La pietra filosofale

di Viviana Reda

L’inseguimento della pietra filosofale mi era già costato lunghi anni di lavoro ossessivo ed infruttuoso. L’ostinata ricerca di una metempsicosi che avrebbe trasformato i più lugubri e angosciosi incubi in una distesa di prati verdi di felicità sembrava essere giunta al suo punto più doloroso.

L’inesorabile alambicco meccanico d’un orologio a muro scandiva le accidiose ore del pomeriggio che, per una tragica necessità, continuavano ad inseguire quelle ancora più stanche della mattina. Le carte sul tavolo in perenne disordine indicavano stravolte i passaggi meticolosi della strada percorsa alludendo sgomente a cifre, formule e simboli che si illuminavano spegnendosi nel languore. Doveva esserci in quegli appunti un segno, anche accidentale, che indicasse il senso: esso sarebbe comparso all’improvviso, come per caso, dischiudendo la via alla parte pratica dell’esperimento, quella più terribile, che mi avrebbe finalmente condotto nel regno dell’insondabile, lì dove tutto avviene per allucinazione. Spesso ci ero andato molto vicino tanto vicino da sentirmi già travolto dalla forza potente del mistero dei sensi, e, cadendo in preda al delirio dello svenimento, mi era sembrato di scorgere i sentieri che conducono al Segreto del Mondo.

La mia esperienza mi aveva insegnato che questo può capitare. Più volte era successo al mio vecchio maestro Joseph di vedere o sentire voci o fantasmi dell’oblio, lemuri accecati che gli indicavano la strada. Solfuri, nitrati, ammonio, polvere di potassio e tetracloruro di carbonio producevano effetti visionari sui sensi di chi aspettava la notte per destarsi.

Qualcuno, perdendosi nella ricerca e divertendosi con la chimica, sosteneva d’aver trovato l’elisir di vita eterna grazie al nitrato d’argento che fermava i corpi immaginandoli immortali nel cimitero della posterità.

I più nei crocevia del viaggio erano impazziti, dispersi. Ma io ancora persistevo nell’agonia. La pietra filosofale doveva essere vicina, i miei scritti parlavano chiaro. In un tempo lontano, percorsi ormai tra le righe convulse del turbine delle formule, era venuto alla luce un nuovo elemento che avrebbe cancellato l’Alchimia del mondo trascorso. La fine del mondo lo aveva liberato trascurando di cancellare le antiche forme della magia, residui simbiotici di questa terra. Gli antichi simboli parlavano il linguaggio della permanenza sopravvissuta a sé stessa, della presenza abbandonata, dei relitti dimenticati nell’assenza. Le rovine del linguaggio alludevano al loro creatore, invitavano alla ricerca di un nuovo Golem frutto della sparizione definitiva della sua stessa argilla.

Gli scienziati della torre d’avorio hanno costruito una nuova scala, su in cima. Una scala che conduce all’immaginabile. La porta d’accesso a questa scala è stata murata con l’argilla del vecchio Golem. Il vecchio Joseph sostiene che essa sia un monumento alla fine del mondo e che essa non serva a salire, bensì per scendere. Il disegno o il progetto originario è avvolto nell’ombra. Certo è che anch’essi intuiscono la fine del mondo e forse hanno già trovato la pietra filosofale. Questo mistero è insondabile. La torre non ha alcun accesso o via d’uscita, ma certo è che il lavoro al suo interno è febbrile, ultima prova ne è questa scala. Il volgo non se ne cura, è assorto da altro, dal come dal quando, cosicché nota a stento la torre e non la scala e la sua inumana eccentricità. Forse la pietra filosofale giace al di sotto della torre.

I libri che ricoprono le pareti ed il letto ammiccano tra loro e mi deridono, complici nella condivisione della conoscenza del nulla.

Sono trascorsi degli attimi interminabili ed ancora affanno nella ricerca. L’inseguimento è giunto al suo termine.

L’inseguimento è la pietra filosofale, la scala il suo movimento.

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