di C. Gily Reda
“A che cosa serve la cultura storica? A intendere il presente; e questa proposizione è poi una semplice reciproca dell’altra onde si afferma che la condizione per intendere il passato è il presente, un interesse del presente, e che ogni vera storia è storia contemporanea. Intendere il presente nella sua origine storica vuol dire intenderlo secondo verità e a fondo”. Così in breve, la frase riassume il senso dell’interesse che Croce seguita a destare: far storia è rivivere, anche senza essere magistra vitae, senza rivelare ‘leggi’ e oroscopi, insegna con la discussione. Se elementi concreti siano successi o insuccessi fa riflettere sui dubbi dell’oggi, su curiosità che richiedono soluzione originale nell’azione, – che perciò Croce insiste sia autonoma, come è da essa il giudizio individuale. Il mondo oggi vive in velocità e l’azione sembra una prospettiva storica complice l’alta virtualità del presente; giudizio e story telling si sovrappongono incrementando la confusione. Studiare Croce è ribadire la metodologia necessaria a capire e bene agire, ambizione anche del ‘costruttivismo’ attuale che riconosce l’ascendenza vichiana del suo voler ‘mandare ad effetto’ il pensare.
L’esperienza viva e rischiosa si giova di uno spazio terzo, al riparo di impeti emotivi e contingenze, per meditare analogicamente, come si fa nella vita, il decorso degli eventi. Croce ebbe la prima formazione filosofica con Herbart, ch’era l’oggetto delle lezioni di filosofia a Roma di Labriola dove visse dal 1893 a ‘96: fu autore di una psicologia filosofica che nell’idea dell’inconscio assorbiva l’intrasparenza dell’Io trascendentale kantiano, senza blindare il passaggio – voleva capire come evitare la distrazione negli studi. Basta spostare il foco dell’attenzione su di un problema interessante per creare lo spazio di silenzio, con altri studi si corrobora e si equilibra l’attenzione con una cura omeopatica. La storia passata agisce istituendo il palcoscenico di un evento affine, che come un binario guida l’intelligenza dei fatti; non è un manuale, vita e pensiero nel divenire hanno gioia e condanna, si meditano ipotesi e si entra nel mondo delle possibilità. l’attenzione Per capire quest’organicità, l’essenziale del pensiero crociano, sistematicità che non fa sistema, è opportuno partire dalla Storia del Regno di Napoli e dal 1924 in cui fu scritta.
L’anno pieno di eventi e scritture che sottolinea l’intreccio di pensiero e vita così intimo, che lo portava nel Contributo a dire che la Filosofia della pratica era senza parere un’autobiografia. Ma il passaggio dei secoli vedeva il trionfo delle filosofie della vita, da Nietzsche a Bergson a Blondel, al trasformismo darwiniano e positivista – Hegel e il suo divenire furono per Croce allora l’ancora contro l’irrazionale, con l’estetica di Kant ed Herbart, con la storia di Vico e Spaventa. Un intreccio che configura una sorta di diario fenomenologico teso tra scienza e coscienza, una filosofia della vita che sapesse evitare
irrazionalistiche. Croce preferiva non confondere usando il termine ‘fenomenologia’, ma riconosceva lo fosse quella riflessione del’41, unita a La Storia e a La Poesia.
È la direzione di Hegel che attraverso Spaventa più influì sull’intero milieu italiano, ed era la lettura più densa di futuro. Croce tradusse l’Enciclopedia hegeliana perché la vide come il terzo cominciamento hegeliano, quello filosofico che veniva dopo il fenomenologico e il logico. L’argomentazione della scelta è in appendice al volume nel 1912 e parte dal divenire di Spaventa: se il divenire si fa di forme distinte congiunte in “un nesso o un ritmo” e “la filosofia (è) un circolo, con ciò si pronunzia implicitamente l’inconcepibilità di un punto d’inizio necessario”. Croce parla più di poesia che di pittura: ma l’immagine che viene in mente è la ‘prospettiva’ del suo tempo, il cubismo, la visione simultanea che crea l’idea del presente continuo. L’anno dopo Gentile pubblicò il breve Frammento inedito di Spaventa nella Riforma della dialettica hegeliana del 1913: ma già nel ’12 aveva preso l’altra strada dell’Atto puro che lo porterà di nuovo alla soluzione di Hegel e di Spaventa, la progressione delle categorie: sistema, non sistematicità. Sbagliava perciò trattando Croce da storico più che filosofo – ricordando gli inizi della loro amicizia – perché era Croce a costruire la nuova teoria della vita storica, sviluppando il comune tessuto filosofico.
L’intreccio di coscienza e memoria costruisce una tesi olistica, sono tante le storie che fanno parte della vita; procedere con giudizi universali concreti su ciò che sceglie l’entusiasmo è contenerne gli effetti negativi e dare motivo al fare, con la razionalità del metodo. Che sia la vita il vero cominciamento Croce sa per esperienza personale, iniziò a filosofare per “non lasciarsi sopraffare dal destino” dopo la sciagura di Casamicciola in cui perse padre madre e sorella, nella vacanza estiva al mare. Andò a Roma dallo zio senatore Silvio Spaventa, e nel salotto fervevano le polemiche politiche; trovò pace nelle biblioteche leggendo le cronache degli eroi della rivoluzione napoletana, la melodia dell’adolescenza passata con la madre a passeggiare tra le case degli eroi. Le cronache diventarono scritti, ma per dar loro voce occorrevano “estrinseche esercitazioni erudite” e insieme “una formale disciplina … nella laboriosità in servizio della scienza”.
Tornato a Napoli il circolo di amici artisti, letterati, librai e bibliotecari condivise i suoi interessi e collaborò alla “Napoli Nobilissima” ed alle sue tante iniziative di cultura. Così mandava ad effetto, le lezioni di Labriola su Herbart all’Università di Roma: curare le ansie con l’impegno, seguire l’etica del dover essere con la virtù salvifica dello studio. L’educazione estetica insegna nella scrittura ad ordinare l’interesse ad un’ottica produttiva. Nasce così la ben equilibrata capacità di cura di se stesso di cui Croce è maestro. E la cura di sé, ricorda oggi Foucault, è il terzo motto del Tempio di Delfi dopo conosci te stesso e nulla di troppo, che intendeva Socrate ma non Platone ed Aristotele, che hanno reso la filosofia troppo razionale.“Filosofavo, spinto dal desiderio di soffrir meno e dare qualche assetto alla mia vita morale e mentale”, la ricerca si faceva passione e ricerca: trascurando gli studi universitari – Silvio Spaventa trattava con “moti di compassione” questi entusiasmi per “la tua Napoli”. Il Regno d’Italia per antonomasia – come diceva nel 1924 – accolse di nuovo nell’86 le sue passeggiate, che poi ripeté con le figlie, Elena Croce ricorda: “egli rifaceva con me le passeggiate della sua gioventù”. La città compagna silente non è quella del melanconico flâneur, sia Baudelaire o Benjamin: Napoli per Croce è eroismo e avventura, gioventù dell’anima: tra Parigi e Napoli c’è di comune l’essere essa il miglior conversatore possibile, come diceva Petrarca, che rimpalla idee e parole mentre zittisce le chiacchiere e i contenziosi. Ma nemmeno la città, nemmeno la storia, si sottraggono al divenire, perciò il ‘ritmo’ delle forme si conclude con la Teoria e storia della storiografia.
