Lo stato di natura in Giambattista Vico

di C. Gily Reda

Si parla spesso della vita perenne dei classici, che sanno ritradursi nelle diverse epoche con straordinaria agilità, se letti con spirito sincero. Vico è da tempo riconosciuto ‘classico’, ma in questo libro di Marcheselli si presenta di un’attualità sorprendente, data soprattutto dall’approfondimento da lui compiuto sullo ‘stato di natura’. Lo dimostrano accurate e molteplici letture che iniziano dopo una breve ‘dedica’ a Benedetto Croce, autore non solo della Storia del Regno di Napoli, che cita per il rapporto costante con Vico, ma per quel capolavoro concettuale che è l’idea di contemporaneità della storia: riconoscere cioè che l’essenzialità della storia nasce dalla domanda autentica, dal desiderio di sapere che si confronta con un’altra storia e un’altra vita, quella di oggi, perché la storia non si ripete, e perciò non si muove per leggi astratte dal singolo caso, codificabili. Solo così la storia, che non è cronaca, nasce dall’interesse del presente come domanda; l’attualità risiede nella somiglianza della domanda, in Vico, in Croce, nei tempi di oggi. La Storia di Croce si data nel 1924, anno di grandi ripensamenti e grandi travagli, per Croce e per l’Italia tutta. Così il tempo di Vico e di questa nuova era, che oggi impone mille dubbi e tante rinnovate volontà di sopraffazione.

La convergenza dei tempi riporta all’idea di storia civile di Giambattista Vico, come di lì a poco titolò il conterraneo Pietro Giannone: essa si oppone sempre alle forme del pensiero astratto, in modi di volta in volta nuovi. Rifiuta la linearità del time arrow, che supera d’un colpo la metis e corre ai risultati. Oggi si parla di velocità, ma è da Cartesio che i tempi hanno imparato a correre veloci, dissolte le idee di eternità e solidità materiale. Il progresso sempre positivo immeschinisce la scelta del presente e insieme il valore del passato perché crea il mito del futuro certo. Ma è solo un mito, sottratto com’è alla necessaria dimensione narrativa, alla sua natura di impalcatura frattale e ripetitiva, meditante.

È questa la chiave interpretativa con cui Vico ha riconosciuto il sapere mitico, una lettura presto condivisa dalle antropologie. Non è unico il cammino della ragione spiegata, il mondo dell’uomo si alimenta della poesia che il mito dona ai saperi nelle parole tante volte ripetute dalla memoria: gli inglesi dicono by heart per indicare la citazione a memoria, perché è vero per noi solo quel che passa per il cuore, che non è la gioia di un attimo. Le teorie della formazione confermano la necessità del silenzio per apprendere, il riappropriarsi del linguaggio.

Il baluginare dell’alba della ragione sorge così, in queste ripetizioni, e nel cuore dei violenti Polifemi di Omero, protagonisti della prima storia, si accende la luce, dice Vico, e la natura loro, violenta, selvaggia, si avvicina alla società umana. Il giusnaturalismo li rende protagonisti dello stato di natura, giudica del loro diritto non scritto – ma solo ragionando su di loro questo diritto acquista forma. Il filosofo del mito, che diventò ovunque e presto celebre disvelando il mito di Omero, nella maturità non dedica la sua argomentazione di fondo al racconto mitico, come aveva fatto nel De antiquissima. Invece ragiona con una serie di approfondimenti sul diritto naturale, discutendo l’idea degli autori brillanti che l’avevano sbozzato e sviluppandola.

