di Francesco Villano
Iniziamo focalizzando l’attenzione su di un fenomeno che troppo spesso sfugge alla nostra comprensione, ma che riveste un’importanza straordinaria nella corretta percezione che ogni civiltà dovrebbe avere di sé. Parafrasando un celebre titolo di un libro del grande mistico cristiano, Thomas Merton: “Nessun uomo è un isola”, possiamo affermare che nessuna cultura o civiltà, di ogni tempo e ogni luogo, abbia avuto origine e si sia sviluppata da sé sola, da un “nulla” iniziale, ma che ci sia stata sempre una circolazione e un mutuo scambio di saperi, alle volte più intenso, altre volte meno, a conferma, se ce ne fosse bisogno, che la famiglia umana è ed è stata sempre una. A sostegno di questa tesi possiamo citare Burkert Walter, il grande storico della filosofia greca. Egli ha sottolineato come: “il pensiero filosofico greco, pur imponendosi come modello epistemologico, nasca debitore nei confronti della tradizione orientale. La prima filosofia greca deve molto alle tradizioni precedenti e orientali, in particolare alla ricchissima fonte di tradizioni costituita dai miti cosmogonici e dalla letteratura sapienziale. Per rimanere nel campo degli esempi più segnatamente scientifico, basta ricordare quanta parte ebbero, nell’opera dei pre-socratici, la matematica e l’astronomia mesopotamica, la cosmogonia dell’acqua in Talete, la uranografia iranica in Anassimandro, l’ordine cosmologico e la percezione del tempo così come erano stati tramandati dalla letteratura sapienziale accadica”.
Dopo il Concilio di Efeso (431 d.C.), e quello di Calcedonia (451 d. C.), dove erano state riconosciute come dottrine eretiche rispettivamente sia il nestorianesimo che il monofisismo, e dopo la chiusura dell’Accademia Neoplatonica ad Atene nel 529 d. C., ad opera di Giustiniano, ci fu una migrazione di “cristiani eretici” e “sapienti pagani” verso Oriente. In breve da Atene, Alessandria, Antiochia, solo per citare alcuni tra i più importanti centri di quell’epoca, ci si diresse verso Oriente, prima a Edessa e poi a Nisibi, quest’ultima in territorio iranico-persiano sasanide. La posta in gioco, per il sapere ellenistico, era molto alta: quale sarebbe stato il destino del patrimonio di scienze, lettere, arti e con tutto il lascito di studi medici e anatomici ereditato dagli autori classici, quando i cristiani sembravano disinteressarsi a quei valori e non accettare di proporsi come i continuatori della tradizione ellenistica? Alla fine di questo peregrinare, in particolare nestoriani ed esponenti dell’Accademia ateniese conversero nella celebre città di Jundishapur (sud ovest della Persia), fondata da Shapur I. Lì sorse una grande scuola per gli studi scientifici (in particolar modo di medicina) e filosofici; una vera e propria Accademia con una grande biblioteca e un osservatorio astronomico. La città divenne un centro di traduzioni del sapere ellenistico dal greco al siriaco, e da questi al pahlevi ( medio persiano), ma anche approdo della sapienza persiana e indiana. Non solo traduzioni, ma anche sviluppi, originali elaborazioni e riformulazioni di queste conoscenze. In sintesi: tutto il sapere della tarda antichità, sia occidentale che orientale, si incontrò per dare origine a nuovi saperi. Con l’arrivo dell’islam, che dava grande importanza alla scienza, basandosi su un verso del Corano che dice: “cercate il sapere fino in Cina”, questi scienziati si spostarono prima a Damasco e poi a Baghdad dove, nel 815 d.C., il Califfo Al-Mamun fondò la celeberrima Bayt-Al-Hikma (La Casa della Sapienza). Uno stuolo di traduttori, tra cui si distinsero dei saggi nestoriani provenienti da Jundishapur, mise a disposizione del mondo arabo-islamico, e in lingua araba, tutto lo scibile a disposizione. Per due secoli Baghdad fu il perno della cultura e della ricerca di tutta l’ecumene, non solo islamica. Filosofia, letteratura, matematica, medicina, astronomia, ottica, geometria, fisica, farmacologia, chimica, botanica, etc., sono alcuni dei nomi delle discipline che fiorirono a quel tempo. Non una pura e semplice trasmissione del sapere, ma una rivoluzione vera e propria del sapere stesso, dove un’altrettanta fondamentale importanza ebbero i grandissimi scienziati, tra tutti ricordiamo Al Biruni, provenienti da città dell’Asia centrale quali: Merv, Bukhara, Balkh, Gurganj, Nishapur, Tus, etc.; tutti centri che già da alcuni secoli, precedenti l’affermarsi dell’islam, avevano sviluppato