di GUIDO DE RUGGIERO |
“La Cultura” ANNO XXXI – N.4, pp. 99-108 15 febbraio 1912
Conferenza al Circolo di filosofia di Roma.
Molti s’illudono oggi che la cattiva stella che ha perseguitato la filosofia nel secolo scorso abbia finalmente cessato di produrre i suoi malefici effetti, e che la filosofia vada trionfalmente riconquistando il posto che le spetta nel dominio della cultura. Niente di più falso. Nessuna cattiva stella ha mai perseguitato la filosofia, e questa, nel senso pieno della parola, è oggi, come ieri, come un secolo fa, geloso possesso di un’aristocrazia ristrettissima di pensatori. Il presunto risveglio della filosofia ai nostri giorni non è invece che il trasferimento dell’interesse filosofico da quella ristretta aristocrazia, e dall’aristocrazia più vasta e più modesta di coloro che cercano di rivivere in sé il pensiero della prima, a un immenso teatro, dove il pensiero speculativo non può più conservarsi nella sua purezza, ma si fonde con svariati interessi, letterari, scientifici, sociali, pratici, e finisce col perdersi in un dilettantismo a metà scettico, che sa più cose che non gli bisognino, e perciò include, nel fastidio di se medesimo, quello di tutto ciò che tocca.
Noi traversiamo un nuovo periodo d’illuminismo; ma portiamo con noi un bagaglio di cultura e di scetticismo assai maggiore che non i nostri antenati del secolo XVIII; perciò siamo privi dei loro entusiasmi e della loro fede: veri arrivisti della cultura, essi avevano la forza rude degli arrivisti; e ciò li ha salvati dalla taccia di dilettanti, da cui non potremmo salvarci noi moderni.
Uno degli esempi più caratteristici di questo dilettantismo è dato dall’interesse, a volte addirittura morboso, che suscitano certe filosofie, non già pei loro pregi e caratteri intrinseci, il cui apprezzamento richiede una determinata educazione mentale, ma per certe doti o difetti appariscenti, facile conquista della mentalità illuministica contemporanea. Così è avvenuto dalla filosofia del Boutroux, del Bergson, del Blondel in Francia, del Mach in Germania, del Croce in Italia. Il gran parlare che si fa di questi pensatori è accompagnato, di solito, da una discreta inintelligenza dei motivi essenziali delle loro opere. Il profondo e geniale Blondel vien portato sulle palme da una turba di preti che vogliono atteggiarsi a modernisti; Mach vien celebrato da coloro che disprezzano le scienze naturali, che non conoscono; Bergson fa andare in visibilio i romanzieri mancati, che vogliono a tutti i costi immergersi nel flutto del reale e sentirne il ritmo vitale.
Per questa via, la figura dei pensatori si svisa; al giudizio su di essi si sostituisce I’etichetta; e, quando si vuol cercare poi di contemplarne l’opera, a faccia a faccia, ci si trova irretiti in tali e tanti pregiudizi, che si dura fatica a liberarsene. Di qui la grande difficoltà di ripensare l’opera degli scrittori che ho citati; ma di qui anche la necessità di ripensarla. Un tentativo solo non basta, a porre una di quelle complesse figure nella sua vera luce; donde l’opportunità di una serie di sforzi concordi, di uno studio delle opere e non di un riecheggiamento scettico o sentimentale di esse; insomma di creare a poco a poco la storia della filosofia contemporanea.