Emerge così il tema attualissimo, oggi che il mito di Rousseau viene rilanciato senza approfondire, come fosse una poesia, un’immagine; mentre per due secoli s’è dato fiato a polemiche eterne sull’ingenuo selvaggio e sulla storia; esse furono sconfitte dal marxismo, che di Rousseau sagacemente conservò il peggio, la confusione a scopo di dominio sulla volontà generale, così melodica come la Carmagnole, ma così bacata dal verme della violenza. Cartesio splendeva in tutti gli intellettuali dell’Encyclopedie, Vico invece viveva il suo non splendido isolamento: e oggi va richiamato a sostegno contro quel sogno diventato una piattaforma cibernetica per gente che non legge i classici, che chiama i propri congressi di informazione SUM 1, 2, 3. L’evidente richiamo a Cartesio può parere strano, visto che lui stesso è ormai contestato da tutti, filosofi, fisici e scienziati della relatività e dell’indeterminazione, che oggi manifestano conclusioni più spinte di Henry Bergson e di qualsiasi idealista. Ebbene, proprio Rousseau, l’utopista fascinoso quanto abile nelle prassi personali del vivere, che parlava dello stato di natura come di un Eden, sta oggi sugli altari. Ecco l’importanza del proporre la lettura di Vico, che subito vide il verme nella mela, sfrondandola dei limiti dei saperi accademici ma senza cadere nella superficialità.

Il punto d’inciampo dell’Illuminismo, generosa corrente di ideali che veniva giù diritta dal Rinascimento, si scontrò con l’astrazione di non vedere i muri della storia – infatti li infranse, ma sversò sangue nel macello della Rivoluzione francese, e spaventò l’Europa per secoli, riportandola allo status quo ante in poche battute. L’istantaneità non è progresso, se abbatte senza capire il meccanismo delle istituzioni crollate. Proporre il ritorno allo stato di natura e al dare nome al Creato, crea Dèi di regimi senza sostanza. Il lavoro della criticatissima Chiesa sembra facile, ma il ’700 constatò quanto sia difficile: istituire un’etica, non è nulla di istantaneo. Se i Giacobini avessero meditato con l’ingegno di Giambattista Vico invece che con la Ragione, forse… inutile questione, ma dovrebbe far riflettere che il secolo della velocità ragioni solo nel senso di come superare la velocità di un istante, solo per raddoppiare la corsa. Il progresso rettilineo ha prodotto passi da gigante: ma Vico ricorda all’uomo la sua ‘giusta misura’, quella che di coltivare, insieme alla Ragione lineare, la Ragione storica, l’analitico e l’analogico insieme. Marcheselli ci fa assaporare il gusto della meditazione, lenta e sagace, il porre fondamenta e l’edificare, sfogliando man mano l’opera di Vico sul tema nei diversi testi. È il cammino della ragione storica che può risolvere il grande problema del momento, l’etica – in senso morale ed hegeliano – dell’intelligenza artificiale che rivoluziona la Vita. È una dimostrazione del fulcro del metodo di Vico, philosophia et philologia geminae ortae portano sia la storia che la riflessione a vera chiarezza.

Ragionare dello stato di natura bisogna, per risolvere il problema se sia davvero il caso di affidarsi a Rousseau. Neanche lui meditò Vico e la sua soluzione nella sua risposta all’Accademia di Digione, che esagerò col coraggio, sempre necessario anch’esso nello sviluppo concettuale. Esagerare è calcare sul rischio del poker della storia, che è invece bene affrontare con un minimo di saggezza. Pensare la storia in modo lineare, significa sacrificare la ragione emozionale e l’intero mondo del linguaggio, le cui risorse sono invece serie e costruttive. Vico, professore di retorica, conosceva bene l’orizzonte del linguaggio; la prima linguistica del 900 è quella del suo allievo Croce, nel 1902 (Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale). Cambiare linguaggio, che è il visibile, l’apparenza, significa in realtà cambiare la sostanza: la Dea Ragione non ha la forza di Cristo perché non possiede la forza della storia dei popoli. La velocità, nella storia, genera guerra, trasforma ogni contrapposizione discorsiva in lotta aperta. Chi crea i fondamenti nel diritto naturale – tutti coloro che l’hanno fatto – lo fa per aprire la discussione sul pacifismo, sul diritto dell’uomo a non entrare in guerra se non vuole; è la riflessione sui principi contro la guerra, nata nel tempo delle sanguinose guerre di religione. Lo dice il titolo giusnaturalista più efficace, De iure belli ac pacis, di Ugo Grozio, che Vico pone tra i suoi quattro ‘Auttori’ – tutti peraltro anche criticati nella loro impostazione originale.