Contemporanea la storia diviene per l’interesse con cui la si studia: la chiave del moto è l’entusiasmo, che ha il suo peso persino in Kant, argomenta Lyotard, trovando lo spazio del giudizio analogico non solo nella Critica del Giudizio, ma anche nella Ragion Pura. Allora, non è solo chiave dell’estetica ma anche del conoscere determinante, e solo così s’intende il carattere rivoluzionario del discorso che il razionalismo di Kant riesce a fare con l’estetica del giudizio riflettente; risentì anche lui la carica potente dell’illuminismo. Negli anni ’90 a Napoli c’era una recrudescenza illuminista e c’erano molti interessi su Kant anche perché di lui e dell’estetica s’era occupato Gioberti, molto caro a Napoli, Croce ebbe ben due insegnanti neoguelfi: il primo maestro Giuseppe Prisco e, al collegio, l’abate Tosti. L’esperienza di vita così per ogni via conferma la forza dell’intreccio di vita e sapere, per chi cerca di dominare l’irrazionalità nella pace. Aver dovuto ordinare le cronache aveva mostrato a Croce un metodo e la sua potenza: la crasi di frammenti slegati diventa significante nell’inquadratura giusta, quella che ne domina il protagonismo. Un quadro è unità panoramica di particolari che non si snaturano se si compongono nel senso: “la storia si scrive del positivo e non del negativo, di quel che l’uomo fa e non di quel che patisce”. “La storiografia si genera da un bisogno d’azione” rendersi chiara l’azione è dedicarsi ad azioni, “non già all’inazione e al vuoto, al vivente e non al già morto”. Ma ciò nella continuità del flusso.
Le eccellenze storiche portano a parlare di lumi, di eroi, ma la “storia per eminenza, civile o morale o etico-politica che si dica” è diversa dalle storie speciali da cui nasce, perché racconta la lenta maturazione degli eventi nelle storie ‘della vita o vitalità’. “La vitalità non è la civiltà e la moralità, ma senza di essa alla civiltà e alla moralità mancherebbe la premessa necessaria, la materia vitale da plasmare e indirizzare moralmente e civilmente; sicché alla storia etico politica verrebbe meno il suo oggetto. E la vitalità ha coi suoi bisogni, le sue ragioni, che la ragione morale non conosce… donde lo sconvolgente e travolgente delle sue manifestazioni”. La complessità chiede d’essere letta nella sua linea ideale, dedita all’orografia del senso senza scendere nei sentieri interrotti – perché è essa che fa intendere il perché si interrompano i sentieri, venendo ad incontrarsi con valli pluviali che sono ostacolo al procedere diretti.
Sarebbe però dar ragione a Gentile non accennare nemmeno per partire dall’intreccio alla filosofia crociana che fonda questa ottica così attuale. Sarebbe sbagliato non dire che il suo capolavoro è il sistema, dando per questo termine la definizione dello storico dell’arte Flavio Caroli: ciò che una volta nato non può non essere citato. E anche Croce non poté farne a meno, tornando sempre sulla sua coerenza, pur notando alcune imperfezioni. Ma riprendendo il pennello, come Leonardo con Monna Lisa, perfeziona lo stesso dipinto – ma così non lo chiude mai, mentre il divenire si giova di ripartenze, che consentono le svolte portando all’occhio altri problemi. Ci certo periodi sistematici diversi, cambiamenti, lo dice Croce, ma esplicitano sensi prima meno chiari, a volte anche a lui, com’è nel procedere di una trattazione – come lui stesso pure dice. Le polemiche infinite portarono proprio a questo divenire immobile, per le questioni della politica e della storia; si perse l’occasione di costruire un grande dialogo comune e di avvenire. Se si paragona ad esempio al ‘700, alla discussione euristica, che gli epistolari restituiscono, svoltasi sullo sviluppo delle idee kantiane, tanto per fare un esempio, s’intende il disappunto che genera il 900 italiano, pieno di parole proiettile e di costruzioni sempre laterali ed eccentriche.
L’universale concreto per Croce vive tutta la vita dello spirito, è la predicazione universale di un soggetto individuale, uomo, teoria, evento; nel conoscere storico si può accentare sul soggetto e si hanno giudizi definitori, o invece sul predicato e si hanno giudizi individuali: così agile, compendia in sé il pregio del giudizio sintetico a priori dell’intuizione di Kant e dell’universale concreto di Hegel letto col ‘pensare’ di Spaventa. Il divenire, disse, non ha un primo, è già l’essere da cui partire: ma coerentemente allora non dovrebbe sviluppare un sistema delle categorie fuori del divenire. Piuttosto proseguire nell’autonomia di una azione, di nuova storia – come fece Croce. Spaventa sapeva di aver colto così bene il senso profondo di Hegel nella fenomenologia, perché erede della tradizione di italiana, poteva leggere con piena ricchezza Campanella, Bruno e Vico – ecco il significato profondo di quella tesi della circolazione del pensiero europeo, che è più narrazione che storia, pur corredandosene. In Italia è grande l’attenzione alla memoria e alla retorica, nel cui insegnamento superiore era compresa la letteratura e la storia. Croce non insiste come de Ruggiero nel 1912 sull’ argomentazione del che-cos’è, ripresa dal that’s-what’s di Collingwood, la base della logica proposizionale che va oltre la ‘forma’ a costruire contenuti, passando a nuovi problemi interessanti. Ma certo Croce ha compiuto il passaggio essenziale quando afferma il divenire e abbandona davvero il problema del fondamento nell’intreccio della vita e della storia, che non è ancora l’esplicita definizione di potenze del fare del ’38. Le forme non sono l’oggetto del discutere o spazi da riempire deducendo categorie: sono energie d’azione teorica e pratica. Non disegnano la mappa davvero esatta, grande quanto il mondo, disse il Borges di Finzioni – la memoria vuole camminare, contemporanea nel presente e nel passato, nella sistemazione che non si fa sistema per la continuità dello spirito. La storia da contemplazione diventa conoscenza di cui la filosofia, metodologia della storia, delucida i canoni ermeneutici, preparando azioni geniali.
Dalla cronaca della rivoluzione napoletana alla Storia del ‘99
I ragazzi si entusiasmano per le storie degli eroi, Croce era guidato dalla madre, già lei appassionata di anime romantiche che abitavano i monumenti di Napoli: la passione per le cronache nel 1896 diventava storia, senza ancora prendere quel nome, ne 1896. La Prefazione chiariva il senso degli eventi che se ne ricavava con forti giudizi sui rivoluzionari e sui Borbone. Il racconto parte dalla tesi di Cuoco di una ‘rivoluzione passiva’, figlio della frustrazione per la tragedia, ma lo contesta nel vedere che “l’unione delle classi colte di tutte le parti d’Italia, gittò il primo germe dell’unità italiana” e il superstite Gabriele Pepe diede inizio al Risorgimento coi moti carbonari del 20-21. Lo confermano la storia di Murat e I Viceré di De Roberto, che narrano la storia di un paese che vive la tempesta con forte ingegno aspirando alla ‘Nazione’ e all’’Italia’ già nel “Monitore Napoletano”, il giornale di cui Croce raccolse tutti i numeri. La sua autrice, Eleonora Pimentel Fonseca anche se non può annoverarsi tra i pensatori originali, ebbe grande influenza per il suo ruolo ufficiale nel governo: fu figura intellettuale, invece, di tutto rispetto. Era stata poetessa di corte e poi tenuto un salotto che l’aveva condotta in carcere alla Vicaria. Nel 1790, dedicando al Re la sua traduzione dal latino del libro sulla Chinea di Caravita da Sirignano, aveva aggiunto in nota: “il regno non è padronato… è amministrazione e difesa dei diritti pubblici della nazione; conservazione e difesa dei diritti privati di ciascun cittadino… della Nazione”. Una donna coraggiosa che fu vera interprete della neonata ’opinione pubblica’. La Chinea era la tassa che il re pagava al Papa, vero simbolo della sudditanza di Napoli al Papa, di cui s’era occupato anche Pietro Giannone, autore della Istoria Civile del Regno di Napoli (1770), dicendosi ‘ultimo ghibellino’. L’importanza della comunicazione e dell’educazione era stata detta da Filangieri, maestro dei repubblicani del ’99, ma lei, che aveva verseggiato in Arcadia applaudita da Metastasio, seppe trovare il come. Racconti di feste e teatri che frammezzano le brutte notizie, si dedicano anche alle spieghe di Michel‘o pazzo e ai catechismi rivoluzionari.