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La filosofia francese, fin dai tempi più remoti, ha preso le sue mosse dalla psicologia, e si è sempre orientata intorno a questa. La filosofia del secolo XVIII è figlia della psicologia sensualistica; la filosofia della restaurazione toglie le sue insegne alla psicologia degli scozzesi; li arieggia, senza troppo staccarsene, col Royer Collard e col Larromiguière; cerca poi di spiccare il volo verso la metafisica con la scuola eclettica del Cousin. Le tradizioni dell’eclettismo si continuano nella nuova scuola spirituaIistica, fondata dal Ravaisson: anche questa infatti cerca di fondere psicologia e metafisica: accoglie il dinamismo di Maine de Biran, e per estenderlo a tutta la natura, ricorre alla monadologia leibniziana. Ma col concepire il reale come svolgimento psicologico essa si preclude la via alla comprensione di tutto ciò che non è psiche o vita: la realtà è un gran fiume che scorre perennemente, e il corso delle onde è irreversibile. Come spiegare allora la stasi, la materia, nel fluire perenne delle cose? Ed ecco intervenire il miracolo; il dio che annienta la sua essenza per risorgere dalle proprie ceneri: la materia così interviene come un’interruzione del corso vitale; un’interruzione brusca e inesplicabile, perché il corso vitale non torna mai indietro e neppure si ferma. Questa concezione del Ravaisson noi la ritroveremo in Bergson.
II nuovo spiritualismo non è il solo che ricorra a Leibniz; si può dire che tutta la filosofia francese è penetrata da questa dottrina. Il neo-kantismo del Renouvier è impotente a reggersi, con la sua concezione meramente empirica del soggetto: il fenomeno invece postula un vero soggetto. Ed ecco risorgere la monade Ieibniziana, nell’ultimo stadio della filosofia del Renouvier. L’empirismo gnoseologico sconfina nella metafisica.
La Francia è il paese che meno ha avuto paura della metafisica, negli ultimi cinquant’anni; quando questa veniva screditata dagli empirici. Ciò è perché il positivismo, sorto in Francia, non ha quivi fatto buona presa. L’insegnamento universitario di pensatori poderosi, come il Lachelier, ha contribuito ben presto a metterlo da parte. E, mentre in altri paesi, la vittoria dell’idealismo sul positivismo segnava un’era solo all’apparenza nuova, ma che in realtà aveva di nuovo il nome: alludo al fiorire, anzi al pullulare delle dottrine della conoscenza, tutte tronfie dell’etichetta neo-kantiana, e tutte ombre smorte del kantismo; in Francia invece s’è ben presto compreso che il problema del conoscere non si poteva separare da quello dell’essere; la gnoseologia dalla metafisica; e col Lachelier e la sua scuola, la dottrina della scienza ha portato il suo buon contributo alla metafisica, come già la psicologia aveva portato il suo.
Cosi nell’opera di revisione dei concetti delle scienze naturali, la Francia s’è trovata fin dal principio preparata assai meglio degli altri paesi. Forte della sua concezione psicologica, dinamista della realtà, essa ha contrapposto questa filosofia alla scienza meccanica della natura; e, cominciando col porre un argine alle pretese di quest’ultima, che mirava ad invadere il suo dominio, ha creduto, poi, che la scienza, non che incapace a invadere, fosse incapace a difendersi, e l’ha incalzata fin nel suo proprio territorio. Emilio Boutroux è stato tra i primi in questo lavoro di dissoluzione della compagine del meccanismo scientifico. Dopo di lui, moltissimi hanno ritentato la prova, e con apparente successo: in ogni meccanismo basta infatti smontare pochi congegni, perché tutta l’opera demolitrice sia assai facile.
Ma altra cosa è smontare, altra spiegare: la filosofia del Boutroux smonta e non spiega la scienza. Ciò che v’è di vero nel contingentismo e l’esigenza che esso pone di una dottrina della scienza: ma il meccanismo scientifico non si spiega soltanto con lo smontarne i pezzi, ma assai meglio col ricomporli. A quest’opera la filosofia del Boutroux è del tutto inadatta. Sorta dalla classificazione comtiana delle scienze, essa porta con sé il falso presupposto che la logica sia il gradino più basso delle costruzioni scientifiche e includa in sé solo le forme astrattissime e vuote delle relazioni, sì che ogni determinazione dell’essere e del sapere sfugga ai suoi schemi ed implichi qualcosa di contingente. Credendo così di risolvere il determinismo scientifico, il Boutroux non fa invece che annullare le pretese della logica formale a una comprensione integrale della realtà.