una plasticità culturale di altissimo livello che gli aveva permesso di confrontarsi e relazionarsi con i massimi sistemi di pensiero, religiosi e non, che nel corso del tempo si erano affacciati nel cuore dell’Asia: il buddhismo, lo zoroastrismo, il manicheismo, il cristianesimo nestoriano, l’ebraismo, il sapere ellenistico ed infine l’islam. A Baghdad, la biblioteca della Casa della Sapienza arriverà a contare sino a 500000 volumi. Tutto questo sapere, quest’immenso patrimonio culturale, migrerà per tutto l’ecumene arabo-islamico, sia ad Oriente che ad Occidente, fecondando anche il mondo ebraico e greco-ortodosso, e infine raggiungendo anche l’Al-Andalus, la Spagna islamica dove, alcuni secoli più tardi, a Toledo, dopo la Reconquista cristiana, sorgerà la celeberrima scuola dei traduttori che permetterà all’Europa cristiana-latina di attingere anch’essa a questo immenso serbatoio di conoscenze. Questa virtuosa contaminazione culturale tra mondo islamico e cristiano-latino si ebbe anche in altre aree del mediterraneo, ovverosia nella Sicilia medioevale e negli stati cristiani del Medio Oriente che erano sorti in conseguenza delle prime crociate. Tutto ciò consentì se non addirittura l’avvio, almeno una formidabile accelerazione di quelle dinamiche che condurranno a uno dei più fecondi periodi della storia occidentale: il Rinascimento. Il debito culturale che l’occidente cristiano-latino ha contratto con il mondo arabo-islamico, in queste tre aree del Mediterraneo, è imperituro!
All’interno di questa ampia e vasta cornice, spazio–temporale, prende l’avvio la storia della filosofia in terra islamica.
Il fondamento metafisico, i pilastri centrali e basilari, della filosofia arabo-islamica classica o cosiddetta medievale, sono l’unità-unicità (tawhid) e trascendenza (tanzih) di Dio. Quindi, nella quasi totalità, i filosofi prima di essere tali erano musulmani. Partendo da ciò, notiamo come il rapporto tra l’unicità e trascendenza di Dio con il pensiero greco-ellenistico abbia caratterizzato, in particolare, la filosofia classica; mentre il problema della prassi e del rapporto con la modernità, quello con la filosofia contemporanea. Il concetto di filosofia, nel mondo arabo-islamico, si può articolare in tre modi principali: Falsafa, Hikma e Ma’rifa o Irfan. Il termine arabo che designa questo approccio alla realtà è ‘aqliyya (le scienze speculative). Il primo termine, falsafa, che si rifà al greco philosophia, fa esplicito riferimento alla tradizione di pensiero, all’orizzonte culturale, al metodo argomentativo, ai presupposti teorici che hanno origine dal contatto e dall’interazione con la Grecia classica. La falsafa, comunque, è stata relativamente marginale rispetto alla scienze fondamentali dell’islam, dette tradizionali o “tramandate” (naqliyya in arabo): Corano, hadith (detti, fatti e silenzi del profeta Muhammad), diritto (fiq in arabo, con le quattro scuole giuridiche: hanafita, malikita, sciafeita e hanbalita), kalam (la teologia speculativa nella sua triplice articolazione: Mu’tazilita-Ash’arita e Maturide), o le stesse scienze della natura. Il secondo termine, hikma, che si trova anche nel Corano e usato spesso in relazione ai profeti, sta per sapienza o saggezza. Utilizzato in un contesto filosofico, denota una “filosofia” maggiormente legata, anche se non necessariamente subordinata, alla prospettiva religiosa islamica. Ha cercato una via di mediazione tra pensiero razionale, rivelazione e sistemazione giuridica che però non si è rivelata particolarmente durevole. Il terzo termine, ma’rifa o irfan, rinvia ad una conoscenza non tanto razionale quanto spirituale, più che altro una gnosi, una teosofia esoterica. Comunque è da sottolineare che il rapporto tra l’’aqliyya e naqliyya, seppur problematico, dovrebbe crescere dialetticamente, alla ricerca di un comune orizzonte epistemologico e di una riforma del pensiero islamico. Detto questo, dobbiamo anche ricordare che la civiltà arabo-islamica non ha avuto una tradizione “classica” di cultura e scienza che l’abbia preceduta; cosa che invece è avvenuto per l’occidente cristiano. La cosa straordinaria, il miracolo di questa civiltà, è stato di aver creato pressoché dal nulla, pur attingendo copiosamente alle antiche civiltà della Persia e dell’India da un lato e al mondo greco-siriaco post ellenistico dall’altro, come abbiamo detto precedentemente, una delle più straordinarie esperienze intellettuali dell’umanità.
