Le radici montessoriane della ‘speciale normalità’

di Regina Brandolini

È oggi largamente diffusa nell’ambito della ricerca pedagogica l’idea che si debba sempre più arricchire la normalità del fare scuola di tutti gli strumenti, metodologie e più in generale di tutte le specificità tecniche codificate e utilizzate per gli alunni speciali, “normalizzandole e venendo da queste modificata in senso inclusivo”. Si auspica cioè l’inclusione dei principi attivi tecnici e speciali nella normalità, permettendo alla normalità e alla specialità di convivere ed essere contaminate l’una dall’altra, rendendo più efficace e vantaggiosa la vita scolastica di tutti gli alunni.

Questo arricchimento si rende ancor più necessario oggi, all’interno del mondo scolastico, dove gli insegnanti percepiscono, accanto alle consuete forme di disabilità, una nuova crescente complessità del disagio scolastico e delle nuove forme di difficoltà di apprendimento.

Nonostante la maggiore formazione degli insegnanti curriculari e l’ingresso di insegnanti di sostegno altamente formati, questa prospettiva incontra ancora oggi grandi resistenze. Indagarne le motivazioni richiederebbe largo spazio, qui invece mi interessa focalizzare l’attenzione sul fatto che questa prospettiva di speciale normalità affonda le sue radici nelle intuizioni che Maria Montessori ebbe già più di cento anni fa.

L’interesse di Maria Montessori per la normalizzazione degli alunni deficienti attraversa tutto il suo pensiero e la sua opera e non resta confinato nei suoi primi anni di esperienza, anni comunque molto proficui e che la conducono a intuizioni di grandissima rilevanza:

“Io però, a differenza dei miei colleghi, ebbi l’intuizione che l’educazione dei deficienti fosse prevalentemente pedagogica, anziché prevalentemente medica: e mentre molti parlavano nei congressi medici del metodo medico-pedagogico per la cura e l’educazione dei fanciulli frenastenici, io ne feci argomento di educazione morale al Congresso pedagogico di Torino, nel 1898; e credo di aver toccato una corda molto vibrante poiché l’idea, passata dai medici ai maestri elementari, si diffuse in un baleno come questione viva, interessante la scuola”.

Dopo il suo intervento al Congresso Maria Montessori sarà incaricata dall’allora Ministro dell’istruzione Guido Baccelli di tenere un ciclo di conferenze sull’educazione dei bambini anormali o frenastenici, trasformatosi poi nella scuola magistrale ortofrenica, da lei diretta. A quella scuola la Montessori aveva poi annesso una scuola esterna ad orario prolungato ove raccoglieva bambini giudicati ineducabili nelle comuni scuole elementari per insufficienze mentali.

Tutta la sua prima opera di studio e educazione dei fanciulli anormali muove da una ricognizione europea delle pratiche e delle teorie in atto, nel suo tempo: si reca a Londra e a Parigi e ancora prima, quando era assistente alla clinica pediatrica, legge con grande interesse la prima opera del Seguin e in seguito cerca e trova a fatica la sua seconda opera, pubblicata in Inglese a New York nel 1866, Idiots and its treatement by the physiological metod. Riflettendo successivamente sulle sue esperienze all’estero riferirà come il metodo di Seguin fosse poco utilizzato e spesso non compreso.

“Si comprende facilmente la causa di questo insuccesso. Ognuno persisteva nella convinzione che gli alunni deficienti, esseri inferiori, dovevano alla fine essere educati come i bambini anormali. L’idea che una nuova educazione era nata nel mondo pedagogico non era ancora penetrata, né che una nuova educazione potesse elevare i bambini deficienti ad un livello superiore. E tanto meno si intuiva che un metodo educativo capace di elevare i deficienti potesse anche elevare i bambini normali.”

Attraverso la riflessione e l’esercizio del metodo messo a punto per i bambini frenastenici, inizia a farsi strada l’idea che esso possa essere utilizzato e trasferito nelle scuole normali, in questo caso non per arricchire la normalità, ma per rivoluzionare un sistema di insegnamento obsoleto, repressivo e inadatto ai bambini.