Nel successivo Albo del 1899 Croce pubblica lo scritto di Francesco Pignatelli avuto dagli eredi, scritto nel 1819 a Ferdinando Visconti che lo ringraziava perché “nel modo più luminoso ave(va) rivendicato l’onor militare della nostra nazione che sì leggermente da più d’uno è stato calunniato e vilipeso” (p. XVIII); denunciava anche le ruberie di tesori e banchi operate dai Borboni come dai francesi; ricordava la lunga storia giuridica che non rese necessario lottare per la Magna Charta nel paese degli antichi Sedili di giustizia, che ”il re ha abolito quando è ridiventato padrone di Napoli” (p. XXX). A Napoli le carrette alla ghigliottina le aveva fatte sfilare Re Ferdinando: e si confermarono i troppi eccidi e grandi odi, il contrario di quel che serve per costruire il domani: la questione sociale, di cui Croce s’interessa come tutti, era argomento di salotti e strade come racconta Dostoevskij, merita altre soluzioni che tumulti e giacobini.
È sorta intanto nel lavoro la domanda sulla storia – cos’è? Nel ’93 scrive la celebre tesi La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte, che cambierà nell’Estetica del 1902, che aveva già cambiato all’ultimo momento in tipografia avendola prima assimilata alla scienza. Il che dimostra la veemenza delle tesi, dovute all’approfondimento compiuto con gli studi su Marx, durati due anni. È ancora Labriola la guida, Croce legge i testi delle sue lezioni e se ne fa editore, studia anche l’economia di Pareto, si avvicina a Sorel. Scrive diversi saggi, apprezzando il nuovo importante canone di interpretazione storiografica venuto così all’attenzione della storia, che combatte di utilità e forze in campo. Il marxismo studia per capire “quel che se potesse o no trarre per concepire in modo più vivo e pieno la filosofia e intendere meglio la storia”. Ne viene la definizione dell’utopia, una critica qualificante: il concetto marxista di plusvalore non è storico, non c’è una società in cui il valore lavoro sia ut sic il valore dei prodotti. Il marxismo è quindi un ‘paragone ellittico’ con una società inesistente. Ed è tale ogni utopia nel suo essere una lettura onirica, un ideale; e se non si vuole parlare di valori solo di sera, come Machiavelli quando vestiva panni aulici per studiare – è il necessario spazio della configurazione degli ideali. Croce non valuterà mai quest’aspetto in politica, è un suo limite fino alle polemiche col neo illuminismo del secondo dopoguerra, ma tradisce il detto vichiano.
Lo studio di Marx porta alla filosofia di Croce la sua novità più rivoluzionaria: se le azioni storiche sono i fini dell’uomo, l’utile va considerato insieme al καλὸς καὶ ἀγαθός, al bello vero bene platonico, al Regno dei Fini. Così Croce aggiunge la concretezza della storia alla dialettica hegeliana dell’eticità. La storia va oltre la cronaca quando sceglie i frammenti giusti per ricostruire il mondo civile, eventi, ideali. La caduta degli eroi del ’99 fu causata dal troppo sangue versato nei tumulti e nelle rivoluzioni anche comuniste di Vincenzo Russo, dei ‘guaglioni’ di Campanella. Il vero carnefice è l’astrattezza utopica dell’ideale, che impedisce la condivisione e l’evoluzione. E visto poi che il marxismo seguita l’astratto, non è scienza, è inutile affastellare dimostrazioni storiche, come Gothein e Kautsky, e poi il genero di Marx, Lafargue, tipo il recupero del robusto pensiero di Campanella, adducendo che esso diventò storia perché adottato nell’educazione dai Gesuiti. Lo si fa per allontanare lo spettro del giacobinismo con l’educazione, come Gramsci: ma si può chiamare allora in causa il liberalismo illuminato di Villari, Fortunato e Sonnino, l’ideale di Eleonora argomentato nel terzo libro di Filangieri… Il comunismo non diventa così realtà coi suoi precursori – è la tipica aspirazione alla legge che diventa deviazione positivistica. La storia, quindi si posiziona tra la scienza e l’arte, che sa rivivere le passioni e le storie: tutto sarà più chiaro nella teoria del giudizio individuale.
1. L’etica e la politica nel 1924
L’intreccio di filosofia e vita è chiaro, in teoria e in storia nel 1924, quando l’argomentazione della storiografia etico politica cui aspira dalle cronache su Napoli diventa la costruzione del 1924 con la Storia del regno di Napoli e il richiamo al concreto della Politica in nuce. L’azione Croce compie inaugurando una società di cultura politica che sia spazio di formazione e discussione politica.
Si argomenta così il detto della storia civile di Giannone, appena continuata sino ai giorni nostri da de Ruggiero, editore Croce / Laterza. Croce attacca così al suo calesse due purosangue, da un lato per chiarire che la storia etico-politica non è una qualsiasi storia, anzi dà il nome alla politica nel titolo del testo in cui compare la riflessione politica, Etica e Politica, dovuta al suo inglobare i Frammenti di etica del 1922. La storia del mondo realizza il divenire tra utile e morale, la distinzione non è un muro e lo ha sempre detto: è cambiato il vento delle affermazioni col cambiare della marea per il veliero della teoria. Il primo risultato ottenuto nel campo della storia, la critica dell’astratto, ora richiede la distinzione dell’utile dalla morale, contro le declamazioni e l’esplicita assunzione di responsabilità della violenza illiberale a proposito del delitto Matteotti. La conclusione aberrante della tesi sull’importanza della forza nella storia nella confusione di forza e violenza (come dirà Popper), rende necessario cambiare strada: superati i conforti di Giolitti sulla transitorietà della violenza fascista, Gobetti, Amendola sono già vittime politiche, lo saranno Gramsci e i Rosselli. La Politica in nuce perciò ribadisce l’eticità hegeliana nella concretezza della storia che non teme declamazioni, partiti, programmi, valori astratti ad autorizzare delitti e leggi liberticide. Nelle strade della vita l’etica dei popoli è il criterio che sa mitigare i rapporti di forza in azioni di politica senza fughe di utopie e immagini – sulle azioni storiche si elabora il giudizio e l’agire. La teoria della libertà è il quadro degli approfondimenti che diventeranno parte integrante del testo sino al 1931. Alla politica basta il valore della libertà, che è nella storia ‘demoliberalismo’, precisa nel ’27 nella Storia d’Italia; è una ‘concezione metapolitica’, non una legge economica, non è il liberismo di Einaud: è un modo di vivere, la storia civile che è libertà se è anche egualitaria e comunitaria; libertà uguale non c’è tra diseguali, diceva il fabiano Hobhouse.