Ma Boutroux non risolve neppure il problema che s’è proposto: la contingenza nelle forme e nei gradi dell’essere e la irriducibilità di essi alle forme e ai gradi inferiori: ma qual è la forza produttrice di quella complicazione crescente, di quella ricchezza via via maggiore del reale?
A questo quesito cercherà di rispondere Bergson, e compirà lo sforzo di comprendere in una continuità più potente la discontinuità stessa, segnata dal Boutroux.
In conclusione di questo rapido excursus nella filosofia francese, noi abbiamo: una psicologia e una dottrina della scienza col loro centro di convergenza nella metafisica; un monadismo leibniziano ravvivato, e dirò così, penetrato, da una corrente psicologica; e infine una dottrina della contingenza, che, criticando le pretese della scienza meccanicistica, critica in pari tempo quel meccanismo a rovescio, che è il finalismo leibniziano. Il problema che la filosofia francese prepara a Bergson è il seguente: come conciliare contingenza e finalismo? Come epurare il dinamismo di Leibniz dei residui del meccanismo, che gli danno un’apparenza del tutto statica, e come concepire veramente il progresso delle forme del reale? La filosofia della contingenza ha detto che la colpa della caduta di quel dinamismo tocca alla scienza naturale. La risposta al problema non può esser data che dalla psicologia: bisogna intensificare la corrente psicologica e penetrare viepiù di essa la natura. La filosofia di Bergson è la continuazione di quella di Ravaisson.
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Nello svolgimento del pensiero bergsoniano dobbiamo distinguere tre fasi, che possiamo indicare coi nomi di psicologica, gnoseologica e metafisica. Esse coincidono con la pubblicazione delle tre opere maggiori: l’Essai sur les donées immédiates de la conscience; Matière et mémoire; e l’Evolution créatrice. Queste tre fasi corrispondono allo svolgimento di un solo e medesimo problema, nella mente del Bergson; problema, che per il fatto stesso del suo ampliarsi, non entra più nei quadri, della psicologia prima, della gnoseologia dopo, e svela infine la sua natura metafisica.
Bergson esordisce, come ho detto, con la psicologia. Come c’intuiamo noi direttamente? È la sua prima domanda. Il succedersi delle emozioni, dei pensieri, in genere degli stati d’animo, ha un carattere tutto particolare. Non è un sovrapporsi di fatti a fatti, ma un compenetrarsi di momenti l’uno nell’altro, un comporsi in una serie progressiva e irreversibile, di cui ogni elemento si fonde col precedente ed arricchisce della sua tonalità affatto originale lo stato di animo con cui si fonde. Questa organizzazione dei fatti di coscienza è opera del tempo, anzi è lo stesso tempo. Esso è la forma che prende la successione dei nostri stati di coscienza, quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione tra lo stato presente e gli stati anteriori; quando ricordiamo, fuse per così dire insieme, le note di una melodia.
L’analisi del nostro io profondo rivela cosi un’eterogenia qualitativa di momenti, nessuno dei quali ha contorni ben fissi e recisi, ma ciascuno dei quali sconfina, per così dire, nell’altro, e si potenzia nell’altro: il loro succedersi non è un accrescersi quantitativo, ma un progredire qualitativo.
Se ora ci volgiamo dall’interno all’esterno e guardiamo il modo come si organizzano i prodotti della coscienza, non più nella loro attualità spirituale, ma come contenuto e materia di conoscenza, Io spettacolo muta completamente. Qui non è più la fusione di stati eterogenei in un tutto originale, ma la sovrapposizione di elementi omogenei, inerti: la fisonomia dell’insieme è data dalla semplice somma delle parti. Gli elementi materiali non si fondono, ma sono per essenza impenetrabili; non si continuano, non si succedono nel tempo, ma coesistono nello spazio: nell’estensione cioè dai contorni geometricamente fissati: la materia è intimamente lestée de géometrie. Ed ecco che si va formando il dualismo: interiorità ed esteriorità, tempo e spazio, psiche e materia.