Marcheselli intreccia con solerte cognizione di causa le diverse opere di Vico per sottolineare le convergenze e divergenze con i suoi autori, che sono anche Bacone e Tacito, Platone e Grozio – ma poi sicuramente Hobbes e Lucrezio. Grozio, Selden e Pufendorf, giusnaturalisti, gli danno basi concettuali ed elementi per la discussione in cui forgia la sua convinzione, che matura nel tempo. Vico non vuole che si perda la responsabilità del cittadino; ma nemmeno si deve svalutare il contributo della Provedenza, la boria di chi la nega va perseguita, senza la superiore costanza della storia nessun evento finisce in bene sociale. Gli uomini protagonisti della prima costruzione dello stato delle famiglie sono i Polifemi, gli antenati giganti e selvaggi degli uomini ‘di giusta corporatura’. Essi pur nel loro stadio primo, bene descritto da Omero, sono gli uomini con un sol occhio, che non hanno una visione binoculare, prospettica, eppure sanno cogliere l’occasione del bene (che non è mai causa). Quel solo occhio già vede la famiglia da salvare dalla morte, ma la provvidenza mostra un altro calcolo positivo, il miglioramento, l’economia – ed ecco che pur finendo nella Torre di Babele, nella morte del non saper ascoltare e comunicare, sanno attuare un conato, uno sforzo, che li porta verso lo stato civile. Una gigantesca fatica è la chiave che porta il brutale primo uomo, il padre, a uscire dalla solitudine del bisogno prima personale, poi familiare, per aprirsi alla società. Ecco l’importanza della libertà, della responsabilità, del conato, della Provvidenza – che sono virtù che fuori del mito ricorrono a ben vedere in ogni azione umana ragionevole ed ingegnosa. Tutto ciò addolcisce i costumi e genera la società civile.

Così Vico rifiuta non solo la guerra di tutti contro tutti, l’homo homini lupus, motto plautino ripreso da Hobbes nel De Cive: ma poi critica anche Grozio, che propone un altro punto di vista, ma crede la società generata da una ‘causa’, il bisogno di difendersi. Perché non tutti profittano di questa ‘occasione’ e si danno molti fallimenti nella costituzione della vita in comune, occorre riconoscere che non c’è obbligo nel processo; e che il successo conseguito nella difesa conduce ad altre alternative, non ci si ferma al difendersi, ci si associa anche per migliorare la vita. Il bagliore del meglio, della civilizzazione, della conquista generosa, diventa una conquista di umanità, nella teoria dello stato di natura; ma porta anche alla chiarificazione logica di distinguere dallo stato di natura animale quello dei filosofi: del primo non c’è storia, è solo un punto di partenza da una storia non ancora umana. Si tratta di un errore grave confonderli, da cui viene il riscontro positivo che l’uomo può tornare indietro solo fino allo stato di natura dei filosofi, non prima – perché prima non c’è storia, o almeno non c’è storia umana. I corsi e ricorsi storici acquistano così una vena ottimista: non c’è progresso rettilineo ma nemmeno crollo totale di una civilizzazione, costruire non è effimero. I giusnaturalisti che non fanno la differenza mitizzano su un’età dell’oro animalesca, nemmeno umana.