Giudizi storici e non bandiere di valori: nel ’17 aveva ringraziato il marxismo di averlo salvato dalle “alcinesche seduzioni della dea Giustizia e della dea Umanità”, ora li equipara al miracolo di San Gennaro (pp. 177-79). Ma non era sempre stato così; cambia la storia e dunque l’equilibrio dei giudizi. Le vicissitudini private e la guerra hanno depresso l’entusiasmo per i valori del 1799.
Napoli allora stentava a definirsi capoluogo, piena della sua ricchezza commerciale, industriale e intellettuale anche se già priva del suo tesoro. Ciò acuiva il senso dei contrasti che alla fine dell’800 erano ancora pieni di risentimento – quando nel 1924 la speranza si oscura in tragedia, quel clima di allora diventa esaltazione della storia civile, che cerca oltre gli eventi la cultura diffusa, l’architettura sociale, lo stato d’animo – come poi le Annales. In essa storia e cronaca sono tutt’uno, come la riflessione politica svela l’etica nell’insoddisfazione che guida la storia – senza togliere la distinzione. La Politica in nuce dice il mutato animo di chi è di nuovo nel pieno della tempesta e torna in silenzio a camminare nella storia di Napoli: tirata in ballo dalla Questione Meridionale, la politica in corso, da cui Croce discorda. Per allontanare l’irrazionale, compito della filosofia, esigenza di vita, non cerca chiarezza in concetti di scienza politica o collaborando ai partiti che non sanno guidano le azioni ai loro fini: piuttosto riflette sulle azioni fondate su giudizi individuali.
Ma come attuare allora il confronto concreto per conseguire le mediazioni necessarie alla politica? Rosselli condivise questa critica dei partiti, che al momento colpiva al cuore il Partito Fascista: ma senza ideali astratti, senza programmi politici, senza partiti… chi e come agirà in un campo capace di mediazione? Occorreva una filosofia dell’azione, per capire come ognuno si disponga alle res gerendae, che sono oltre le res gestae e l’historia rerum gestarum, disegnata nel ’42 da de Ruggiero mentre nel ’42 Collingwood ordinava un sistema filosofico della civilizzazione. È un limite il Croce, che non discusse tesi interessanti, per affermare la concretezza del dover essere, voce della coscienza a lui ben chiara: rigore personale cui in politica i più sfuggono con serenità. Croce diceva si dovesse andare ad una filosofia dell’economia: era appunto questo il vuoto da colmare con una teoria attenta a forme, metodi, individualità. Come fece per l’estetica – pensò che si potesse fare allo stesso modo per la storia politica: ma la distinzione di teoria e pratica insegna che non è lo stesso. Comunque, Etica e politica affermano la concezione liberale come pre-partito della cultura; Esso gestisce la storia del tempo di pace, quello che tratta nel ’27 la Storia d’Italia, i quasi 45 anni di pace dal 1871 al 1915. Mentre l’Italia si affida ai fasti del Romano Impero Croce, spera di scrivere per la rifondazione futura, dirà nel ’47 alla seconda edizione. Evidentemente non bastava la ‘missione’ di Mazzini di costruire l’unità: occorreva poi “vivere umanamente, cioè idealisticamente, la vita, operando secondo le materie e le occasioni che si offrono”. L’Italia nei quarantacinque anni di pace non ha adottato giuste politiche per il Mezzogiorno, ha favorito le ferrovie al Nord e privilegiato le sue industrie, senza rispettare le esigenze del Sud agricolo e anzi gravando su di esso con la tassa sul macinato… politiche depressive che generarono l’emigrazione di massa dell’8-900, altro fenomeno prima inesistente. Così nacque il ‘problema’ del Mezzogiorno, problema di cui sinallora l’Europa non s’era accorta: ma la tesi piacque.
2. Storia del Regno di Napoli
Già subito erano partite le ingiurie sui ‘napoletani’, termine con cui si indicavano tutti i meridionali: tutti africani e briganti – tranne gli esuli ovviamente. Quanto diverso era l’animo del liberale Conte di Cavour che li voleva per la loro intelligenza. La seconda generazione politica peggiorò le cose al fine di trarne vantaggio, i Fortunato, i Franchetti e i Sonnino ne fecero una questione di geografia e di razza. Croce intende invece scrivere la storia, ch’è scienza di giudizi individuali, e restituire alla patria la sua identità. Inizia perciò con una riconosciuta autorità storica, Enrico Cenni, “legato da gentile affetto alla patria napoletana”, introdotta con una propria domanda che ricorda le invettive di Dante: “Or come mai tutta questa sublime storia napoletana, questa parte quasi privilegiata che essa ha avuto nell’operosità politica e civile, questa così grande e perseverante virtù e sapienza di cittadini devoti alla patria non è generalmente conosciuta e , anzi, è generalmente disconosciuta e negata?”. Croce non ricorre al mito della Campania Felix, ma alla storia etico politica di Enrico Cenni, la giusta chiave perché l’economia “non sarebbe mai la sostanza vera della storia di un popolo, di quella che conta, della storia per eccellenza, che è solamente quella etica o morale e, in alto senso, politica”. “Promotori di siffatta storia sono i ceti, o gruppi che si chiamano dirigenti, e gl’individui che si dicono politici e uomini di stato”, ma poi c’è la “nostra storia reale ed effettiva” che non consiste di eventi ma è la “corrente sottomarina del gulf stream, che prosegue maestosamente il suo corso senza lasciarsi turbare dalle tempeste”.
“La costante associazione e difesa… dei diritti del comune, la libertà sempre mantenuta delle persone verso il possessore del feudo, la mitezza della nostra costituzione feudale, la tendenza a far prevalere sul diritto feudale il diritto civile, la concezione del feudo come bene pubblico concesso per servigi, le lotte giurisdizionali con Roma, il rifiuto dell’Inquisizione, il ricorso ai mezzi legali nelle rivoluzioni, i lumi sparsi dai nostri scrittori di filosofia civili e simili”. L’invisibile guida a capire il visibile, il pensiero segue la motivazione, l’azione sarà la risposta – così si vive e si pensa il vichiano gemellaggio di filosofia e filologia: tracciare il problema, consolidare la lettura.
