di Anna Irene Cesarano |
Verso gli anni settanta, nel pieno della maturità di Giovanni Fattori si pone con forza il problema del delinearsi dell’”umanità fattoriana”, quell’ intricato rapporto con la realtà storica, che negli anni giovanili si era animato di un dinamismo polemico e fervore attivo, ma che ora tendeva a profilarsi come monologo, con l’intento di approdare al vero senso della natura visibile e conoscibile, di arrivare all’autentico significato della conoscenza, alla radice del meccanismo di comprensione del mondo. L’uomo è storia eterna e rinnovata e la forma rappresenta l’unico mezzo per capirlo, come per la visione courbettiana, il reale è la forma. Il Fattori nelle sue grandi tele militari, che appartengono a questi anni, sperimenta in quella sua dimensione laica e scarna, una sorta di definizione “nazionale” del quadro verista, schematico, popolare.
Un capolavoro di questi anni che attesta questa importante, per così dire, “mutazione fattoriana”, è il bellissimo (ma purtroppo perduto in seguito al naufragio del piroscafo Europa nel 1880 che aveva caricato l’opera a Melbourne dove Fattori l’aveva inviata per partecipare ad una mostra), Mercato dei cavalli in piazza della trinità a Roma. L’opera, di cui non ci resta che una vecchia fotografia, venne realizzata dopo il 1872, e mostra un impianto, seppur affaticato, chiaramente assertivo, tutto giocato in quella composizione chiusa a cunei incrociati, che caratterizzeranno le opere di maggior successo del maestro livornese.
Il quadro, forse il primo “grande quadro civile” dell’artista si distingue per la rappresentazione fulminea e per la maggiore libertà con la quale il Fattori definirà lo schema compositivo della tela. Seguiranno altri capolavori come Barrocci romani o Riposo, In vedetta o Il muro bianco e Rappezzatori di vele, che coroneranno la nuova fase fattoriana. In queste tele c’è una perfetta e visionaria identificazione tra strutture dimensionali, piani di luce e intensità attiva, facendo percepire o rivelandolo inavvertitamente, che Fattori avesse ”sentito” la fine della stagione macchiaiola e soprattutto la necessità di trasformazione di quel rigorismo formale che aveva caratterizzato la sua produzione artistica fin dai primi anni di Livorno, approdando ad uno dei risultati più logici e depurati di tutta la pittura ottocentesca.
“Il rapporto tra la pennellata a macchia e il disegno che la sottende definisce un impianto di reale stereometria, in cui i volumi emergono attraverso disegno e colore, entro il quale la circolazione luminosa può trovare un equilibrio inedito tra definizione mentale e trasalente verosimiglianza” (Monti, 1986-1995, p.24).
Soltanto pochi anni prima Fattori aveva eseguito Bovi al carro a Castiglioncello, nel quale la scansione di una distanza tra sé e l’immagine rappresentata, una sorta di distanza contemplativa che rallenta il tempo della visione, risulta assente, in questi capolavori degli anni settanta, per poi risolversi in una sorta di dinamicità luminosa diversa e originale che raccorcia l’impulso della visione regalando un’energia nuova all’immagine.
Fattori modifica, infatti, alcuni elementi del suo codice espressivo, che se negli anni sessanta dei soggiorni di Castiglioncello si caratterizzava per una forte assonanza stilistica con i suoi amici macchiaioli ad esempio Borrani, ora quale nuova forma di comunicazione si mostrava in tutta la sua forza e acquisiva un valore nuovo. La luminosità “insugata” dei capolavori maremmani ora appare rinvigorita dall’impeto dei piani prospettici, per cui il colore assume una connotazione costruttiva nuova, ora la macchia davvero, come osservò Barilli (1970; Monti,1986-1995, p.25), “diviene mezzo unificatore per individuare al di fuori del dettaglio le zone portanti dell’impianto spettacolare”. Dunque è la consistenza della materia coloristica che connota questo processo di trasformazione stilistica in atto, sia che si riveli in campiture smaltate, sia che sia ridotto a puro potenziale costruttivo. Appartengono a questi anni anche Riposo di muratori e Impressioni fuori porta Romana.
Proprio commentando un dipinto del Fattori (Barrocci Romani o Riposo del 1873), il famoso critico d’arte Lionello Venturi (1926), soleva dire a tal proposito che nel Riposo egli ci ha dato alcune immagini dove le linee spezzate del contorno servono come accenti di luce che distinguono masse oscure e soleggiate. Una stanchezza torbida, meridionale, rassegnata, polverosa, vissuta accanto a un muro della campagna romana invade il quadro. Qualche vecchio ronzino, due carri abbandonati, un muro chiuso, una distesa di terra, hanno scatenato la fantasia di Fattori, il quale vi ha veduto le sue linee spezzate, le sue macchie sotto l’azione del solleone. Un’afa che abbatte, una miseria non soltanto fisica, una situazione spiacevole e proprio perché le mancava ogni pretesa di bellezza, che ha permesso all’artista di rivelare la sua bellezza in alcune masse vibranti di tono nel sole […]. L’aspetto primitivo dell’arte ne sgorga con una forza che sbalordisce.
