di Edgard Morin
Il 1 dicembre 2008 Edgard Morin ebbe la laurea honoris causa a Napoli in Scienze della Formazione, il 2 dicembre fu invitato dal prof. G. Gembillo direttore del Centro Studi a lui dedicato, al convegno all’IISF, organizzato dalla ricerca OSCOM dell’Università di Napoli Federico II, diretta da C. Gily Reda. (1)
Grazie della presentazione e dell’amicizia. Mi fa molto piacere di parlare dell’importanza dell’estetica per la formazione. Comincio col dire che, non possiamo totalmente identificare arte ed estetica. Possiamo dire che c’è un’estetica fuori dell’arte, se estetico si può definire il sentimento di ammirazione, emozione, abbagliamento, fascinazione, che può provenire da uno spettacolo naturale, come il tramonto del sole, come il volo di una farfalla, come la maestà di una montagna, come l’immensità del mare. Allora abbiamo un’emozione che possiamo definire con il termine di bellezza; ma, per me, c’è sempre presente anche un’altra emozione, più ampia, che chiamiamo poesia, bellezza come forma di poesia – e non parliamo solo di versi. È qualcosa di più ampio, che è parte della vita, dell’opposizione e della complementarietà. Alla prosa della vita, delle cose che facciamo per obbligo, senza piacere, senza gioia, è la poesia che dà l’emozione, che viene dalla comunione, dall’amore e dalla commozione, dal gioco e dall’estetica. Questo è quel sentimento estetico evidente nella coscienza che l’arte produce, che si riconosce in tante altre manifestazioni, che non sempre sono arte.
La poesia che si manifesta nell’estetica è quella in cui c’è allo stesso tempo partecipazione affettiva o psichica; ma al tempo stesso c’è distanza. Come ad esempio quando sono in un cinema e parlo con un amico; o quando sono al teatro e sento il pubblico in platea; o quando leggo una novella e sento di partecipare ad una scena, mi proietto e mi identifico coi personaggi narrati, o quando in una tragedia partecipo profondamente ad un’intensità di vita e di comprensione: sono tutti momenti in cui emerge una doppia coscienza, un vivere non solo fisicamente, di fatto, ma psicologicamente.
Restiamo nella poltrona del teatro e del cinema: e la duplicità si manifesta come doppia coscienza, di partecipazione e di distanza; questo è il proprio dell’estetica, che si manifesta come nell’amore, in una duplicità che resiste. Per questo, quando Brecht voleva introdurre la distanziazione nel suo teatro, pensando ad una novità, scopriva invece qualcosa che già esiste nella struttura della messa in scena. Brecht voleva eliminare la distanza, ma non ne vale la pena, perché è l’intensità della partecipazione che, invece, si potenzia nella distanza.
L’artista, nel momento che dà vita ad un’opera d’arte, non ha la stessa presa di distanza; vive intensamente la sua stessa partecipazione all’opera e vive la distanza solo dopo, alla fine del lavoro, quando si dà ad osservare la sua opera. La tragedia invece, di qualsiasi tragedia vogliamo parlare, è un gioco forte, di morte. Sia nel teatro greco antico che nel teatro shakespeariano sia nel romantico, c’è come un rito di morte, il sacrificio finale, in cui tutti partecipano della catarsi, della purificazione delle passioni di cui parlava Aristotele. Il processo mimetico per Aristotele è catartico perché dà corpo ad un simulacro di sacrificio umano, un rituale sacrificale, che come tutti i sacrifici ha un potere di fecondazione e rigenerazione. La mimesi del sacrificio reca in sé un sentimento che ancora possiamo dire catartico, ma che è anche da vedere come liberazione: il trasferimento della morte propria personale nella tragedia che mette in scena solo la nostra partecipazione alla tragedia.
È un gioco straordinario di vita e morte che permette l’arte e l’estetica della tragedia. Si può pensare alla tauromachia, un’estetica meravigliosa per alcuni, orrenda per altri, e si possono capire entrambe le cose, perché lì la morte è vera, non rappresentata, la tauromachia è una morte vera, ma l’estetica della morte è comune, il toro è la vittima che va a portare via tutto quel che possiamo eliminare con la morte. È l’esorcismo della morte che possiamo cogliere nella tragedia. La complessità vede tutto, questa partecipazione intensa e la distanziazione fisica e con la coscienza da sveglio in una partecipazione non fisica ma onirica e totalmente immaginaria.