Cenni racconta che a Napoli ”ebbero sempre vigore gli iura civitatis, i diritti che competono ai cittadini in quanto tali”; è largo di affermazioni documentate.. La storia parte dall’Impero Romano, da quel Romolo Augustolo morto a Castel dell’Ovo cui successe Odoacre che ne fece la capitale dell’Impero per i continui disordini di Roma tra i potentati e il papato narrati da Gregorovius: Napoli non essendo ducato longobardo conservò dominanti i tratti giuridici romani, quella Magna Charta di cui parlava Pignatelli, molto presente nel quotidiano perché i racconti delle dispute divertivano come chiacchiere, la magistratura civile dei Sedili si amministrava in pubblico. I Sedili erano il Consiglio del governo della città con i rappresentanti dei Sedili aristocratici – Nilo e Capuana – del ‘popolo grasso’ – Montagna Portanova e Porto – e il Seggio o Piazza del popolo che comprendeva tutte le ottine-quartieri. La continua attività giurisdizionale diffondeva una non sempre positiva garanzia dei piccoli poteri: Croce cita il caso di Ferrante d’Aragona e della Congiura dei Baroni, dove si poneva il problema dello strapotere delle casate che ostacolava l’innovazione della politica – ma è un vanto il fatto che le rivendicazioni civili fossero giuridicamente argomentate: il civis romanus vi era in qualche modo sopravvissuto. Persino Masaniello, l’antonomasia della sommossa e del fallimento, narra Croce, fa parte di questa storia civile dimenticata: la rivolta fu occasionata dal ritorno a Napoli di Giulio Genoino, il rappresentante del Sedile del Popolo che nel 1622 aveva proposto una modifica costituzionale al Duca di Osuna allo scopo di diminuire le vessazioni feudali: per unire quel Sedile agli aristocratici Nilo e Capuana e riequilibrare i poteri cittadini. Con mossa rapida, si destituì Osuna, si nominò a Procida Gaspare Borgia Viceré, senza convocare il Sedile del Popolo: mai accaduto! Genoino portò la causa al Re di Spagna, passò molti anni in carcere: nel 1647 fuggiva tornando a Napoli, che insorse. Masaniello ne fu il capo-popolo. L’evento interessò Baruch Spinoza; fu stampata una medaglia col pescatore e Cromwell sui due lati. Uno dei tanti esempi in cui si parla sempre diffamando Napoli; eppure si lamenta spesso la sua abbondanza di avvocati e giuristi, anche rivoluzionari come Logoteta; il gusto diffuso per chiacchiere processuali nei salotti era racconto di Winspeare e Addison (p. 137).
Dopo questa vigorosa introduzione, Croce racconta la storia gloriosa del Regno di Svevi, Angioini ed Aragonesi, non eguagliati in grandezza dalla signoria di Carlo V, il cui stemma è a Castel Sant’Elmo. Durò molto, perché l’Impero era esoso ma ordinato. Non disprezzava il popolo, definito cencioso, ma “a suo modo civile… aveva morale e religione, e amava la famiglia, non bestemmiava, non si ubriacava, viveva con poco, era felice con poco e allegro”. Un ritratto ancora riconoscibile, perché è da questa storia lenta che si vede se “ci sia stata o no vivace attività etico-politica”: la cultura del popolo è la “religione come unità dello spirito umano” (p. 29). E poi ci sono anche le glorie intellettuali dell’Illuminismo, una cultura non solo europea, Gaetano Filangieri con la riforma dei codici civili interessò Frankljn prima a Napoli e poi in America; l’intese Napoleone, che accolse la vedova a Parigi dopo la sconfitta del 1799 con la Scienza della Legislazione aperta sul tavolo (p. 152). ”Gli illuministi napoletani erano infiammati da una nuova religione” (p. 157), ma anche concreti: Antonio Genovesi ebbe la prima cattedra di Commercio nell’Università di Federico II (p. 160). “L’Italia (diceva un altro di quei primi giacobini, il Lauberg) ha trovato tanti piccoli vulcani in quanti napoletani ha raccolti nel suo seno, né tra i fasti della sua rigenerazione l’ultimo luogo occuperanno i figli del Sebeto” (p. 201). Scrive Eleonora il 6 aprile 1799: “Viva la gioventù cisalpina! Ogni lode italiana è lode di tutta l’Italia” (p. 204). Ed ecco che l’Italia soverchia gli ideali dell’89 e la frigida teologia massonica, l’amor di patria e l’idea di libertà sono calda partecipazione: nella patria del fascismo la “tradizione è come minacciata, e si cerca d’introdurre nel nostro sentire un torbido e cupo e sensuale nazionalismo di straniera provenienza: in fondo, una cattiva letteratura” (p. 242).
Il Regno di Napoli era ‘il regno d’Italia per antonomasia’: ma l’Italia si formò altrimenti. La meno ubertosa Savoia fu ghibellina e liberale, attenta alle contese europee. I Borboni tornati dopo Murat si strinsero invece al Papa rifiutando il ruolo naturale di Napoli, riconosciuto dai mazziniani fratelli Bandiera e Pisacane; da Francesi e Inglesi che aspiravano a due piccole Italie in protettorato: e già Acton a Campoformio voleva metà dei terreni pontifici per Napoli, lo ricorda Ugo Foscolo. Ma Napoli era guelfa nel re e negli intellettuali, si difese sinché gli altri vinsero, e subirono la sorte dei vinti. Nonostante i tanti patrioti e la filosofia civile, non furono aiutati dagli esuli al governo coi Savoia: involate le ricchezze monetarie, deperirono lentamente agricoltura, ferrovie, industrie e commerci. La storia di Croce onora la patria napoletana dandole coscienza del suo essere.
Croce era Senatore dal 1911, come lo era stato lo zio Silvio Spaventa, tra gli esuli di Torino col fratello Bertrando e Francesco de Sanctis –la sua nomina era stata favorita da Giustino Fortunato (gli Spaventa morirono nell’83 e nel 93) che lo aveva aiutò contrastando l’universitario Filippo Masci, con grande soddisfazione di Croce perché in specie con Masci aveva un conto in sospeso: s’era ostinato a negare la giusta chiamata di Gentile a Napoli. Si poteva meditare un’azione capace di creare un diverso blocco storico tra nuovi potenti e vecchi sudditi di altri regni? Certo è che non si creò, si badò a sopravvivere a danno dei deboli. E allora restava l’Europa, come per Filangieri e Rosselli; come per Lauberg la cui Accademia regalò alla rivoluzione il primo martire, Emanuele de Deo; come per i Re di Napoli – il primo re nato a Napoli era un Borbone sposato con una Asburgo (eredi da Carlo V del titolo di Cesare e Re dei Romani) che aveva per Primo ministro un inglese. D’altronde, Melchiorre Delfico era stato il primo ad offrire la corona d’Italia – d’Italia si badi – a Napoleone e Murat fu a Napoli un re gradito… Croce segue quest’anima europea e lancia il cuore di là del confine nel 1932 quando scrive la Storia d’Europa. Avrà pensato che se i politici italiani almeno avessero ascoltato Galiani, l’abate autore del libro sul commercio dei grani che fu pubblicato da Diderot e D’Epinay e che aveva prima sostenuto il liberismo delle frontiere per poi capire che il commercio dei grani non poteva ignorare le singole economie: anche solo ascoltando Galiani potevano far meglio, nulla di peggio di chi non vuol capire. Meglio quindi che come Napoli si tradusse in Italia così l’Italia si traducesse in Europa, nella comune ‘religione della libertà’. È la convinzione dell’Europa, la forza degli ideali creduti in quanto tali che fu la religione civile degli illuministi. Basta non condividere con i francesi le banali liturgie campestri del ritorno alla natura di Rousseau. Il palpito della religione della libertà conclude il grande disegno del ’24 – sempre più in alto, col metodo dell’intellettuale, guadagnando orizzonti senza perdere d’ identità. Se la cultura sa rammemorare la sua civiltà con energia e coraggio. La motivazione dell’azione dev’essere robusta, non mancano al pensiero laico le fedi, come dimostra “il contrasto ideale del comunismo col liberalismo … tra spiritualismo e materialismo”, già Tocqueville diceva il giacobinismo una religione capace dopo l’Impero Romano di aver rinforzato la profonda unità ch’è anche nelle lingue. Guerre e paci hanno accomunato uomini e costumi; la forza della religione della libertà fa sperare che se ”si avrà un tempo più o meno lungo di oscuro travaglio, dal seno del quale rigermoglierà, presto o tardi, la libertà ossia l’umanità … l’unico (ideale) che affronti sempre l’avvenire e non pretenda di concluderlo in una forma particolare e contingente… Quando, dunque, si ode domandare se alla libertà sia per toccare quel che si chiama l’avvenire, bisogna rispondere che essa ha di meglio: ha l’eterno”. Il “processo di unione europea è direttamente opposto alle competizioni dei nazionalismi… quando essa avverrà l’ideale liberale sarà a pieno restaurato negli animi e ripiglierà il dominio” e saprà dare la misura giusta ai problemi sociali.