Bergson acquista via via coscienza della brutta china lungo la quale scivola; ma poiché egli ha cominciato con l’identificare la realtà con l’immediatezza della vita vissuta, è portato a intensificare il dualismo, ad esasperarlo, non già a risolverlo. Eppure dev’essere risoluto, se la conoscenza dev’essere possibile. II conoscere non è infatti un risolvere l’altro nell’io, la natura nello spirito? Ora v’è una scienza, detta empirica, che tenta una transazione, una mediazione tra i termini del dualismo: essa solidifica le forme del divenire qualitativo nelle forme della quantità, il progresso temporale nella coesistenza spaziale: non è essa forse il superamento della pura immediatezza psicologica? non ci dà forse un punto, almeno provvisorio, d’inserzione dello spirito nella natura? A rigore sarebbe così; ma Bergson ha, come ho detto, identificato già la realtà con quella esperienza immediata del soggetto; quindi la transazione deve apparirgli necessariamente come irreale, come una falsificazione dell’esperienza pura. Ma allora come si spiega il passaggio del tempo allo spazio, della realtà vissuta al suo schema solidificato dello spazio? E si badi che un passaggio dev’esservi, come ho detto, perché il fatto della scienza, del sapere, dev’essere spiegato. Ora nell’io profondo non può trovarsi la ragione del passaggio: l’io, lasciato a sé stesso, si lascerebbe eternamente vivere, senza mai passare ad alcunché di diverso da sé: puramente irriflesso, immediato, ripugna ad ogni riflessione e mediazione, e la denuncia come falsa. L’impulso deve provenire da qualcos’altro. Ed ecco che si fa strada, entità non preannunziata da niente, vera intrusa nel dominio dell’io profondo, la volontà, l’azione. Noi dobbiamo costruire una natura nelle forme dello spazio, perché la nostra azione vuole così; perché l’azione non può muoversi che tra i solidi, tra le cose dai contorni ben definiti, su cui può far presa. La scienza naturale è così il prender possesso che noi facciamo del reale: il mutilarlo, il frazionarlo, il perderlo come reale, per impadronirci di ciò che di esso ci serve, per dominarlo meglio, secondo le esigenze della nostra prassi. Questo prammatismo scientifico ha però il grave difetto che, mentre spiega tutto, non spiega, poi, nientemeno che sé stesso. Com’è mai possibile che la realtà esteriore, un’x ignota, sia tanto compiacente da adattarsi ai bisogni della nostra azione; com’è possibile, cioè, che l’ordine dei concetti scientifici riesca nella natura, se esso è il prodotto di un puro arbitrio soggettivo? Ed ecco il Bergson, conscio della difficoltà, comincia a fare delle concessioni: forse, egli dice, v’è una specie di compromesso tra spirito e natura: ma proprio questa si trattava di vedere: come mai la natura si adatta alle leggi dello spirito?
D’altra parte poi, quando noi consideriamo il mondo esteriore, diciamo che le cose durano, si sviluppano, si muovono: in altri termini, affermiamo che la materia può essere decifrata con lettere psicologiche. È un mero parlar figurato? A rigor di termini, dati i presupposti di Bergson, dovrebb’essere così. Eppure, il nostro autore è costretto a dire che non si può, è vero, ammettere che le cose esteriori abbiano una durata; ma solo che dev’esserci in esse qualche inesprimibile ragione in virtù della quale noi non sapremmo considerarle in momenti successivi della nostra durata, senza constatare che esse sono cambiate. Che cosa è quella inesprimibile ragione, se non la confessione implicita dell’impotenza della psicologia a risolvere l’oggetto nel soggetto? Breve: senza l’identità di soggetto e oggetto, di spirito e natura, non si può spiegare come l’ordine creato dallo spirito riesca nella natura, come la scienza valga per la realtà. II preteso prammatismo dissimula dunque un problema metafisico: che cosa è la natura, la materia? Les données de la conscience lasciano aperto questo problema; I’opera Matière et mémoire cercherà di risolverlo.