Vico crede nella superiorità del cattolicesimo, della creazione che l’uomo prosegue con la costanza dei costumi. Vivendo il tempo dell’Inquisizione, molti interpreti accennano a ciò come ad una ovvia prudenza di Vico, padre di molti figli: ma anche Giordano Bruno maturò la convinzione della superiorità del cattolicesimo, tornò in Italia per discutere la sua ‘regola’, se si può dire così, a Roma. Una regola ecumenica, ma fondata sul motto romano si vis pacem para bellum, animata da Ercole, che Bruno scaccia dal cielo a beneficio del mondo. La verità di Vico è che non si è mai data una società senza una religione, quindi si deve solo scegliere la più adatta a consentire lo sviluppo del giusto, la difesa della giurisdizione civile, garantendo i diritti del cittadino come fece il diritto romano. L’essere civis salvò San Paolo in terra straniera.

Differenziare il bisogno di difesa dall’opportunità economica è l’acquisto con cui Vico innova la questione, nel tempo in cui l’economia sta diventando una scienza a sé proprio nel Regno di Napoli, con la cattedra a Genovesi e Galiani. L’uomo civile non è un animale, vive nella storia assumendo abitudini che lo differenziano dal barbaro, come dirà il vichiano Collingwood parlando di possibili rimbarbarimenti, nel suo studio di modello wittgensteniano della civilizzazione. Precisare quanto in questa conquista di civiltà spetti al conato ed alla Provedenza, è un mirabile fattore di equilibrio della morale privata. L’affermazione del primato romano del fare, consente di mantenere l’elemento base del progresso senza cassare la responsabilità del male, che spetta ad ognuno. Questa è la grandezza dello stato di natura di Vico, capace di suggestionare tanti e tanto a lungo da essere ancora un ragionamento attuale per correggere la leggerezza corrosiva di chi medita la storia in modo astratto. Importante è anche la trasvalutazione del mito che se prende il posto del giudizio storico genera quelle che oggi si chiamano fake news ma che esistono da quando si conosce la storia dell’uomo.

Ecco perché leggere di Giambattista Vico oggi riporta alla necessità di continuare a meditare la teoria del giudizio storico, l’arra di salvezza della ragione nel mondo della propaganda dei mitologi pubblicitari e politici. I media hanno guadagnato in grandezza misurabile – quella che per loro conta; il potere economico e di governo, giunge con la campagna elettorale permanente a trasformare l’effimero nel loro regno personale. Vico insegna a confrontarsi coi giuristi alla ricerca delle leggi adatte e in ciò manifesta l’anima napoletana, il culto della legge; Croce disse Napoli proprio perciò autentica erede dell’Impero Romano, avendo conservato anche nel diventare imperiale bizantina e poi asburgica, l’istituto dei Sedili del diritto romano, corti di giustizia site nei quartieri e regolate con antiche tradizioni. Napoli non fu longobarda come Benevento e Salerno, non accettò dalla Roma dei Papi il diritto curiale. La difficile vita dei Sedili è paragonabile a quella quasi altrettanto non gloriosa della Magna Charta, quanto ai suoi effetti sulla giustizia sociale – ma tenne duro pur tra mille aspiranti alla conquista Regno, spesso esplodendo in Rivoluzioni di grande momento: quel Masaniello che agitò Napoli, fu molto apprezzato da Spinoza e dagli Inglesi. Questo perché alle sue spalle c’era un giurista dei Sedili, Genoino: è importante ricordarlo perché Vico studiò anche le congiure napoletane, e l’attenzione al diritto è l’altra grande caratteristica dell’originalità di Vico sia nel discorso del diritto naturale che in quello più generale dell’eredità del Rinascimento, da cui Vico tanto attinse. Il diritto e la storia gli consentono di articolare la ricerca e la tradizione in un corpo vivente e dialogante, in cui trova un mondo umano che il costruttivismo contemporaneo trova interessante, solido di una propria tradizione dalle premesse filosofiche limpide.