La storia del ’38 quindi chiude questo ampio percorso di lettura teorica e storica sistemando questo percorso di una fenomenologia che non vuol dirsi tale, che medita tra scienza e coscienza. La filosofia della vita vi si è fatta autocosciente, e la riflessione sulla vitalità ormai in corso prepara l’ultima grande opera dell’azione politica a Napoli, distrutta dai bombardamenti del ’42. Sarà l’azione concreta che operò a dare scacco al Partito d’azione, certo piuttosto irrazionale ed astratto negli ideali, che però aveva la forza del blocco storico, come dimostrò poi – diviso, sgominò ogni serio dialogo nazionale. Preferì rifondare con Alfredo Parente il Partito liberale, una scelta che non dà problemi agli interpreti, concordemente esegeti. Mentre è un riconoscere senza dominare la forza che ha riconosciuto e posto in uno spazio troppo controllato dallo spirito, negando la vitalità degli ideali. E allora ecco che si mostra l’animo ‘recondito e misterioso, inaspettato’ ‘lo sconvolgente e travolgente delle sue manifestazioni ed il suo imporsi come una forza che vale per sé, fuori del bene e del male’. Tanto che Paci vi colse l’istinto di sopravvivenza, un che di simile a Nietzsche: un bel libro, ma che in ciò sbagliava di sicuro. Croce combatte sempre l’irrazionale cui Nietzsche si adegua: che i contrari coincidano non toglie il loro essere opposti, come bello-brutto.
Croce combatte l’astratto come irrazionale e propone il dover essere, comprende l’importanza dell’utopia e condanna il mito in politica, non fa che parlare di azione e non ne fa una teoria… sono le tipiche contraddizioni di Croce: che però aveva ragione nel dire che si fa storia del positivo, e in Croce ce n’è davvero tanto. La storia del 1938 con La poesia e il Carattere della filosofia moderna è indicato da Croce stesso nei Taccuini come una “nuova fenomenologia dello spirito”: uno spiritualismo, perché “l’uomo non ha altra esperienza che di se stesso, della sua spiritualità; e poiché spiritualità è attività, dialettica, storia, anche alla cosiddetta natura è da estendere il carattere della storicità, e non già della storicità fittizia, che era solita negli evoluzionisti e che consisteva in una classificazione di astrazioni naturalistiche, fantasticamente disposte a modo di successione storica, ma della storicità senz’altro, della storicità in universale, che è di ogni processo della realtà”. Così si può “tagliare dalle radici il naturalismo e la trascendenza” .
3. La vitalità
L’Europa è per Croce soprattutto la Germania: durante le guerre e il fascismo Croce non volle mutare le sue abitudini di lettura e critica, le sue amicizie, ma mostrò preoccupazione alla prolusione del Rettore Heidegger, gli ricordò l’indipendenza di giudizio di Karl Barth; per l’ebraismo parlò di assimilazione; fu deluso quando alla fine della guerra persone che stimava come Thomas Mann, Friedrich Meinecke, Karl Jaspers e Röpke gli parvero poco toccati dall’orrore. La storia d’Europa ingrigì, l’irrazionalismo romantico gli parve la palude avvelenata da una vitalità ferina, che non era l’Utile da lui teorizzato, nemmeno se si pensa a Machiavelli. I giudizi sulla vitalità già nel ’30 iniziano a mostrare segni di apnea, ma ribadiscono l’autonomia dell’azione nell’approfondimento del ’24.
Le affermazioni del ’32 hanno un tono di leggerezza che contrasta con quello audace dell’inizio del secolo, ma anche con quello preoccupato del ’38. Nel ’32 pare che Croce scherzi con chi proprio non vuol capire: non è un utilitarismo, non c’è nulla di hobbesiano; non è economia, al massimo ci si occupa dei prolegomeni: la teoria è nata piuttosto per evitare che l’utile si comporti come un ‘ragazzo impertinente’ rubando ‘intera intera l’Etica”. L’utile, la Lebenswelt di Rickert (p. 91) dovrebbe sviluppare un’erotica e un’edonistica per consolidare il rispetto di questo valore. Chi pensa che l’utile assume la veste di ‘vitalità’ solo dopo, quando acquista la polarità civiltà barbarie, pensa a questi toni lievi: ma basta leggerli senza preconcetti, considerare l’intera, drammatica, formazione della teoria, per vedere la sostanza dell’antico Adamo che approfondisce accenti nel nuovo quadro di composita prospettiva: cubista, dicevamo all’inizio, ma sempre anche rinascimentale e storica, come tra l’altro succedeva al tempo anche in pittura. Chiara nel considerare il filosofo, lo storico e il letterato in una sola visione organica. In positivo e in negativo, Croce resta lo stesso, ad esempio nel ribadire ancora la negazione della casistica – che invece nel campo della pratica da che mondo e mondo è ritenuta necessaria; già Kant era stato ritenuto astratto – ma qui non c’è paragone possibile: tutto si affida alla genialità individuale (p. 109).
Coevo è il discorso sulle scienze mondane che considera necessario parlare invece che di ‘natura’, di ‘spirito’, quando vien chiaro il discorso della ‘vita passionale’, le sue espressioni entrano come ‘materia’ in tutto il pensare – così le categorie assumono quel ruolo meta-categoriale che è di tutte le categorie nello spirito, unità e distinzione. In proposito, dirà al parola giusta Scaravelli nella Critica del capire del 1942, argomentandone la polemica filosoficamente vana – ma essa nel ’31 infuriava con massima forza. Ecco perché la conferma di Croce è più stizzita che preoccupata, ma cede alla pressione della critica faziosa e seguita a parlarne. Ancora non emerge il pericolo che sarà chiaro nel ’38: l’orrore allora sarà nell’aria con le bombe, a Napoli e a Londra, con la nuova ecatombe della guerra e poi il processo di Norimberga.
Il dolce nome della Lebenswelt in realtà copre come un sudario tutta la sconvolgente vita, anche nelle nascite e nelle crescite… ma è proprio questo il punto da cui la saggezza di Croce tenta di allontanarsi come può. Lo sforzo costante di allontanare il problema dell’irrazionale dominio del male, affronta sostituendo al termine ‘natura’, ‘spirito’ nello spiritualismo assoluto, e pare ignorare che il problema era l’aggettivo – nel mondo del divenire non c’è assoluto e relativo – il male e la maledizione sono nella vita e si presentano come quel che chiede risposte. Peraltro queste risposta Croce ha dato per tempo richiamando la filosofia del Rinascimento, ma il continuo sospetto che ciò conduca al mito, alla narrazione, all’astratto, ne impedisce il potere equilibratore.