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In questa seconda fase del suo pensiero, Bergson si pone da un punto diametralmente opposto a prima: là moveva dal soggetto, qui dall’oggetto. Che cosa è la materia, la natura esteriore? Secondo un diffuso pregiudizio, sarebbe un’x misteriosa, fuori di noi, che noi cercheremmo di copiare pazientemente coi nostri concetti. Niente di più falso. La materia è appunto ciò che noi vediamo, tocchiamo: in una parola, percepiamo. Ma allora forse noi per formare il mondo esteriore dobbiamo proiettare fuori di noi il contenuto delle nostre percezioni? Questa è l’illusione del berkeleysmo. Tale illusione deriva dal fatto del porre dogmaticamente il soggetto e dell’introdurre in esso -per un errore che Avenarius, gran coniator di vocaboli, chiama introiezione- il mondo esterno. Al contrario, noi nella conoscenza non moviamo dall’ io, per andare al nostro corpo e poi al mondo esterno, ma ci poniamo fin da principio nel mondo esterno, e via via dalla salda compagine delle immagini di cui esso consta, distacchiamo a poco a poco il nostro corpo e noi stessi. Qui si vede il capovolgimento del berkeleysmo; ed è proprio ciò, che rende il Berkeleysmo coerente. La materia è dunque un complesso d’immagini, di fatti mentali. Questa mentalità si esaurisce nell’atto stesso della percezione. Mens momentanea, direbbe Leibniz. Qui è il punto d’inserzione dello spirito nella natura: ma è anche l’unico punto. A partire da esso, entrambi i termini si distaccano secondo linee divergenti: la materia, tendendo di più in più a non essere che una successione di momenti infinitamente rapidi, che si deducono gli uni dagli altri, e quindi si equivalgono; lo spirito, tendendo invece a condensare le percezioni, a fondere il passato col presente, a concepire la continuità dei suoi stati, il loro progresso. Lo spirito è essenzialmente memoria. Materia e memoria, ecco il nuovo dualismo: dualismo gnoseologico e non metafisico, asserisce Bergson, perché la materia pare svelata nella sua natura spirituale. Eppure il dualismo metafisico è dissimulato e non risoluto. In effetti, questa materia, ridotta a un complesso d’immagini, che si condensano e si limitano nella percezione cosciente, non è che l’apparenza, il simulacro della mentalità. Esso è invece la cristallizzazione del fatto mentale; mera passività non meno della materia dell’atomismo. È il puro fenomeno come fatto, non il farsi fenomeno. È il fatto bruto, insomma, non esperienza; e perciò è veramente materia, non mentalità. Così posto il problema, passerà dalla materia alla memoria, dalla natura allo spirito è possibile allo stesso modo che nel materialismo corrente. Se Bergson fa il gran passo, e concepisce il soggetto come forza che, liberandosi dalla materia, si ritrova, libero creatore, nel dinamismo della memoria, questa è una pura reminiscenza del soggettivismo delle Données de la conscience; ma, logicamente svolta la concezione di Matiére et Mémoire dovrebbe finir col negare la metafisica del soggetto e risolvere quest’ultimo in un mero aggregato d’immagine, come fa il Mach. Invece Bergson vuole salvar capra e cavoli, l’idealismo del soggetto e l’empirismo dell’oggetto, e finisce così col trovarsi di bel nuovo impigliato nel dualismo metafisico che credeva di aver superato. La materia non perde la sua opacità col semplice fatto che la si costituisce non più come un insieme di atomi, ma come un insieme d’immagini: fatto bruto è l’uno, fatto bruto è l’altro. Concepisce spiritualmente la materia significa invece ripudiarla concezione del ‘fatto’, in qualunque suo significato; conquistare quella dell’‘atto’; e cioè includere la materia nel processo dello spirito. Non si tratta di concepirla come un fatto mentale ma come una creazione mentale. E perciò bisogna muovere non già dall’oggetto, che non offre via di salvezza, perché è un fatto e non un fare, ma dal soggetto, e concepire una fenomenologia dello spirito, che sia insieme il processo creativo della natura, della materia.