La questione del diritto di natura resta attuale: ma non nel senso che sia possibile oggi più di ieri codificare l’incodificabile. “Diritto di natura” è solo un modo di dire con cui si è tanto polemizzato, non volendo intendere che indica solo lo spirito della legge, quello di Montesquieu, quello che così efficacemente parlò a Filangieri, quello che non si identifica e non si identificherà con nessun codice o algoritmo… quello cui diedero forma in modo macroscopico Giustiniano e Napoleone, ma che si compie quotidianamente nell’aggiornamento dei codici o delle consuetudini. Lo ius gentium minorum è la formula efficace che indica lo stato di natura dei filosofi, ed è un buon argomento per meditare, quando si vede violato lo spirito per la lettera, e ognuno si sente chiamato alla responsabilità e all’approfondimento. Molto meglio che mettere Rousseau sull’Altare della Ragione, autore e tesi di cui si è discusso per due secoli, nelle letterature politiche e sociali, con conclusioni che lo sconsigliano. Attardarsi su Cartesio, mentre i fisici e gli scienziati tutti nel ‘900 l’hanno criticato… Lo spirito ferino della guerra di tutti contro tutti rischia, nel mondo della velocità, di tornare vincente; uno stato primitivo che Vico con chiarezza non reputa ancora mondo umano, mondo storico, tanto si confonde con l’animale da richiedere saperi che non sono la vetta del conoscere. Il sapere storico sceglie di elaborare il linguaggio, costruire il nuovo mondo dell’uomo, pensando lo stato di natura nell’ottica sorgiva della pace, sapendo però i pregi della tradizione e del lavoro dei padri, da non perdere nella disumanità della guerra.

L’esemplificazione del metodo compiuta da Marcheselli è perciò il messaggio diretto ai tempi d’oggi: approfondire il senso filosofico nel lavoro esperto di coniugare i testi e le interpretazioni, per far intendere la sfaccettatura dei concetti. Ognuno può seguire lo sviluppo progressivo delle idee vichiane e compiere scelte. È una lezione di pensiero critico, un viaggio nel prisma interpretativo che crea nuova luce di eterni arcobaleni. Infinito et Uno, come diceva Giordano Bruno.

 

dell’uomo a non entrare in guerra se non vuole; è la riflessione sui principi contro la guerra, nata nel tempo delle sanguinose guerre di religione. Lo dice il titolo giusnaturalista più efficace, De iure belli ac pacis, di Ugo Grozio, che Vico pone tra i suoi quattro Auttori – tutti peraltro anche criticati nella loro impostazione originale.

Marcheselli intreccia con solerte cognizione di causa le diverse opere di Vico per sottolineare le convergenze e divergenze con i suoi autori, che sono anche Bacone e Tacito, Platone e Grozio – ma poi sicuramente Hobbes e Lucrezio. Grozio, Selden e Pufendorf, giusnaturalisti, gli danno basi concettuali ed elementi per la discussione in cui forgi la sua convinzione, che matura nel tempo. Vico non vuole che si perda la responsabilità del cittadino; ma nemmeno si deve svalutare il contributo della Provedenza, la boria di chi la nega va perseguita, senza la superiore costanza della storia nessun evento finisce in bene sociale. Gli uomini protagonisti della prima costruzione dello stato delle famiglie sono i Polifemi, gli antenati giganti e selvaggi degli uomini ‘di giusta corporatura’. Essi pur nel loro stadio primo, bene descritto da Omero, sono gli uomini con un sol occhio, non hanno una visione binoculare, prospettica, eppure sanno cogliere l’occasione del bene (che non è mai causa). Quel solo occhio già vede la famiglia da salvare dalla morte, ma la provvidenza mostra un altro calcolo positivo, il miglioramento, l’economia – e quindi pur finendo nella Torre di Babele, nella morte del non saper ascoltare e comunicare, sanno attuare un conato, uno sforzo, che li porta verso lo stato civile. Una gigantesca fatica è la chiave che porta il brutale primo uomo, il padre, a uscire dalla solitudine del bisogno prima personale, poi familiare, per aprirsi alla società. Ecco l’importanza della libertà, della responsabilità, del conato, della Provvidenza – che sono virtù che fuori del mito ricorrono a ben vedere in ogni azione umana ragionevole ed ingegnosa. Tutto ciò addolcisce i costumi e genera la società civile.