La soluzione era partire anche nella teoria dal problema – al modo di Kant. Tutti lo ripetono, ma poi tutti ricominciano con le definizioni analitiche del simbolo o del mistero, perché questa è la sfida dell’uomo, sapere, conoscere il mistero – quel che chiede la filosofia del divenire come storia è riconoscere e sempre riprendere il presente dal presente, per sapere.. Quando “la filosofia diventa per tal modo spiritualismo assoluto“, tutti i pensatori accrescono il patrimonio mentale, “la morale dell’operosità è da dirsi morale ‘eroica’ (…) la gioia austera di partecipare, nella propria piccola o grande parte, alla continua creazione del mondo”. La vita si esprime nelle opere, ma come vita diveniente è l’organismo del rivivere a spiegare l’evoluzione della vitalità, nel farsi da ‘ragazzo impertinente’ una grottesca innominabile, e poi infine ricomparire come alla finale vitalità ‘cruda e verde, selvatica e intatta, che prima fu forma e poi si precisa come materia’. La vita distrugge i valori che l’uomo crea, ma Vico l’aveva detto in modo compiuto; è il mondo della storia, che vince l’irrazionale in quella battaglia continua che è la vita per cui si combatte. Nata come filosofia della vita che nell’estetica e nella pratica domina l’indominabile, la riflessione filosofica ha consentito di pensare la logica e la teoria della storica: ma ciò accade appunto per il coraggio degli uomini a battersi per la civiltà. Croce è sconcertato dal notare che a volte il riconoscimento della storia che deve riconoscere a volte la “realtà delle cose, nel campo dell’esistenza” come ciò “che contrasta con la coscienza morale” possa generare “sottomissione all’accaduto trasfigurato in una legge a cui si deve obbedienza”. Non questo è storicismo “ma fiacchezza e ipocrisia morale; non è un atto teoretico di verità ma un atto pratico e di assai vile qualità”. Non si accetta il mondo ut sic, per il sempre giovane ‘vecchio filosofo’: le cose cambiano, e forse, confessa, è l’epoca contemporanea che non sa più produrre grandi uomini.
La dimostrazione della sostanziale immobilità dei caposaldi della teoria è nell’Antologia pubblicata da Ricciardi nel 1951 Filosofia poesia e storia, composta da lui stesso su sollecitazione degli amici; opera sintesi, più che modifiche, e a volte riprende brani senza cambiarli, come la pagina sul giudizio individuale che è semplicemente la stessa della Logica del 1909. Nel ’52 l’ultimo libro su Hegel, quando cede al racconto e ambienta la filosofia in un dialogo, torna anche sul tema delle Forze vitali e forze morali. Economia, politica ed etica, per confermare che “la distinzione di forze vitali e forze morali, utilitarie ed etiche, o come altrimenti sono state definite e metaforizzate (terrestri e celesti, barbariche e di civiltà, ecc.), ha importanza capitale per l’intelligenza delle azioni e degli avvenimenti storici, e non si può raccomandare abbastanza di mantenerla nella sua nettezza e rigore, perché è categoriale, cioè formatrice di giudizi. D’altra parte, appunto perché categoriale, non bisogna intenderla come distinzione empirica o separazione, quasi si possano sceverare individui e fatti che appartengano esclusivamente all’una o all’altra sfera, il che sarebbe contro l’unità e la concretezza dello spirito”.
Gli ideali morali non vivono separati dal concreto, le politiche che l’ignorano falliscono. Le contaminazioni di morale e politica sono continue mosse di una unione incontaminata che grazie ad esse procede. “Il contatto al quale l’azione morale viene con l’azione politica ha, certamente, qualcosa d’inquietante, recando con sé l’immagine di una contaminazione accaduta o che stia per accadere e di una colpa che aspetta la sua punizione e la sua espiazione”. “L’unione della morale e della politica è necessaria e, poiché necessaria, ha carattere positivo e non negativo, è virtù di bene e non corruttela nel male. Neppure il più candido e fervido amore (…) può farne a meno”. Ed è conferma di una battaglia con l’irrazionale che impedisce la speranza, la forza con cui Croce combatte dall’inizio nella vita e negli studi. La filosofia della vita è diventata storicismo assoluto e spiritualismo assoluto perché nell’aggettivo c’è la speranza, nel sostantivo il riconoscimento del mistero che si vuole intendere. C’è parte malefica e benefica – il bene è spesso sconfitto ma ciò non scoraggia il combattente, che con la metodologia sostiene il suo passo – ma solo l’utopia avrebbe la forza cogente di disegnare scenari; la religione della libertà rispetta la storia mentre l’uomo agisce al seguito di narrazioni. Croce dovrebbe saperlo bene, lui che ha sempre rincorso nel vento i suoi eroi – il tema della vitalità riemerge con forza per questo, c’era ancora futuro, ancora da intendere.
Conclusione: Da Via Atri a Palazzo Filomarino
Queste due dimore lungamente cercate sono quelle di Croce occupò sin dai suoi quarant’anni, dopo il lungo vagare dal 1883, prima a Salerno, poi a Roma, infine tra i vari quartieri di Napoli rivieraschi e collinari, sino ad arrivare dove voleva, la Napoli dei decumani e dei monumenti, la Napoli da camminare, la patria del cuore, l’ambiente degli affetti e della vita di sapere e fare.
Chi conosce Napoli, sa che tra Via Atri e Palazzo Filomarino è più che altro una questione spirituale; sono case vicine ed affini nella Napoli così varia nei suoi quartieri. Entrambi i palazzi hanno una storia, ma certo la casa dei Sanseverino, ancora oggi sede dell’Istituto e della Fondazione Croce, contava gli abitanti più famosi ed antichi. Uomo di buone amicizie, Croce vi ha vissuto gli studi e i salotti, ma con quel giusto corredo di fantasmi che ogni buon lettore porta sempre con sé. Tanto era grande l’incanto, che gli fu piacevole trasportare biblioteche ed arredi in ‘quell’angolo di Napoli’.
Non è un caso quindi che parta di qui Francesco Sanseverino di Bisignano, ultimo personaggio, di direbbe, delle avventure di fede e di passione narrate da Croce: e la sua è finalmente la stessa passione di Croce, la filosofia. Era già stato visitatore di Hegel, il personaggio della novella delle Indagini su Hegel, che ritorna a trovarlo nel 1831 per porgergli i suoi omaggi e discutere le sue tesi nel loro fantastico possibile sviluppo – le tesi crociane. Precisa perciò i tre punti che la sua grandezza lascia alla storia, la teoria dell’universale concreto, dell’intelletto separatore delle scienze e la scoperta della dialettica che finalmente intende il male e il bene, come tutti gli opposti, nella loro collaborazione alla storia dell’uomo nella storia unica del divenire, influenzato dall’astuzia della Ragione o forse anche e meglio dalla Provedenza vichiana.
