile (non è questione di sessi ovviamente) e quella delle donne, quella cioè bene descritta nel bel libro di diversi anni fa di Luisa Muraro (Il Dio delle donne). In termini filosofici, nei pensatori della storia come in altri teologi, è questa seconda impostazione del discorso che sorregge il discorso verso un ottimismo che sa recuperare il ruolo dell’azione nella storia. Se la mente umana vive troppo poco per potersi paragonare ai saperi divini, lo Spirito di Laplace onnicosciente e onnisapiente è solo la metafora di Dio: per quello spirito, il caso non esiste, tutto è causato da azioni; ma per l’uomo, il Caso è la triste constatazione di ogni giorno. Cui però si può rispondere con ira, col lamento, ma anche con la fede, con il Non abbiate paura di Giovanni Paolo II, agendo per cambiare le cose – qui il compito dell’uomo piuttosto che giudicare l’operato divino diventa argomentativo, recuperando sul paradosso dell’opposizione la possibilità di individuare l’istante in cui il bene si converte nel male e viceversa.
Meditare la nuova morale di questi tempi, capire la nuova era che ‘800 e ‘900 hanno creato con poca coscienza di sé, sono allora i fini del pensatore costruttivista: non è l’unica via, occorre ogni tanto anche piegarsi sulle lacrime e capire il limite del mondo della possibilità, trasformandolo in occasione. Il rischio indica certo la possibilità di sbagliare, che non : ma chi non sia sicuro come lo scienziato del progresso lineare e sempre in cammino, non contesta che le possibilità del meglio sono state per lo più sfruttate dall’uomo. Di più, come diceva Vico, se occorre sempre difendere le conquiste perché il regresso è in agguato, è anche vero che se esso può essere più crudele, ma non riporta l’uomo nelle caverne – lo stato di natura in cui fonda il diritto naturale, è pur sempre uno stato umano. Ancor prima, c’è l’animale, la morte dell’uomo. Dalle crisi l’uomo suole uscire con molte ferite, ma anche con nuova volontà di ruggire e vincere.
Un libro, come si vede, molto bello da leggere e da discutere.
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