“Fin da quando, negli anni 1898-1900, mi dedicai all’istruzione dei fanciulli deficienti, credetti d’intuire che quei metodi non erano soltanto un tentativo per aiutare gli idioti, ma contenevano principi di educazione più razionale di quelli in uso: tanto che perfino una mentalità inferiore poteva divenire suscettibile di sviluppo. Questa intuizione divenne la mia idea dopo che ebbi abbandonato la scuola dei deficienti; e a poco a poco acquistai il convincimento che metodi consimili applicati ai fanciulli normali avrebbero sviluppato la loro personalità in modo sorprendente”.

Nella letteratura critica dedicata alla Montessori è luogo comune ricorrente che lei si sia occupata solo marginalmente dell’educazione degli anormali, che questa opera abbia un valore effimero e che presto abbia poi accantonato il problema come se non avesse più alcun valore. In realtà l’interesse per i fanciulli sfortunati percorre tutta la sua opera. Il fatto che nel 1916, quando ha raggiunto già ben altri traguardi, la Montessori si preoccupi di inserire in appendice alla sua opera “L’autoeducazione nelle scuole elementari” le sue dispense “Riassunto delle lezioni di didattica date a Roma nella scuola magistrale ortofrenica, l’anno 1900” testimonia non solo un persistente interesse nei confronti dell’educazione degli anormali ma anche il bisogno di documentare il suo effettivo punto di partenza. Si può inoltre sostenere, come fa Vito Piazza, che nello stesso metodo canonico sia contenuto implicitamente il metodo per l’educazione degli alunni con handicap messo a punto nei suoi primi anni di esperienza sul campo.

La grande e poco riconosciuta qualità della Montessori risiede proprio nella capacità di far dialogare le sue scoperte in campo educativo sia nell’ambito della pedagogia speciale che nel suo metodo normale. Questa grande capacità è probabilmente da attribuire ad una grande intuizione, quella cioè che ogni bambino è a suo modo speciale ed ha bisogno di essere approcciato secondo le sue qualità ed interessi. Loschi infatti sostiene che la Montessori

“[…] giunse a mettere in discussione il concetto di normalità: le differenze tra i soggetti dipendono principalmente dalle opportunità di apprendimento che vengono loro offerte. La sua pedagogia scientifica è così finalizzata alla predisposizione di un ambiente educativo che permetta ai bambini di esprimersi, di rivelare le proprie caratteristiche psichiche e di trovare gli interventi educativi più rispondenti alle loro esigenze di crescita personale e culturale.”

La Montessori aveva capito che il problema non poteva essere quello di come inserire il bambino con handicap nella scuola, ma di come rendere la scuola una comunità flessibile in grado di integrare tutti i bambini che sono tutti uguali e tutti diversi.

Queste intuizioni, rivoluzionarie per i tempi in cui vengono generate, non trovano oggi ancora piena applicazione nella scuola. Il mondo della ricerca e quello della scuola devono interrogarsi sulla mancata applicazione delle teorie che dalla Montessori in poi hanno caratterizzato la riflessione pedagogica e da qui ripartire per arrivare finalmente a garantire a tutti i bambini, nessuno escluso, di stare bene a scuola, di trovare attraverso questa istituzione la possibilità di individuarsi e realizzarsi, oltre che di prepararsi alla complessità.

Il monito per la pedagogia è allora quello di non perdere di vista il proprio ruolo propulsore di innovazione didattica ed educativa, di continuare come nelle sue origini a porre obiettivi sempre più alti di umanità e perfettibilità. Il richiamo è anche a fare in modo che la teoria si riallacci più strettamente alla pratica: forse proprio attraverso l’ingresso della ricerca pedagogica nelle scuole è praticabile quel cambiamento così da lungo tempo atteso.

GF Brandolini Le radici montessoriane della speciale normalità