di Anna Savarese, Architetto di Legambiente Campania
In questa assurda estate incendiaria, già di per sé una delle più calde della nostra storia, iniziata con gli incendi boschivi della Siberia e lo scioglimento dei ghiacci dell’ Artico, l’emergenza si è drammaticamente spostata sull’ Amazzonia radendo al suolo ettari ed ettari della foresta pluviale tropicale nel Bacino dell’ Amazzonia che si sviluppa in ben 7 milioni di chilometri quadri di cui circa 5,5 milioni completamente di area boschiva.
Dai dati del INPE (Istituto nazionale di ricerche spaziali) al 20 agosto si erano già susseguiti circa 75.000 incendi superando di gran lunga le medie registrate negli anni precedenti e dall’inizio del 2019, con un aumento del 145% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno.
Purtroppo in Amazzonia da decenni imperversano l’agro-business di società multinazionali fautrici di un’agricoltura industriale fortemente incentrata sulla produzione zootecnica sottraendo terreno alla foresta e alle coltivazioni degli indigeni (il cosiddetto land grabbing). Ciò è la causa dello stretto rapporto esistente tra gli incendi e la deforestazione utile ad acquisire spazi per i pascoli e aree per le colture intensive dei mangimi, soprattutto della soia. Questa politica già attiva da tempo ha visto un’impennata sotto l’attuale governo del Presidente del Brasile Jair Bolsonaro che ha dimostrato le sue recondite finalità anche nei colpevoli ritardi registrati nello spegnimento.
Contro di lui si è immediatamente mobilitata l’opinione pubblica e tutto il mondo ambientalista: manifestazioni e iniziative a sostegno delle popolazioni amazzoniche si sono diffuse in tutto il mondo acquisendo solidarietà da personalità del mondo della cultura e dello spettacolo che hanno anche elargito donazioni (basti citare Leonardo Di Caprio che la sua organizzazione, Earth Alliance, si è impegnato a donare 5 milioni di dollari, o anche l’imprenditore francese Bernard Arnault che con il gruppo LVMH ha promesso 11 milioni di dollari). Ma si è registrato anche l’impegno di vari capi di Stato e di Governo che hanno sottolineato le deficienze delle politiche ambientali brasiliane, minacciando anche il blocco di accordi commerciali (l’Accordo del Merconsur appena sottoscritto a fine giugno) in assenza di interventi rapidi e risolutivi per fermare la distruzione della foresta.
Anche se Bolsonaro, da buon nazionalista dell’estrema destra, ha reagito violentemente e diffamando volgarmente soprattutto le ONG scese in difesa delle popolazioni indigene e non ha annunciato alcuna misura concreta per combattere la deforestazione, a fine agosto è stato costretto finalmente a intervenire perché ormai la responsabilità delle ricadute sull’intero Pianeta degli incendi erano divenute palesi, comportando con l’aumento delle emissioni di gas serra, l’ulteriore innalzamento della temperatura globale e, di conseguenza gravi effetti sui cambiamenti climatici già in atto.
Infatti, tralasciando gli aspetti di carattere geopolitico, pregnanti sono le conseguenze sociali sulle popolazioni indigene, ma soprattutto quelle ambientali, sia relativamente alle emissioni di inquinanti e soprattutto di CO2, che rispetto alla perdita di biodiversità (il WWF stima la perdita di 256 specie viventi, in particolare 180 animali e 85 vegetali), prospettandosi nell’accoppiata roghi-disboscamento la trasformazione della foresta pluviale in savana, con ricadute gravi sull’intero Pianeta.
L’Amazzonia, con un’estensione pari quasi all’intera Unione europea, accoglie ca. il 10% della biodiversità mondiale ed è il più grande produttore d’ossigeno e captatore della CO2 della terra; svolge un ruolo fondamentale di contrasto al riscaldamento globale perché il verde e gli alberi sono anche regolatori dei fenomeni atmosferici.
Infatti la foresta interagisce con il “ciclo dell’acqua” non solo a livello locale ma anche globale: l’umidità dell’oceano Atlantico ricade sulla foresta sotto forma di pioggia che viene assorbita attraverso il terreno dalle radici delle piante per poi risalire alla superficie delle foglie traspirando di nuovo in atmosfera, interagendo con i venti che smuovono le chiome degli alberi. “Una molecola di vapore acqueo viene riciclata dalle cinque alle sei volte prima di lasciare il sistema, tramite l’atmosfera o nel Rio delle Amazzoni”, dice Carlos Nobre, climatologo dello University of São Paulo’s Institute for Advanced Studies. La deforestazione dell’Amazzonia finirebbe col modificare anche il clima fuori dal Sudamerica perché la conseguente riduzione della pioggia comporterebbe un raffreddamento dell’atmosfera soprastante e questa perturbazione fredda potrebbe spostarsi dall’emisfero meridionale attraverso onde atmosferiche, creando effetti domino in tutto il pianeta.
Pertanto, decenni di disboscamenti e land grabbing con l’accaparramenti delle terre da parte di multinazionali e di governi a discapito e senza il consenso delle popolazioni indigene spingono molti scienziati a temere che si sia ormai rotto l’equilibrio del ciclo dell’acqua provocando livelli i siccità irreversibili. Uno scienziato come Thomas Lovejoy, docente alla George Mason University e scienziato senior alla United Nations Foundation, grande studioso della biodiversità considera che la perdita del solo 20-25% della foresta originaria potrebbe portare alla transizione inarrestabile verso la savana, un sistema secco caratterizzato da una vegetazione a prevalenza erbosa, con arbusti e alberi abbastanza distanziati da non dar luogo a una massa compatta e chiusa. Va considerato che secondo stime del governo brasiliano, ad oggi il 17% del sistema foresta brasiliano è già andato perduto. È chiaro che ogni previsione richiede verifiche e riscontri molto approfonditi, ritenendola per ora più opportunamente una possibilità, ma che questa possa essere concreta lo stanno già approfondendo alcuni scienziati dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change’s) analizzando gli effetti sui cambiamenti climatici connessi alle modifiche repentine del paesaggio.
Con riguardo all’anidride carbonica va inoltre sottolineato che l’Amazzonia è un inghiottitoio di CO2 perché immagazzina tra le 80 e le 120 miliardi di tonnellate di carbonio, pari a 13 volte le emissioni annue causate dai combustibili fossili e dall’industria; se fosse privata delle foreste e trasformata in savana, invece di assorbire questa quantità incredibile di carbonio finirebbe con il disperderla, rilasciando l’equivalente di cinque o sei anni di emissioni da combustibili fossili a livello globale.
Le enormi difficoltà di confronto e di dialogo con il Presidente Bolsonaro e il perdurare dell’emergenza incendi rendono necessaria un’azione concertata a governo mondiale per affrontare in maniera determinata e improcrastinabile il problema della riforestazione dell’Amazzonia. Per dirla con Lovejoy “La cosa davvero sensata è impegnarsi in una riforestazione attiva per guadagnare un margine di salvataggio. Non deve trattarsi necessariamente di una foresta primordiale, ma qualcosa che comprenda alberi e le complesse comunità a loro legate”. Per proteggere la foresta e riforestare il territorio distrutto occorre anche difendere i custodi di questi territori, le popolazioni indigene che da secoli si battono strenuamente per salvaguardare l’Amazzonia dallo sfruttamento intensivo agricolo e zootecnico, dal commercio del legname, dalle estrazioni di minerali, dalla distruzione dei loro villaggi e dall’annientamento della propria cultura.
W Savarese L’Amazzonia brucia – un crimine contro l’Umanità e contro il Pianeta
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