Secondo la tradizione, ciò che da inizio all’interesse degli arabi per la filosofia è il leggendario “sogno di al-Mamūn” (786-833) califfo della dinastia abbaside, nipote di Hārūn al-Rashīd, il califfo delle “Mille e una notte”. In questo sogno gli sarebbe apparso Aristotele e lo avrebbe esortato a guidare il suo popolo verso il bene e la conoscenza. In realtà, al fondo di questa missione culturale vi è una precisa idea politica, per cui l’impero degli abbasidi si sarebbe presentato non solo come l’erede diretto del Profeta e, anzi, di Dio, bensì anche come l’erede diretto del sapere scientifico greco-ellenistico. Il califfato abbaside aderì alla teologia mutazilita, che proclamava il libero arbitrio umano e la legittimità della ragione per spiegare o formulare la verità della fede. Questa corrente teologica suscitò lo scandalo dei musulmani ortodossi e conservatori, legati alla lettera del Corano e della Sunna. Al-Ma’mun la proclamò dottrina di stato nell’827. A Baghdad, alcuni traduttori, sia cristiani che musulmani, si riunirono attorno alla figura di al-Kindī (m. 873), il “primo filosofo degli arabi”, oltre che astrologo, musicologo, matematico e fisico. Costui ricevette l’incarico di dirigere la traduzione dei testi dal califfo al-Mamūn e proseguì il suo lavoro anche sotto i successori di quest’ultimo, cadendo poi successivamente in disgrazia. L’intento di al-Kindī, che traspare anche nelle sue opere personali, è quello di formulare una “teologia razionale” che, armonizzando le filosofie di Aristotele, Platone (nell’esegesi sistematica di Plotino), Proclo (ossia, il tardo-platonismo) e l’esegesi peripatetica di Alessandro di Afrodisia, permettesse di coniugare la filosofia greca con il dogma islamico del tawḥīd, cioè l’unicità di Dio. Egli riteneva, infatti, che si potesse conciliare la ragione speculativa con la rivelazione coranica, sostenendo che la filosofia fosse soprattutto scienza delle cause. A questo primo circolo di traduttori si deve la versione in lingua araba di una vasta gamma di trattati, tra cui: la Metafisica di Aristotele, le ultime tre Enneadi di Plotino, destinate a divenire la cosiddetta Teologia di Aristotele e una selezione di proposizioni tratte dagli Elementi di teologia di Proclo, rielaborata nel Libro di Aristotele sull’esposizione del Bene Puro – il Liber de Causis latino. Quest’ultimo, una volta giunto nel mondo latino nel XII sec., fu studiato e commentato nelle università di tutta l’Europa medievale, quale scritto di Aristotele, sino allo svelamento, come opera di Proclo, operata da Tommaso d’Aquino. In questo primo gruppo di lavoro non solo viene elaborata una terminologia coerente per la falsafa, ma si concepisce il primo progetto metafisico originale come si vede bene dalla principale opera di al-Kindi, la Filosofia Prima. In essa al-Kindi propone un’ontologia compatibile con la fede di quanti aderiscono al tawhid della religione coranica, ossia di quanti, come lui, credono in un Dio che è Causa prima ed Intelletto primo e che ha voluto creare dal nulla l’universo fisico nel tempo. Il rifiuto dell’infinità del tempo lo mise in contrasto con la quasi totalità della falsafa. Per quanto riguarda l’indagine sul processo del pensare dell’uomo, al-Kindi fu il primo a presupporre in ogni singola anima tre gradi di conoscenza intellettuale: l’intelletto potenziale (cioè la possibilità che ha l’uomo di pensare), l’attualizzato o acquisito (che si è già appropriato di una conoscenza ma non se ne serve in atto), e l’intelletto in atto (che si serve effettivamente del saper acquisito, e in tal modo diviene visibile all’esterno).