Il filo unificante che univa i giovani pittori sotto la bandiera della macchia, fin dall’inizio degli anni settanta, si è spezzato in mille sfaccettature, dove ognuno trova la sua strada, infatti il gruppo coeso degli anni d’oro della poetica macchiaiola si dissolve, in seguito al diversificarsi di alcune vicende biografiche di vari componenti del gruppo, come la morte prematura di Abbati e Sernesi, il trasferimento di alcuni a Parigi come Zandomeneghi, Boldini, e l’affievolirsi della tensione etica, man mano che le loro aspettative di giustizia sociale vengono disattese, mentre nessun sostegno è offerto alla loro arte. La realtà sociale appare lacerata da critiche e polemiche, riguardo allo sviluppo di un’arte popolare su commissione, secondo il gusto francese di “arte per la società”, e alla peculiare diffusione di un clima di mode culturali, verso la metà degli anni settanta.
Ma Fattori non era stato toccato da tutto ciò, e in una situazione di totale isolamento continua, per la sua strada, in piena autonomia di stile e di metodo lavorativo. Opere come Rappezzatori di vele e In Vedetta, ben esemplificano questo discorso, data la superiorità della loro cifra espressiva, superando il mero rapporto tra dato ottico, impaginazione formale e sensibile trascrizione di un evento.
I cinque pescatori appaiono intenti a rattoppare le vele, trovando il loro equilibrio nella prospettiva, il terreno sabbioso in primo piano, il netto contrasto nero-azzurro e le barche in lontananza conferiscono alla tela una luce e un’atmosfera “ferma”. In Vedetta, il muro è il protagonista della rappresentazione, avendo un ruolo prospettico più rilevante, la luce è quella di un’afosa mattinata estiva, nitida, chiara, prorompente, percorsa dalle figure in primo piano e dallo stagliarsi del contrasto delle ombre, che conferiscono peso e verosimiglianza a cavallo e cavaliere. Del mutato clima culturale e sociale dell’Italia postunitaria si fanno interpreti alcuni artisti come Niccolò Cannicci, Egisto Ferroni e Francesco Gioli, rappresentanti autorevoli di un “naturalismo” riformato italiano e specificamente toscano. Proprio di quest’ultimo Fattori diventerà grande amico (era anche un suo allievo), infatti, dietro suo suggerimento, decise di compiere nel 1875 un viaggio a Parigi, in compagnia appunto del Gioli, di Cannicci e di Ferroni.
L’amicizia con la famiglia Gioli, appartenente all’alta borghesia intellettuale, produsse alcune telette di raffinata fattura, (in quanto, nell’estate del 1875, fu ospite nella villa dei Gioli a Vallospoli) come La signora Gioli a Fauglia, Vallospoli, Signora che cuce in giardino, dove si nota un’attenzione particolare ed elegante all’universo naturale e al peso delle figurette femminili. Sono di questo periodo anche altri dipinti, come Pagliai, le Boscaiole, che attestano una sorta di riflessione moderata nel suo percorso artistico. In alcune tavolette eseguite in questi anni (1875-1880), come Viali alle Cascine, Tre cavalli in pastura, Cavalli al sole, Battitori a Correggiato, è possibile rinvenire il procedimento di concentrazione ottico- strutturale sopra il soggetto, il motivo di una partitura di luci e di movimento variatissima e la capacità aurea di modulare un’architettura ampia della visione, sopra un impianto di luci a piani stereometrici.
L’oscillazione di un’inquietudine, che sembra far trasparire una assennata mutazione, in un rapporto più maturo e diretto con la realtà, quella realtà che si conosce in quanto forma, caratterizza alcune opere degli anni Ottanta, dove si percepisce un approfondimento di tale rapporto, come Mercato a San Godenzo, Lo scoppio del cassone, Lo staffato e un “quadrone” militare, genere nel quale gli era riconosciuta la supremazia, Il Quadrato di Villafranca o la Battaglia di Custoza. Nella Battaglia di Custoza l’artista assume la grande dimensione, rispettando le partiture classiche, ma creando uno spazio nuovo, in cui coinvolgere direttamente lo spettatore, lasciando a questi la possibilità di misurar sul “vero” il volume prospettico delle figure umane. Si tratta di un modo di impostare la composizione pittorica completamente contrario a quello naturalista in cui l’inquadratura è caratterizzata da figure macroscopiche e fortemente definite.
Come affermarono i fratelli Pischel (1945), […] non è l’ideale patriottico che anima le sue maggiori e un tempo più acclamate tele: ma un senso di partecipazione umana con chi spogliato di ogni ambizione, non ha che da obbedire o servire. Ecco il motivo di questo continuo pullulare di soldati, isolati o serrati nella concorde disciplina d’una azione, statici o travolti dal violento dinamismo delle cariche, fissati di per sé nella loro squallida e goffa caratterizzazione o avvertiti come elemento complementare del paesaggio e proprio per quella loro indifferente impermeabilità.
Nello Staffato opera certamente sgradevole, ma vitale, finalmente liberata da quell’aurea “souplesse” emotiva, che contraddistingueva le opere dei suoi amici macchiaioli e quelle dello stesso Fattori degli anni precedenti, il pittore pone l’attenzione non sul gruppo dei protagonisti, ma sul momento della visione, in cui essa, si determina, lo stradone solcato dai paracarri ha con lo spettatore un impatto quasi motorio, da sequenza cinematografica. Questo dipinto mostra l’esito avanzato di una riflessione sulla progressione del tempo nell’immagine e una evocazione dello stesso, capace di dar vita ad un’inquadratura che intende porsi come dinamica e realmente “in atto” con il riguardante. E’ un esempio luminoso della necessità di reintegrare l’immagine entro uno spazio attivo e non prestabilito da sistemi ottici, che sarà l’elemento chiave della produzione artistica degli ultimi vent’anni del Fattori.
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