L’estetica ha una possibilità di combinazione multipla, la possibilità di combinare con la fede religiosa, con il mondo della religione. Durante molti secoli cristiani le grandi opere che noi ammiriamo di Cimabue, del Beato Angelico, di Giotto, erano fatte con una finalità di illustrazione della fede: ma è evidente che, in questa illustrazione della fede della vita di Gesù e dei Santi, queste finalità si combinano con la qualità estetica della bellezza, dell’emozione e della pittura. Fino al 600 troviamo indistinzione tra l’estetica della pittura o della musica gregoriana e religiosa, e il mondo cerimoniale, laico e religioso. Solo dal 600 troviamo l’inter-mediazione dell’arte, nel campo della musica, poesia, letteratura e via dicendo, ma sappiamo che la combinazione dell’estetica si può vedere in tutte le culture arcaiche, ad esempio le pitture corporali sono interpretate dalle antropologie come forme di espressione di identità del gruppo e della tribù. Hanno un valore estetico indifferenziato, come nella nostra società si può trovare nel design, nella pubblicità ecc.
Prediamo ora il filone dell’arte come produttore di estetica; vediamo che la musica, la pittura, la poesia, la letteratura sono campi autonomi, la musica è una cosa importantissima, perché è un modo dell’arte estetica che non si può tradurre in parole, se non in modo molto povero. Non possiamo tradurre in parole una musica di Mozart, è cosa unidimensionale. Il campo della musica è il campo della indicibilità, quel che non si può dire in parole; non possiamo identificare note con parole perché le note astratte non sono una musica concreta. La musica non parla logicamente, parla alla parte affettiva, alla nostra anima, non ha la possibilità di provocare altro che ammirazione e partecipazione – e anche estasi. Ricordo come in un concerto, a quindici anni, mi capitò di sentire la Nona di Beethoven, il primo movimento mi parve quello della creazione del mondo – allora avevo molti capelli, e tutti mi si rizzarono sulla testa,in risposta alla forza dell’emozione.
Certo, la musica si può combinare con le parole, parole poetiche e prosaiche, come una contaminazione della musica sulla poesia e della poesia sulla musica, come si vede nei meravigliosi leader di Schubert e Schumann, e d’altronde in tutte le canzonette: l’arricchimento delle parole e della musica è mutuo. Per me, la musica è l’arte che dona l’estetizzazione più profonda; se prendo ad esempio Schubert, che ha saputo nel Quintetto dare l’espressione ad un dolore, all’infelicità, ad una tragedia personale terribile, ed ha saputo tradurre tutto questo in musica, specie nel secondo movimento: Schubert ha tradotto questa sua infelicità in felicità per noi, e lo si capisce solo se non si perde il senso della duplicità e del dolore. Come dice Beethoven: Attraverso il superare, la gioia. Questo è quel che va insegnato a tutti.
Se prendiamo la poesia, che per Cartesio – che è anche molto anticartesiano – era superiore alla filosofia, ciò è perché la poesia sa andare più avanti nella possibilità di espressione in parole; esse non sono più usate in senso razionale, piuttosto trasfigurano oltre il senso denotato, giungono all’evocato, e si compie una trasfigurazione del linguaggio, si va oltre il limite della possibilità della parola. Per questo il francese Joe Bousquet ha intitolato una poesia Il tradotto del silenzio: esattamente così, la poesia parla dove le parole normali non possono più parlare. Per questa ragione, la nozione di poesia vissuta ha il senso di trasfigurazione in rapporto ad una vita banale, unidimensionale. Ed è questa l’importanza della poesia, e anche della recitazione delle poesie, perché alle poesie recitate si guarda poi sempre a ritroso, è un momento di felicità che si ricorda per tutta la vita, e vale come introduzione alla poesia della vita.
Parliamo di pittura figurativa, realista; essa porta in se stessa una magia latente, la magia del doppio della realtà. La fotografia può dare la stessa magia, una fotografia è meno e più della cosa fotografata; è meno per la corporalità – ma è più, perché può sopravvivere al momento fotografico, porta la presenza nell’assenza della persona. Per questa ragione noi veneriamo la fotografia delle persone amate, anche morte, e questo ci riporta alla piena presenza della persona, anche dopo la sua scomparsa.