Al-Farabi (870-950), il secondo filosofo di cui ci occupiamo, può essere considerato il master architect della filosofia islamica, per molti motivi: fu in un certo senso il fondatore dello studio della logica nel mondo musulmano; precisò ulteriormente una terminologia specifica per la filosofia, partendo anche dal fatto che ebbe la possibilità di accedere alla traduzione completa di quasi tutte le opere greche di filosofia; perché per la prima volta formulò in modo consapevole e propriamente filosofico, alcuni grandi temi del pensiero metafisico e cosmologico, tra cui la distinzione di essenza ed esistenza e il sistema cosmologico emanativo; e infine perché fu il fondatore della filosofia politica islamica. Non è un caso che fosse chiamato “il secondo maestro”, secondo appunto solo ad Aristotele. Interessante poi la sua idea riguardo al fatto che la filosofia non sia coltivata in tutto il mondo, perché ci sono sempre soltanto pochi uomini in grado di comprenderla e farla sviluppare; e di come i centri in cui è stata coltivata siano stati diversi nel tempo: partendo da Atene, passando per Alessandria ed approdando nella sua Baghdad, dove aveva trovato una nuova patria nel centro del mondo islamico.
Ibn Sina, l’Avicenna della filosofia occidentale (908-1037), è il terzo filosofo di cui ci occupiamo. In realtà Ibn Sina è stato uno degli uomini di cultura più straordinari che siano mai apparsi sulla terra; medico, matematico, fisico; un autentico sapiente! La sua produzione filosofica si può suddividere in summae che – divise in genere (ma non sempre) in quattro parti (logica, fisica, matematica e metafisica)– comprendono tutte le scienze dell’epoca, e trattati di breve estensione su singoli argomenti. Del primo tipo si possono ricordare: il Kitāb al-Shifā’ («Il libro della guarigione», dove è sottinteso «dell’anima dall’errore»), di cui nel Medioevo furono tradotte in latino diverse parti; “Il libro della salvezza” e il “Libro della scienza”. La Ḥikma Mashriqiyya («Filosofia orientale»), giunta solo in minima parte, ha costituito il centro di un’importante questione storiografica. Alcuni testi sembrano proporla come la vera filosofia di Avicenna. La critica è però ormai propensa a rifiutare l’idea di una cesura nel pensiero avicenniano e a ricusare la tesi di una sua dimensione esoterica, anche se non si può negare che non furono estranee al pensiero di Avicenna le riflessioni misticheggianti dei teosofi sulla gerarchia delle luci, sulle entità spirituali angeliche e sulla profezia così come sul cammino soteriologico dell’anima. Del resto, è questa inclinazione gnostica della sua filosofia che ne ha fatto il rivendicato capostipite di tradizioni come l’Illuminativismo di al-Suhrawardi, o del Bildungsroman del “ricercatore solitario” di Ibn Tufayl (filosofo andaluso del XII sec.), un eremita che arriva a cogliere e a gustare Dio nella pienezza delle spiritualità. In effetti il tema della “Filosofia orientale” ci spinge a riflettere sulla natura stessa della filosofia islamica e dei suoi rapporti col razionalismo greco e il pensiero gnostico iranico. Dal punto di vista scientifico abbiamo il suo capolavoro medico, il Kitāb al-Qānūn (Canone della medicina) rivolto a ordinare sistematicamente le dottrine mediche di Ippocrate e Galeno nonché quelle biologiche di Aristotele. Esso ebbe grande diffusione in Occidente, prima nella versione latina di Gerardo da Cremona (12° sec.), poi migliorata da Andrea Alpago (16°sec.) e fu stampato nel testo arabo per la prima volta a Roma nel 1593. Nella sua dottrina filosofica Ibn Sina intese rinnovare l’aristotelismo, accogliendo per altro le diverse istanze del neoplatonismo già vive nella filosofia a lui precedente; costante è poi il confronto con le dottrine della teologia musulmana, che fu profondamente influenzata dal suo pensiero. Nel sistema di Ibn Sina il mondo è coeterno a Dio, essere eterno, necessario e unico, da cui emana (cosmogonia emanatistica) un primo essere intelligente e quindi, per mediazione di questo, l’intero mondo celeste (composto di intelligenze, anime e corpi), e infine la materia e le forme che la forgiano nell’uno o altro essere del mondo sublunare. Nell’azione divina è quindi essenziale il ruolo mediatore delle sostanze celesti. Poiché infatti alla perfezione di Dio ripugna la molteplicità, è per mezzo di esseri intermedi, chiamati anche «datori delle