di Maurizio Vitiello
Maurizio Vitiello: Quali studi hai completato e in quali anni?
Giuseppe Antonello Leone: Nell’anno 1933-34 mi diplomai “Maestro d’Arte” presso la Scuola d’arte per la Ceramica di Avellino, con Direttore Emanuele de Palma.
Nel 1935-36 conseguii il diploma superiore di Maestro d’Arte per la Ceramica presso l’Istituto Statale d’Arte “Filippo Palizzi” a Napoli.
Direttore Lionello Balestrieri, insegnanti Pietro Barillà, Eugenio Viti, Ettore Di Giorgio (e come condiscepolo Michele Berardelli, futurista di Cosenza).
Nel 1939-40 mi diplomai in Pittura presso l’Accademia di Belle Arti di Napoli (voti e media: 10), per cui mi fu assegnata la borsa di perfezionamento intitolata a Domenico Morelli.
Nell’anno scolastico 1940-41 esercitai tale perfezionamento presso lo studio dell’Accademia del Maestro Pietro Gaudenzi (assistente: Eugenio Scorzelli).
Ricordo Mino Maccari, per l’incisione, e Costanza Lorenzetti, per la Storia dell’Arte.
Stesso anno, frequentai la Scuola di Decorazione con Emilio Notte e Alessandro Monteleone (assistente: Antonio Rega).
MV) Quando hai incominciato ad interessarti di arte?
GAL) Appartenendo a una famiglia di scultori in legno, di installazioni festive; intorno ai nove-dieci anni, nel laboratorio di mio nonno Giuseppe e nella bottega di mio padre, spadroneggiavo tra i rottami-rifiuti, sia in metallo (stagnole, tubi di ottone) che in legno, organizzando giocattoli dinamici anche per i miei compagni di giuoco.
MV) Per quali motivi o spinte?
GAL) Oltre agli stimoli avuti nel laboratorio di mio nonno, nella bottega di mio padre e nelle scuole elementari, dal maestro Filippo Giannini, una vera coscienza del “fare”, come linguaggio ed espressione comunicante, prese consistenza con l’insegnamento di Settimio Lauriello (artista futurista), insegnante di Disegno professionale e Decorazione pittorica in ceramica presso la Scuola d’Arte di Avellino; tanto che, oltre all’insegnamento scolastico, mi incaricò di preparare dei bozzetti a tempera per decorare, su grandi pareti, la zona destinata all’esposizione dei minerali di zolfo, estratti dalle miniere dei Comuni di Tufo e di Altavilla Irpina – bozzetti che, attualmente, fanno parte della collezione di Ugo Piscopo. Intanto sto cercando di recuperare altri bozzetti e idee di quel periodo.
MV) Ci puoi raccontare della tua prima mostra? Chi t’invitò? Chi trovasti all’inaugurazione? Prendesti contatti? Come andarono le cose?
GAL) L’Istituto Statale d’Arte di Monza bandì nell’anno scolastico 1935-36 un concorso, fra tutti gli Istituti d’Arte d’Italia, per un oggetto moderno da rinverdire l’antropologia etnostorica sia dell’oggetto d’uso, sia dell’oggetto complementare che dell’oggetto devozionale. Così, la commissione giudicatrice dell’Istituto di Monza, premiò la mia “Annunciazione” in ceramica che ora è patrimonio del Museo Industriale dell’Istituto Statale d’Arte “Filippo Palizzi” di Napoli. Fu in quell’occasione che il Direttore Lionello Balestrieri e Pietro Barillà mi invitarono nel loro studio incoraggiandomi e consigliandomi di proseguire gli studi presso l’Accademia di Belle Arti, mostrandomi i loro lavori per meglio allargare il mio orizzonte.
MV) Con quali elementi del Futurismo hai collaborato e/o hai avuto più possibilità di contatti e di iniziative in comune?
GAL) Collaborai con Michele Berardelli e Armando Rotondi, di Atripalda, sotto la guida dei professori Francesco De Felice e di Giuseppe Forestiere, che si esprimeva in chiave futurista, ma esponeva di rado.
MV) Ci puoi parlare di questi artisti?
GAL) So che, poi, Michele Berardelli, figlio di farmacista, a Cosenza creò un certo movimento e Ugo Piscopo ha seguito tale attività. Si sa che di Giuseppe Forestiere è stato recuperato, da poco, un dipinto, da un giudice salernitano al “mercato delle pulci” a Napoli. Di Armando Rotondi e di Domenico Ricciardi si son perse le tracce dei loro lavori.
MV) Napoli “Anni Trenta”: che atmosfera si respirava a Pratola Serra, nella provincia di Avellino e a Napoli? …..