Questa magia dell’arte l’artista realizza da sé, è la forza dell’arte del pittore, che ha questa meravigliosa qualità di saper mantenere il processo della trascendenza anche quando ritrae figure religiose. Pensiamo che oggi, quando noi vediamo esteticamente una statua di un dio antico, Apollo, Giove, Venere, li consideriamo statue, ma erano oggetto di culto non meno della statua della Santa Vergine; oggi ne recuperiamo l’estetica proprio perché siamo usciti dalla considerazione del culto. Possiamo considerare questo aspetto nella pittura figurativa, ma esso permane anche in quel che c’è oltre, ad esempio la surrealista: anche qui, c’è un gioco di forme e colori nell’astratto, che mantiene il proprio essere in quel che rappresenta del mondo, col quale possiamo avere un contatto estetico. La letteratura mostra e dimostra quella parte dell’umano che non si può attingere con le scienze umane, come la psicologia e la sociologia. Esse non possono attingere la soggettività concreta dell’essere umano, l’io coi suoi sentimenti, le sue passioni, i suoi desideri, i suoi odi, la sua casa, il suo paese, il suo conflitto: la cosa straordinaria è la capacità dei grandi scrittori di raffigurare quasi una emanazione, come fossero ectoplasmi, ma, diversamente da quelli di un medium, essi danno forma ad un ectoplasma unico. Vi sono scritture che manifestano un insieme gigantesco, tutta una società che si ricostruisce attraverso il potere straordinario di una narrazione, che ripercorre la vita di una intera società umana, con le sue esperienze di vita; pensiamo a Balzac, alla commedia umana totalmente ricostruita in maniera immaginaria, in modo completo e complesso, che pure ha una sua verità storico sociologica. In tanti casi vediamo rappresentata la società umana, Karl Marx non ha sbagliato quando ha parlato dell’immagine reale della trasformazione capitalistica del mondo all’inizio dell’800 – è una capacità immaginaria, che si può sperimentare nel sogno in modo frammentario: mentre Balzac, Dickens, Tolstoj, hanno questa capacità di dare vita ad un mondo doppio, dove la magia torna come realtà immateriale più vera, un gioco circolare dell’immaginario e del reale, dove c’è il gioco centrale della novella e della letteratura.
Penso che l’investigazione più profonda dell’anima umana si trova in Dostoevskij, in Proust, dove si mostra la molteplicità interna di ogni persona. Il racconto di questa arte mostra la possibilità combinatoria dell’estetica, perché nella novella si trovano tutti gli elementi della vita: come la politica nell’opera di Malraux, il pensiero filosofico nel Gioco delle perle di vetro di Hermann Hesse, o in Siddhartha. È meraviglioso che la novella possa raccontare tutte le storie con documenti più sensati della sociologia.
Possiamo trovare la profondità della sociologia nella letteratura, una profondità che va considerata. Il 900 ha compreso a fondo la significazione estetica dell’opera, che può essere considerata come sottoculturale o anticulturale, ma i surrealisti per primi hanno scoperto la qualità estetica delle baracche, della banalità quotidiana: indicando nella poesia un passaggio di panorama, come in Argon – il contadino di Parigi, come in Breton – che riprende quel che c’era già in Rimbaud, introdurre la poesia nella vita.
Sono i surrealisti che hanno scoperto negli anni 20 il cinema. Allora nessun intellettuale aveva ancora interesse per il cinema; l’hanno scoperto ammirando Charlie Chaplin ed il suo vagabondo. Il cinema è stato disprezzato da parte dell’estetismo dell’alta cultura per quasi cinquant’anni, George Duhamel diceva che era la cretinizzazione dell’intelligenza. Eppure all’epoca era già nato il cinema non solo muto, c’erano già Fritz Lang e Renoir: ma il riconoscimento estetico dell’arte del cinema si è affermato progressivamente grazie ai gruppi di cinefili. Ricordo che a Parigi c’era un Salon chiamato Sala Cinema de l’Art, ma fu un riconoscimento molto tardivo. Ancora nel 1958, a Firenze, intervenni in un incontro per dire: “Amo il western”: e subito il filosofo Colman Danto corse alla tribuna, prese il microfono per tacciare di ignominia la mia affermazione, perché il cinema fa dimenticare alla gente la lotta di classe – ed ebbe l’applauso generale della sala. Vent’anni dopo, la situazione era già cambiata radicalmente, e, se non tutto il western, molti capolavori sono stati poi riconosciuti come arte. Addirittura la stessa approvazione della cultura si è estesa ad altre forme, prima pubblicamente disprezzate, come i film neri, il comix, i fumetti. Mi ricordo che negli anni 50 in un incontro con Perec e Queneau si fece una relazione per valutare positivamente i fumetti, ma avemmo subito la reazione di indignazione dalla rivista “Temps Modernes” che ci tacciò di snobismo. Non si apprezzava un piacere estetico che si estendesse oltre i confini della cultura, e ciò fino al riconoscimento dei romanzi gialli, come quelli di Le Carré e tanti altri, oggi tanto apprezzati.