forme», emananti in ordine degradante dal principio, che vengono assicurati il passaggio dall’uno al molteplice, la cosmologia e l’informazione della materia sublunare: l’intelligenza prima, che procede dall’unità assoluta di Dio, dà quindi luogo a una seconda intelligenza così da avere poi l’intelligenza, l’anima e il corpo del cielo, secondo un processo triadico che si reitera identico fino all’intelligenza della sfera lunare, l’intelletto agente. L’intelletto agente è la causa immediata delle trasformazioni che avvengono nel mondo sublunare, garantendo a un tempo l’irradiarsi delle forme sostanziali nella materia e l’attualizzazione dell’intelletto umano con le forme intelligibili. Nel processo di informazione e determinazione un ruolo è attribuito però anche alla preparazione della materia e al processo astrattivo dell’intelletto umano. Se l’anima umana – sostanza spirituale e individuale – intende per l’azione che su di essa svolge l’intelletto agente universale e unico, che imprime in essa gli intelligibili, l’intendere resta un’attività individuale, in quanto l’intelletto possibile è più o meno «preparato» a ricevere l’illuminazione dell’intelletto agente; al vertice del processo conoscitivo – per una più intima congiunzione dell’intelletto umano con il datore dell’intelletto e poi più su con le altre intelligenze celesti – si pongono l’estasi e la profezia. Altro elemento fondamentale della sua riflessione è la distinzione che fa tra essenza ed esistenza. Ibn Sina ritiene l’esistenza accidentale all’essenza negli esseri creati, mentre l’esistenza è attributo inerente all’essenza del Creatore. Gli esseri creati sono meramente possibili (la loro inesistenza non implica contraddizione) e diventano necessari per l’intervento esterno di Dio. Mentre Dio, il Necessariamente Esistente, è appunto necessario in sé e la non esistenza sarebbe per lui contraddizione. In realtà, che l’essenza sia superiore all’esistenza per Avicenna è una questione dibattuta, e molti hanno ritenuto il contrario. Ibn Sina. ebbe un’influenza notevole sul pensiero del Medioevo latino.
al-Ghazālī ⟨ Algazel) ( 1058 – 1111). Teologo, mistico, filosofo e giurista, può essere considerato l’intellettuale musulmano per eccellenza. Nell’anno 1091 lo troviamo ad insegnare alla madrasa Niẓāmiyya di Baghdad, dove divenne uno dei personaggi più eminenti. Nel 1095, in seguito a una malattia nervosa-crisi esistenziale, abbandonò la sua carriera di giurista e teologo per dedicarsi a una vita tutta rivolta al sufismo, nell’ambito del quale rappresentò l’iniziatore dell’ala moderata. In questi anni scrisse il suo capolavoro: la “Rivivificazione delle scienze religiose”, in 40 volumi, che tratta rispettivamente delle pratiche del culto, dei costumi sociali, dei vizî e delle virtù. Esso è un manuale completo per raggiungere Dio attraverso il perfezionamento etico-spirituale, ma è anche un trattato teologico, ricco di digressioni dogmatiche, morali e speculative. In seguito compose la Tahāfut al-falāsifa (“L’incoerenza dei filosofi”), terminata nel 1095, in cui si sforzò di determinare quelle che per lui erano le contraddizioni dei filosofi, affermando che pur essendo sinceri nella ricerca della verità, non possiedono gli strumenti adeguati per raggiungerla. Egli non nega affatto la validità delle scienze come la matematica e la logica, i cui risultati non possono essere messi in dubbio, ma afferma che la realtà delle cose divine non può essere espressa in categorie logiche. Prese particolarmente di mira le teorie dell’eternità del mondo (cui oppose la creazione fatta da un Dio personale), della processione delle sfere (cui contrappose la teoria dell’onnipotenza di Dio e della sua libertà d’azione) e della causa naturale, nel senso che l’unico autentico agente è Dio, l’unico essere dotato di volontà autonoma, per cui ciò che accade non è imputabile ad un mero effetto meccanico, indipendente dalla volontà di Dio. Come giurista scrisse numerosi trattati di diritto e dedicò particolare interesse alla teologia dogmatica. Nel dicembre del 1111 si ritirò a Ṭūs, ove fondò un istituto di accoglienza per i ṣūfī, in cui venivano formati i giovani suoi discepoli. In complesso l’opera di al-Ghazali favorì il definitivo accoglimento del sufismo moderato entro l’ortodossia e ravvivò con un’esperienza mistica la religiosità ufficiale, che minacciava di inaridire in