Così Vico rifiuta non solo la guerra di tutti contro tutti, l’homo homini lupus, motto plautino ripreso da Hobbes nel De Cive: ma poi critica anche Grozio, che propone un altro punto di vista, ma crede la società generata da una ‘causa’, il bisogno di difendersi. Perché non tutti profittano di questa ‘occasione’ e si danno molti fallimenti nella costituzione della vita in comune, occorre riconoscere che non c’è obbligo nel processo; e che il successo conseguito nella difesa conduce ad altre alternative, non ci si ferma al difendersi, ci si associa anche per migliorare la vita. Il bagliore del meglio, della civilizzazione, della conquista generosa, diventa una conquista di umanità, nella teoria dello stato di natura; ma porta anche alla chiarificazione logica di distinguere dallo stato di natura animale quello dei filosofi: del primo non c’è storia, è solo un punto di partenza da una storia non ancora umana. Si tratta di un errore grave confonderli, da cui viene il riscontro positivo che l’uomo può tornare indietro solo fino allo stato di natura dei filosofi, non prima – perché prima non c’è storia, o almeno non c’è storia umana. I corsi e ricorsi storici acquistano così una vena ottimista: non c’è progresso rettilineo ma nemmeno crollo totale di una civilizzazione, costruire non è effimero. I giusnaturalisti che non fanno la differenza mitizzano su un’età dell’oro animalesca, nemmeno umana.

Vico crede nella superiorità del cattolicesimo, della creazione che l’uomo prosegue con la costanza dei costumi. Vivendo il tempo dell’Inquisizione, molti interpreti accennano ad una ovvia prudenza di Vico, padre di molti figli: ma anche Giordano Bruno maturò la convinzione della superiorità del cattolicesimo, tornò in Italia per discutere la sua ‘regola’, se si può dire così, a Roma. Una regola ecumenica, ma fondata sul motto romano si vis pacem para bellum, animata da Ercole, che Bruno scaccia dal cielo a beneficio del mondo. La verità di Vico è che non si è mai data una società senza una religione, quindi si deve solo scegliere la più adatta a consentire lo sviluppo del giusto, la difesa della giurisdizione civile, garantendo i diritti del cittadino come fece il diritto romano. L’essere civis salvò San Paolo in terra straniera.

Differenziare il bisogno di difesa dall’opportunità economica è l’acquisto con cui Vico innova la questione, nel tempo in cui l’economia sta diventando una scienza a sé proprio nel Regno di Napoli, con la cattedra a Genovesi e Galiani. L’uomo civile non è un animale, vive nella storia assumendo abitudini che lo differenziano dal barbaro, come dirà il vichiano Collingwood parlando di possibili rimbarbarimenti, nel suo studio di teoria wittgensteniana della civilizzazione. Precisare quanto in questa conquista di civiltà spetti al conato ed alla Provedenza, è un mirabile fattore di equilibrio della morale privata. L’affermazione del primato romano del fare, consente di mantenere l’elemento base del progresso senza cassare la responsabilità del male, che spetta ad ognuno. Questa è la grandezza dello stato di natura di Vico, capace di suggestionare tanti e tanto a lungo da essere ancora un ragionamento attuale per correggere la leggerezza corrosiva di chi medita la storia in modo astratto. Importante è anche la trasvalutazione del mito che se prende il posto del giudizio storico genera quelle che oggi si chiamano fake news ma che esistono da quando si conosce la storia dell’uomo.