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Risolutamente, l’Èvolution Créatrice affronta questo problema, e lo affronta nei suoi veri termini, senza più spostarlo dalla metafisica alla psicologia. L’Èvolution Créatrice è il ritorno al soggettivismo delle Données, ma con la gran differenza, che non si tratta più di concepire la dinamica del soggetto psicologico, ma della realtà come soggetto.
È un ritorno, insomma, mediato da Matière et Mémoire, con la nuova esigenza cioè, che la natura dev’essere risoluta nel processo spirituale.
Il nuovo soggetto è la Vita come creazione, come impulso che si afferma e si potenzia svolgendosi nel tempo, creando esseri e forme; mai ripetendosi nelle sue infinite produzioni, ma sempre originale e progressivo. Comprendere la vita non è dato dall’intelletto astratto che, solidificandola nei suoi concetti, perdere tutto ciò che c’è di vitale nella vita, tutto ciò che è principio di organizzazione nell’organismo. Comprendere la vita significa riviverla; non guardarla dall’alto, ma accompagnarla nel suo corso creativo; non catalogare i prodotti organizzati, ma guardare l’atto dell’organizzarsi. Ciò che caratterizza la vita è l’unita d’impulso, di slancio, che la costituisce; poi, l’unita si fraziona, e la vita si ramifica in mille direzioni diverse; ma l’identità originaria delle varie correnti è sempre l’identità d’impulso, non di fine, o di risultato. Parlare d’un fine unico della vita, darle uno scopo e pensare a un modello preesistente, che non ha che a realizzarsi. È dunque in fondo supporre che tutto è dato, che l’avvenire potrebbe leggersi nel presente. Invece, la vita nulla presuppone di dato, ed è assolutamente originale nelle sue produzioni. Qui si vede come il monadismo leibniziano, infrante le sue barriere interne, è penetrato da una grande corrente psichica, ed è profondamente intaccato dal contingentismo di Boutroux. L’unità vitale è unità di slancio: una volta in moto, l’enorme torrente procede avanti senza letto tracciato, ma tracciandoselo via via che procede.
Ora questo slancio vitale, che nulla presuppone per sussistere, ma che sorge chi sa come e s’ ingrandisce, si espande e si fraziona, è esso che deve o dovrebbe spiegare tutto lo sviluppo delle forme che la vita assume, fino alla riflessione del pensiero, in cui la vita si ripiega e si rifà; fino alla materia, dove la vita si solidifica e si esteriorizza. II piano del Bergson è veramente grandioso, in quanto vuole spiegare a un tempo lo svolgersi della vita, e del pensiero intuitivo che la contempla; il farsi della materia, e dell’intelletto che la chiude nei suoi schemi e le si adegua. Qui il prammatismo scientifico di Bergson troverebbe la sua giustificazione metafisica, con la svelata identità di pensiero e pensato, d’intelletto e materia. Eppure proprio qui tutta la concezione bergsoniana precipita e rivela la sua insufficienza radicale. Lo slancio vitale, creatore delle forme e degli esseri, è poi assolutamente creatore? Bergson si sforza di mostrare come la vita, progredendo, si ramifica. Ma perché si ramifica? È essa ragione unica del suo scindersi? Pensate a un torrente, a un fiume: perché si biforca a un certo punto del suo corso? Perché incontra un ostacolo. Così è del concetto bergsoniano della vita. La vita non è ragione sufficiente del suo fare; ha bisogno dell’ostacolo, del mondo che si oppone e ne diversifica il corso. Questo, perché la vita non è riflessa in sé, produttrice e mediatrice dei suoi momenti, ma è svolgimento unilineare, immediato, irriflesso, che ha bisogno di un ostacolo per riflettersi: non è insomma pensiero; è natura. Ciò risulta più chiaro dal modo come Bergson cerca di spiegare la genesi della materia. Questa è un’interruzione della corrente vitale, una negazione che s’inserisce nella continuità dello