un puro formalismo. Un dibattito storiografico, ormai secolare, verte sul fatto che la filosofia arabo-islamica sarebbe morta dopo le critiche rivoltele da Al-Ghazali nell’Incoerenza dei filosofi, e dopo che Averroè, di cui stiamo per trattare, non ebbe epigoni che ne continuassero l’opera razionalistica nel mondo arabo. A mio avviso né la scienza, né la filosofia ebbero fine, ma subirono sicuramente un fortissimo ridimensionamento. In particolare, per alcuni, la filosofia si ri-indirizzò in senso gnostico e teosofico, al-Din-Suhrawardi prima e Mulla Sadra dopo. Un ruolo fu giocato anche dal sufismo speculativo. Quindi non solo “responsabilità” della riflessione teologico-filosofica di Al-Ghazali, ma anche dei successivi impatti storici che destrutturano completamente l’assetto del mondo islamico. Mi riferisco al devastante affermarsi del dominio delle genti turco-mongole da un lato, e alla circumnavigazione dell’Africa fatta da Vasco de Gama, unitamente alla scoperta dell’America fatta da Cristoforo Colombo dall’altro, che ridimensionarono in modo impressionante il ruolo dell’universo arabo-islamico come trade-union tra l’Europa e l’Asia. Un esempio per tutti: solo recentemente in Iran è iniziata la costruzione di un osservatorio astronomico, dopo circa 500 anni dall’ultimo che aveva visto la luce nel mondo islamico, quando per secoli l’astronomia era stata tra le scienze più studiate. L’epoca d’oro della civiltà arabo-islamica era fatalmente e definitivamente tramontata. Non era più lei il faro della civiltà mondiale. Con i successivi imperi Moghul (India), Safavide (Persia) e Ottomano (Turchia) fiorì una meravigliosa sensibilità estetica, ma solo quella.
Averroè è il nome con il quale è noto in Occidente il filosofo, giurista, medico e astronomo arabo di Spagna Abū l- Walīd Muḥammad ibn Rushd (1126-1198). Tra le sue numerosissime opere sono celebri in particolare i Commentari ad Aristotele e alcuni scritti originali, tra i quali il più noto è il Tahāfut at-tahāfut (l’”Incoerenza dell’incoerenza dei filosofi”), decisa confutazione dell’”Incoerenza dei filosofi” di al-Ghazali. Tre la sue tesi, che influenzarono la cultura occidentale: l’indipendenza delle verità di ragione da quelle di fede, l’eternità della materia e del mondo, la negazione dell’immortalità dell’anima individuale. Grande ammiratore di Aristotele, Averroè combatte spesso Avicenna come deviante dal peripatetismo puro: suo intento infatti era di liberare il pensiero aristotelico dalle deformazioni neoplatoniche dei precedenti commentatori. Anche Avicenna concepisce secondo uno schema emanatistico il processo eterno di derivazione del mondo da Dio, tuttavia ritiene che la materia coeterna a Dio, non è, come vuole Avicenna, informe per sé stessa, e ricevente quindi dal di fuori le forme, ma ab aeterno le contiene in potenza. Le cose quindi si formano, in quanto dalla materia le Intelligenze superiori (non derivanti l’una dall’altra, secondo l’opinione di Avicenna, ma dall’unico loro principio, Dio) traggono (extractio, non creatio) all’atto le forme. Ma la teoria averroistica che maggiormente attrasse l’interesse della cristianità fu quella dell’intelletto e del suo rapporto con l’anima umana. Contro la concezione dominante nella filosofia araba dell’intelletto potenziale (detto anche materiale perché, come la materia, ha per sua caratteristica di essere in potenza) come intelletto umano, ossia come parte razionale dell’anima umana, Averroè separa dall’anima non solo l’intelletto agente universale, ma anche l’intelletto materiale, giacché anche questo è semplice, ingenerato, incorruttibile e immortale e costituisce un intelletto unico per tutti gli uomini. L’intelletto potenziale è impersonale, e impersonale è quindi l’immortalità. Questa teoria, che fa estranea all’anima umana l’intelligenza e nega l’immortalità individuale, fu combattuta sul terreno filosofico da Tommaso D’Aquino. Respingendo il tentativo di conciliare Aristotele con la religione musulmana, Averroè riduceva la fede a un complesso di “miti” e di norme pratiche, necessarie per il popolo ma non per i filosofi che ne vedono il fondamento mitologico. Il suo pensiero, che tanta eco ebbe nell’occidente cristiano latino, non trovò sviluppo in terra d’islam. Solo recentemente, nel pensiero arabo-islamico, si è assistito ad un suo rifiorire, anche se con qualche libertà interpretativa.