Nel mondo occidentale si è diffusa una estetizzazione generalizzata, la fotografia è riconosciuta come arte, una mostra di fotografie vale come una di pittura, si parla di arte per la pubblicità. Ci sono cose cattive ma anche buone nell’estetica industriale, l’estetizzazione della locomotiva a vapore viene riconosciuta come bellezza di forma, per la sua potenza di fuoco e di vapore. Penso che oggi non possiamo che riconoscere che l’estetica è qualcosa del tutto generale, nel nostro mondo.
Ancora, voglio sottolineare una cosa per me importantissima: che c’è il pensiero, nella grande opera d’arte. La Cappella Sistina dipinge il Creatore e la sua mano che tocca quella di Adamo, e dà la vita, ma anche la distanza. Perché si vede bene la faccia di Adamo che con occhi aperti che non hanno ancora maestà; vediamo dei piccoli angeli intorno, ma non si vede l’altra mano – mentre, se si guarda bene, si vede che posa su una creatura femminile, che non è un angelo. Perché la creazione non ha bisogno solamente di un principio maschile, ma anche di un principio femminile, come accanto al cavallo c’è anche la cavalla: perciò si china sulla saggezza femminile, che deve restare dentro il quadro.
Rembrandt, quando studia il mistero del volto, nella serie dei suoi autoritratti spietati, lascia chi guarda intento per molto tempo a studiare; i suoi ritratti non si possono tradurre in parola.
Beethoven, uno dei miei filosofi favoriti, ha scritto nel primo movimento del suo ultimo movimento del suo ultimo quartetto muss es sein – es muss sein. È possibile cogliere la contraddizione, come possiamo vivere in questo mondo – es muss sein ha voluto unire in una contraddizione la formula complessa che è possibilità di rivoltarsi e di accettare, di accettare per rivoltarsi, perché quel che conta è in verità l’inseparabilità delle due cose. La sua musica traspira questa grande verità – Mi inchino solamente davanti alla bontà.
La conclusione è che l’estetica è più ampia dell’arte, ma l’arte è tanto importante perché produce una estetica che non troviamo nel mondo naturale. Pone una mediazione che non è nel mondo naturale, non ricordo se Baudelaire o Oscar Wilde dice che la natura obbedisce a quel che l’opera d’arte propone – il paradosso dell’opera che imita la natura e della natura obbedisce all’arte.
Io dico che l’estetica è una relazione empatica doppia, è relazione empatica e distanza. Da questo viene una combinatoria estetica, l’arte combina l’estetica con la vita umana, e realizza l’autonomia moderna dell’estetica nella storia dell’Occidente, a partire dal 600 c’è la più varia estensione della rappresentazione generalizzata dell’arte.
Ma al centro di tutto, per me, c’è la necessità di reintrodurre l’estetica nella poesia più ampia della vita. Perché non è un lusso e non è sovrastruttura, non è epifenomeno, l’estetica si trova al cuore della dignità umana, dell’essere umano e forse della vita.
Come gli uccelli hanno tanti bei colori e la sessualità si ispira alla bellezza, come non possiamo ridurre tanta bellezza alla sessualità, così dobbiamo dire che c’è già l’estetica nel mondo della vita. Lo stesso dice la volontà di attrarre con la bellezza, quella che mostrano gli insetti.
Ma qui il discorso ci porterebbe lontano. Quello che voglio sottolineare è che se l’estetica nella vita è ovunque, per noi deve essere centrale mettere l’estetica all’interno dell’educazione.
Per formare alla qualità poetica della vita, come forma profonda della nostra verità.
- C. Gily Reda ed., Arte e Formazione, Atti dei Convegni 2006-2009, Napoli 2011 (ISBN 978-88-906107-0-7). Su Arte e Formazione: A. Parola – R. Trinchero, Liberi di scegliere? Vincoli e possibilità per educare i ragazzi alla Tv; C. Laneve – L. Agrati – Amare la bellezza attraverso l’arte; Ignazio Volpicelli – Aspetti e problemi dell’educazione estetica; F. Cambi – Arte e formazione nel neoidealismo italiano; H. A. Cavallera – Gentile e la formazione estetica; M. Striano – La qualità dell’esperienza estetica in Dewey; G. Minichiello – La terza metamorfosi di Nietzsche e il problema dell’arte in Giorgio Colli; M. D’Ambrosio – Las meninas: metafore della conoscenza per una teoria della formatività; M. Piscitelli – Educazione e musica; C. Gily Reda – Labirinti e pedagogia della bellezza; Franco Lista – Immagini ed arte nella didattica; E. Paolozzi – Da Edgard Morin a Giambattista Vico: l’estetica della complessità; G. Gembillo – Croce e l’educazione estetica, come via per la complessità; F. Lomonaco – Filosofia e comunicazione. Il libro è download free in www.clementinagily.it
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