Ecco perché leggere di Giambattista Vico oggi riporta alla necessità di continuare a meditare la teoria del giudizio storico, l’arra di salvezza della ragione nel mondo della propaganda dei mitologi pubblicitari e politici. I media hanno guadagnato in grandezza misurabile – quella che per loro conta; il potere economico e di governo, giunge con la campagna elettorale permanente a trasformare l’effimero nel loro regno personale. Vico insegna a confrontarsi coi giuristi alla ricerca delle leggi adatte e in ciò manifesta l’anima napoletana, il culto della legge; Croce disse Napoli proprio perciò autentica erede dell’Impero Romano, avendo conservato anche nel diventare imperiale bizantina e poi asburgica, l’istituto dei Sedili del diritto romano, corti di giustizia site nei quartieri e regolate con antiche tradizioni. Napoli non fu longobarda come Benevento e Salerno, non accettò da Roma il diritto curiale. La difficile vita dei Sedili è paragonabile a quella quasi altrettanto non gloriosa della Magna Charta, quanto ai suoi effetti sulla giustizia sociale – ma tenne duro pur tra mille aspiranti alla conquista Regno, spesso esplodendo in Rivoluzioni di grande momento: quel Masaniello che agitò Napoli, fu molto apprezzato da Spinoza e dagli Inglesi. Questo perché alle sue spalle c’era un giurista dei Sedili, Genoino: è importante ricordarlo perché Vico studiò anche le congiure napoletane, e l’attenzione al diritto è l’altra grande caratteristica dell’originalità di Vico sia nel discorso del diritto naturale che in quello più generale dell’eredità del Rinascimento, da cui Vico tanto attinse. Il diritto e la storia gli consentono di articolare la ricerca e la tradizione in un corpo vivente e dialogante, in cui trova un mondo umano che il costruttivismo contemporaneo trova interessante, solido di una propria tradizione dalle premesse filosofiche limpide.

La questione del diritto di natura resta attuale: ma non nel senso che sia possibile oggi più di ieri codificare l’incodificabile. “Diritto di natura” è solo un modo di dire con cui si è tanto polemizzato, non volendo intendere che indica solo lo spirito della legge, quello di Montesquieu, quello che così efficacemente parlò a Filangieri, quello che non si identifica e non si identificherà con nessun codice o algoritmo… quello cui diedero forma in modo macroscopico Giustiniano e Napoleone, ma che si compie quotidianamente nell’aggiornamento dei codici o delle consuetudini. Lo ius gentium minorum è la formula efficace che indica lo stato di natura dei filosofi, ed è un buon argomento per meditare, quando si vede violato lo spirito per la lettera, e ognuno si sente chiamato alla responsabilità e all’approfondimento. Molto meglio che mettere Rousseau sull’Altare della Ragione, autore e tesi di cui si è discusso per due secoli, nelle letterature politiche e sociali, con conclusioni che lo sconsigliano. Lo spirito ferino della guerra di tutti contro tutti rischia, nel mondo della velocità, di tornare vincente; uno stato primitivo che Vico con chiarezza non reputa ancora mondo umano, mondo storico, tanto si confonde con l’animale da richiedere saperi che non sono la vetta del conoscere. Il sapere storico sceglie di elaborare il linguaggio, costruire il nuovo mondo dell’uomo, pensando lo stato di natura nell’ottica sorgiva della pace, sapendo però i pregi della tradizione e del lavoro dei padri, da non perdere nella disumanità della guerra.

La questione del diritto di natura L’esemplificazione del metodo compiuta da Marcheselli è perciò il messaggio diretto ai tempi d’oggi: approfondire il senso filosofico nel lavoro esperto di coniugare i testi e le interpretazioni, per far intendere la sfaccettatura dei concetti. Ognuno può seguire lo sviluppo progressivo delle idee vichiane e compiere scelte. È una lezione di pensiero critico, un viaggio nel prisma interpretativo che crea nuova luce di eterni arcobaleni. Infinito et Uno, come diceva Giordano Bruno.

GF Gily Lo stato di natura in Giambattista Vico