di Viviana Reda
La fuga era finita, finalmente. Quando mi voltai, in affanno, all’indietro, mi accorsi che i miei inseguitori erano svaniti, che di loro non era rimasta traccia. Solo un vago agitarsi del vento ricordava ancora i fremiti della corsa e le ansie del viaggio. Non so quanto tempo era durata la mia prigionia, non so se ore o secoli mi dividevano dalle cose note, dai sentieri inesplorati della mia terra. Tutti, ricordo, avrei voluto percorrerli, per giungere sempre qui, come oggi, in questa radura. Non so precisamente quale sia stato il luogo della reclusione, in cui le ore passavano, lente, a contare le ombre che cadevano tenui all’interno della gabbia. Forse qualcuno pensava che avessi un segreto nascosto, forse un tesoro, o un terribile mistero che tutti avrebbe annientato alla sua rivelazione.
M’accorsi presto di poter sopravvivere anche nel buio della grande cupola in cui era incastonata la gabbia. La mancanza della luce del sole, ricordo lontano e terribile, venne presto rimpiazzato dalle muffe fluorescenti. La bocca non si lamentò poi a lungo dei fatiscenti sapori offerti dai vermi. Tutto sembrò calare nel più abbacinante colore lunare, qualcosa di conosciuto in precedenza, ma svelarsi diverso, immagine sbiadita e putrescente di un sogno incompreso. Mostri deformi e notturni inseguivano i pensieri per carpirne il senso, la direzione, come se cercassero in me il senso della loro stessa esistenza. Ombre ricurve mi facevano compagnia in quell’eterna notte coabitando col mio corpo che diveniva sempre più molle e rarefatto. La gabbia fungeva, dunque, da luogo di deposito, in cui nulla più importava della mia sorte, purché avessi cura delle ombre, m’immedesimassi. Oscuro mi era il disegno, ma talvolta, preda d’un’inutile angoscia mi volevo figlio d’un progetto, di un disegno più grande che mi avesse prescelto, educandomi, a questa oscura iniziazione. Scoprii più volte che non v’era verità di sorta che non la gabbia stessa. Forse quella non era che una, l’ultima delle gabbie, rinchiusa in una più grande di pietra, e questa, a sua volta, era forse rinchiusa in una grande ampolla, una clessidra in cui tutto stesse inesorabilmente continuando a scorrere in un deserto talmente grande da non riuscire ad immaginare. Il silenzio continuava a disturbare i miei cupi pensieri. Da anni, infatti, avevo rinunciato all’uso delle parole, ignobile simbolo del sommo inganno, e per di più inutile a chi non spera più di aver finzioni da raccontare. La lingua, da sola, emetteva talvolta suoni che non mi erano però di alcuna consolazione. Questo era il segno della mia ostinata perdizione, della perpetuazione della mia immanenza in una forma che stentava ad evolversi. I più diversi sogni parevano condurmi fuori dalla gabbia, come aneliti di luce, essi sembravano volermi, allontanare da quel destino, forse sommerso e inespugnabile di vana solitudine, ma in quanto accidentale proprio per questo più imperscrutabile e necessario. Ma non grazie alla luce conquistai la libertà. La liberazione avviene ora…
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