Ibn Khaldun nacque a Tunisi nel 1332 d. C. Studiò le varie discipline dello scibile musulmano, e fin da giovane ebbe alte cariche, alle quali lo chiamavano le tradizioni della sua famiglia, lo spessore culturale e il suo ingegno politico. Lo scorrere della vita lo portò in Spagna, in Africa e poi in Egitto, ove fu per alcuni anni giudice supremo mālikita al Cairo. Morì nel 1406 d. C. E’ stato non solo il primo vero filosofo della storia del mondo occidentale mediterraneo medievale, compresa quindi anche l’Europa cristiana, ma soprattutto affermò, aristotelicamente, che la storia è scienza delle cause degli avvenimenti umani e che quindi può essere considerata, a pieno titolo, una branca del sapere. Quindi è uno dei padri fondatori della storiografia. Viene anche considerato un sociologo ante litteram, ed uno dei primi economisti. Da molti accostato a Hobbes, Vico, Marx, rappresenta la coscienza critica dell’islam che, dopo l’apogeo, si avviava verso la decadenza, da cui si inizierà a riprendersi solo dopo alcuni secoli. La fama di Ibn Khaldun, in Oriente e in Europa, è dovuta alla sua grande storia universale, e particolarmente ai Prolegomeni (al–Muqaddimah) di essa, nei quali egli fissa anzitutto alcuni canoni di critica storica, studia poi le condizioni generali che regolano lo sviluppo delle società umane, a cominciare dall’influenza del clima, collegando con questa i due tipi principali di vita associata, il nomade e il sedentario, i cui caratteri e le reciproche reazioni appaiono così chiari e ricchi di conseguenze nella storia della conquista araba e in quella dell’Africa del nord. In tali tipi di civiltà egli indaga poi le forze di propulsione, prima tra tutte la ‛aṣabiyyah, cioè lo spirito di solidarietà o di corpo, proprio dei popoli giovani e soprattutto dei nomadi, e le cause di decadenza, che fatalmente intaccano le civiltà sedentarie e producono le condizioni per nuove invasioni e vittorie di popoli “più giovani” e specialmente nomadi, in cicli storici determinati. Ma la ciclicità non è tutto, infatti c’è un cammino lineare che li sottende, che ad ogni nuovo ciclo fa compiere alla civiltà un piccolo passo in avanti. Nei Prolegomeni troviamo, poi, studi su il divenire degli stati e delle città, l’amministrazione, la guerra, le lingue, l’economia, la religione, la cultura, etc. Per l’originalità delle idee, l’accorta deduzione e applicazione dei suoi principî alla storia concreta, dalla meditazione della quale essi sono nati, i Prolegomeni meritano un posto insigne nella letteratura universale, e costituiscono nell’araba un fenomeno singolare. L’opera storica stessa non rappresenta, per molte delle sue parti, un progresso essenziale di fronte all’abbondante produzione araba anteriore, ma nell’ampia trattazione della storia dei Berberi e delle dinastie africane è fonte preziosa. Il suo pensiero riaffiiorirà in età contemporanea in relazione al confronto con la modernità.
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