È la conclusione davvero, di quel dialogo fruttuoso iniziato da Croce proprio ‘in quell’angolo di Napoli’, dove incontrò il giovane professore Giovanni Gentile, siciliano ma di passaggio a Napoli verso la cattedra del liceo abruzzese dove insegnava. Era venuto a conoscerlo per dargli certi suoi scritti di letteratura, campo in cui Croce era già ben noto; ma forse anche perché come parente di Bertrando Spaventa era erede della biblioteca del filosofo, morto nel 1883 prima dell’arrivo di Croce, alla morte nel 1893 anche dello zio Silvio. Gentile aveva studiato con l’allievo di Bertrando, Donato Jaja, e infine ne prese il posto alla Normale di Pisa: come studioso, poteva essere doppiamente lieto di quell’amicizia. Gentile così andò ad insegnare al Genovesi, a Piazza del Gesù, a duecento metri da casa Croce, e poi si insediò a Napoli con la moglie Erminia, anch’ella abruzzese, che divenne buona amica di Donna Angelina e vi ebbe i primi due figli: è il quadro di un’amicizia fraterna e di dialoghi affascinanti in cui nacque l’approfondimento crociano di Hegel. Incancellabile rimpianto come sono spesso le pagine felici dei tempi in cui si è anche giovani e pieni di speranza – fu questo che impedì a Croce il ‘non ti curar di lor ma guarda e passa’ di fronte ai lazzi degli attualisti che ancora si leggono nelle riviste filosofiche di allora. Ridicolizzare la sua nuova e radicale lettura del problema chiave dell’irrazionale fu l’affronto che gli impediva di sviluppare la sua filosofia della vita in coerenza, problematizzando anche la teoria; così accade negli affetti profondi. Gentile tentò di mantenere il rapporto ma fu Croce ad essere irremovibile già nel ’13… ma rimase a discutere di identità e distinzione e delineò il giudizio storico in metastoria, senza davvero rinnovare il suo pensiero della vitalità; che perciò quando esplose fu persino confuso con l’irrazionalismo che parve ribaltare il quadro della distinzione – che le ultime citazioni fatte apertamente negano.
Diverse alternative erano state infatti proposte già negli anni ’10, ma non le ritenne degne di riflessione, mentre erano vie che con minore e maggiore consapevolezza meditavano il milieu spaventiano – pensare il divenire nella storia. Queste alternative si proponevano problemi di teoria e ne ragionavano, discutevano dei sensi nel mondo della vita, come si potesse intendere nel 900 l’utilitarismo, il liberismo, il liberalismo, i valori nella vita politica, il ruolo dell’utopia, cosa significhi capire, e, ovviamente, la teoria dei giudizi scientifici. Non erano polemiche attualiste, ma discorsi euristici e filosofici che Croce evitò per riaffermare che il campo della vita non è o stesso della distinzione. Ed ecco che il pensare o diventa giudizio storico definitorio e tautologico, ovvero diventa giudizio individuale su cui si scrivono storie. Così la filosofia ogni volta che riprende il cammino s’interroga sui limiti categoriali. Dov’è finito il problema? Il segreto dell’ipotesi, il che-cos’è, dava il via ad una storia problematica che articolava lo sviluppo delle idee con una metodologia ordinata che tendeva a quella ‘futura metafisica’ di Kant; Croce ne è parte, ma ne rifiuta il nome come quello di fenomenologia, per non fare confusione nel mondo delle parole proiettile. Ma ognuno ha il diritto e il dovere di percorrere la sua propria strada.
Quando nel 1907 Croce, che Gentile definiva storico più che filosofo, pubblicò la traduzione dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio di Hegel, dopo l’interpretazione originale dal famosissimo titolo Ciò ch’è vivo e ciò ch’è morto della filosofia di Hegel, del 1906, sempre con Laterza, l’editore di Bari con cui iniziava la sua solida industria del libro: nacquero la Filosofia della pratica nel 1908 e la Logica come scienza del concetto puro nel 1909; dal 1903 inoltre iniziò “La Critica”. Un’originalità così spinta che esibisce la qualità fenomenologica di un hegelismo novecentesco che studia lo Hegel del divenire e della vita, non della sistemazione istituzionale della cultura. Mirabile organismo di pensiero ed azione, guidato dalla indefinibile filosofia della vita.
Napoli, l’amica di sempre, esercita su di lui un potere della bellezza che sembra al riparo dalle intemperie: ma nel 1942 proprio il campanile di Santa Chiara vedeva invece la guerra troppo da vicino. Il coacervo della storia vissuta come contemporanea pesa su chi ne fece la teoria – la Filosofia della pratica è un’autobiografia di cominciamenti relativi. Se si rileggono senza pregiudizi le parole di Croce, la continuità è chiara ed omogenea; certo, era molto più difficile a fine Ottocento parlare dell’utile insieme col bello-vero-bene, di quanto sia parlare di vitalità cruda e verde nel ’52. Molti impliciti che paiono differenze generano questi discorsi, ma se c’è un difetto in Croce è la costanza, che lui stesso sempre ribadisce. Bisognava continuare ad aprire le vie sul nuovo mondo – come all’inizio, sostanziandosi dei frutti, lui che ripeteva con Goethe “ciò che dà frutti sol è vero”. Quella tale Erotica o Edonistica doveva pensarsi nel confronto, non nella bocciatura, del ‘prammatismo’, nonostante le consonanze e sviluppi; come il valore positivo dell’utopia del neo-illuminismo di de Ruggiero; come il that’s-what’s di Collingwood che da Spaventa diventava logica proposizionale e poi nel 1942 una sorta di sistematica politica… tutte tesi problematiche, cui la sua esperienza avrebbe potuto giovare con una lettura attenta. Non è frutto dell’età: Croce ha questo atteggiamento dai tempi della polemica su “La Voce”. La logica costruttivista che accomuna tutti i vichiani in diversi modi era l’anima comune di queste direzioni, che partivano dalla Teoria e storia della storiografia del 1917. Un dialogo socratico avrebbe forse formato il milieu capace di affrontare meglio il secondo dopoguerra, che si limitò a rompere i ponti col passato: Croce poteva tornare ad essere come una volta “un grande riformatore non solo della vita intellettuale ma ancor più della vita morale della nuova Italia”.
Una fenomenologia del giudizio individuale e dell’individuo nella storia nella dimensione categoriale delle forme funzioni di Cassirer, seguita fin dall’inizio, sviluppò comunque forme di problematicismo conformi alla filosofia della vita come divenire nella storia. Croce ne è il ‘fondamento relativo’, storico, nel passaggio dalla deduzione delle categorie alle potenze del fare. La via era forse quella, non considerata, delle Degnità vichiane, che naviga tra isole nella corrente che consentono l’approdo. Era l’idea base delle figure/parole feconde di Giordano Bruno, che era tra l’altro in Inghilterra quando Bacone, uno dei quattro auttori di Vico, scriveva i Cogitata et visa.
“Sempre che io odo celebrare il pensiero, suprema forza della vita, genitrice di tutte le altre e anzi di tutte le altre che sono lui stesso, osservo tra me che il medesimo si può dire e si è detto della volontà morale… della fantasia artistica… non è da ammettere il concetto di un pensiero che stia per sé solo, accompagnato dalle altre forme della vita; perché quell’unità stessa, che si pone come pensiero, si pone come tutte le altre forme insieme, lo stesso sangue circola in tutto l’organismo, e dove c’è pensiero, c’è morale, c’è azione, c’è arte, buona, sana, energica, come quel pensiero stesso”.
GF Gily La Storia del Regno di Napoli e la vita della memoria
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