svolgimento, una solidificazione della vita. Ma com’è spiegabile questo arresto nella corrente vitale, questa caduta? La vita, come la concepisce il Bergson, dovrebbe progredire eternamente, lasciata, per cosi dire, a sé stessa: se si ripiega e si rifrange, è perché un ostacolo le si frappone. Dunque la vita che nel suo movimento dovrebbe creare la materia, presuppone essa stessa l’ostacolo, la materia. Ecco l’enorme circolo vizioso in cui si aggira la metafisica bergsoniana. Il perché di questo circolo l’abbiamo già accennato. È che la vita è natura, non pensiero, non riflessione, non dialettica. Insomma per mancanza del circolo vero che è quello del pensiero, Bergson è costretto a percorrerne uno falso. Cercate di pensare lo slancio vitale: come è concepibile uno slancio che non si parta dalla terra ferma? Pensate alla corrente, al fiume: non ha bisogno di un mezzo attraverso cui fluire? Nella concezione bergsoniana della vita, v’è, si, il grande sforzo di risolvere questo dato, ma lo sforzo fallisce, per l’insufficienza stessa del concetto.
Ma v’è di più. Perché la vita, rifrangendosi a un certo momento contro un ostacolo, diviene coscienza; rifrangendosi un altro momento, diviene materia? La vita come tale non contiene le ragioni delle diversificazioni del proprio corso: queste dovranno dipendere allora dalla natura dell’ostacolo. Ed ecco che la mera passività, il puro mondo deve arricchirsi di varie determinazioni, per spiegare i vari effetti: la materia che Bergson ha perseguitato sempre senza mai smaterializzare, si vendica finalmente del sistema, trascinandolo inconsapevolmente verso il materialismo.
Io non starò qui a trarre altre conseguenze. A me preme accennare specialmente a quello che sembra il vizio fondamentale della filosofia bergsoniana e che determina inevitabilmente la rovina del sistema. Bergson inizia e chiude la sua carriera, celebrando la vita immediata, l’intuizione. Qui sta per lui la realtà. Intelletto, ragione, insomma tutto ciò che è lavoro più alto della mente, e creazione di forme più alte del reale, in cui la realtà immediata si risolve, divengono così per lui falsificazioni della verità in psicologia; cadute, depotenziamenti della realtà in metafisica. Tutto ciò che è scienza, sapere, distinzione, e fuori della realtà in cui egli è chiuso, o meglio è sopra di essa; perciò invano Bergson cerca di rompere la trama dei concetti; egli non risolve e non può risolvere il problema della scienza; ma, per servirmi di un’espressione che ho sentito da lui in una conferenza, lo esaspera. Il problema della scienza non si risolve, quando si vuol restare al di qua della scienza, in una sfera beata dell’intuizione, come pretende questo Rousseau della gnoseologia (che è geniale, del resto, anche lui); ma quando si attraversa il dominio della scienza superandone il dommatismo. In questo modo la scienza s’invera; in quel modo la scienza si annulla. Invano si cerca al di qua della scienza, del sapere, una realtà ricca, complessa, armonica, sufficiente a sé stessa; questo abbellimento è lavoro di fantasia. Il nuovo Rousseau non vede lo stato di natura, ma lo immagina attraverso lo stato di civiltà in cui vive.
Bisogna andare al di là della scienza (come naturalismo), dunque. La grande attrattiva di Bergson sta in ciò, che egli ha fatto pregustare qualcosa di quel mondo che è al di là dei fatti del naturalismo; e che è il mondo della realtà vera; la realtà teleologica, creatrice dello spirito.
Ma pregustare non è gustare. Bisogna aver la forza di vincere gli errori di Bergson, di rompere la compagine del suo sistema, e di conquistare pensatamente quella realtà che egli ha soltanto intuita, intravveduta, non pienamente pensata. Sta qui il gran compito della filosofia; la grande eredità di Bergson.
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