GAL) Negli Anni Trenta, a Pratola Serra, incominciò la crisi delle taverne per lo sviluppo delle automobili. Pratola Serra era il territorio delle “soste dei carri” che andavano da Napoli alla Puglia, e viceversa; creavano, così, nel paese l’economia di base. Con le progressive chiusure delle taverne, Pratola Serra, via via, perse anche le attività collaterali, per cui perirono e poi scomparvero le installazioni festive, la banda, i pirotecnici, gli incontri teatrali con i paesi viciniori e così tutto si concentrò su Avellino.
Vive le presenze, come Antonio Sandulli, Carlo Muscetta, Giovanni Pionati, Manfredi Troncone, Guido Palumbo e tanti altri. Intanto anche la Scuola d’Arte si trasformava in Istituto Statale d’Arte con l’interessante direzione dello scultore Domenico Stasi. Vive le testate dei vari giornali, oltre alla pubblicazione del mensile umoristico di Giovanni Capuano, che vivacizzava incontri e scontri taciuti, e non.
MV) Si avvertiva il senso della politica fascista con il peso del regime?
GAL) Certo, non so se parlare di fascismo o non: il fatto reale era che la classe contadina e quella operaia al mio paese vivevano a stento e chi esercitava l’amministrazione cittadina spadroneggiava a dismisura.
MV) Condividevi le direttive del governo o ti sentivi oppresso?
GAL) A noi, nel paese, le “direttive del governo” arrivavano sbiadite per cui la classe operaia si aiutava come meglio poteva, solo una certa saggezza consentiva la sopravvivenza giornaliera.
MV) Gli artisti che tu frequentavi quale orientamento politico seguivano?
GAL) Pietro Barillà, Carlo De Veroli erano attivi nell’orientamento politico, mentre in maniera particolare, Emilio Notte, distaccato da ogni dettatura curava e viveva nella ragione dei linguaggi espressi dagli impressionisti, dai cubisti, dai futuristi per dare senso a un linguaggio etico e poter capire la caduta delle icone sottomissive.
MV) Sei stato militare a Catanzaro e lì organizzasti una mostra, anche con degli “strappi murali”?
GAL) Il servizio militare, in piena campagna di guerra, per quattro anni l’ho espletato sulle coste calabresi e in maniera particolare nel catanzarese. Nel 207 Fanteria con Mario Severino, pittore, Isidoro Bergonzini, attore e fotografo, e, col nipote di Maldacea, assistiti e sostenuti dal Colonnello Francesco Magistri, mettemmo su una compagnia teatrale di circa sessanta, tra attori, musicisti e prestigiatori, a sostegno morale delle truppe stanche e depresse.
In quel periodo continuai a prestare servizio presso il Comando, in qualità di disegnatore, ed ebbi ad effettuare rilievi e piante topografiche che furono utilizzate per l’apprestamento delle opere di difesa della città.
Vi furono vivi slanci, dopo lo sbarco degli Alleati, per la ricostruzione della città. Si registrò una ripresa dell’attività culturale, tanto vero che molti Ufficiali del Comando e un presidio cittadino attivo presso la Curia Vescovile mi spinsero a tenere una personale al Circolo Cuturale “Larussa”, a Palazzo Ferrari. Il centro era diretto da Camillo dei Conti Larussa. Il Comando 207 Fanteria mi consentì di far esporre anche mia moglie, Maria Padula, che in quel periodo fu ospite dello stesso comando.
Nelle ampie sale del circolo la mostra fu articolata in due settori, uno dedicato a Maria Padula con paesaggi e figure del territorio lucani e calabrese e l’altro con miei lavori dove si evidenziavano l’aspetto ironico un po’ tagliente della vita militare, l’aspetto paesistico calabrese e diversi strappi di manifesti pubblicitari stratificati e lacerati nel tempo compresi quelli che avevano subito l’incendio dell’ultimo bombardamento, che aveva devastato drammaticamente Catanzaro. Per me questi strappi si annunciavano come “un’archeologia murale” del vissuto veloce e stratificato in tempi brevi. Alla mostra, oltre alle alte gerarchie militari, vi fu una folla di signore e signori altolocati ed artisti, fra questi: Antonio Pileggi di Maida, Leonardo Principe, il giovanissimo Mimmo Rotella, in compagnia del “nobiluomo” Tommaso dei baroni Perroni.
Mimmo Rotella e l’amico li rividi, sempre insieme, ad una tipografia che frequentavano per vari motivi …
All’inaugurazione fu presente anche il Vescovo della città.
MV) Tu eri fascista? Avevi la tessera del P.N.F.?
GAL) No, no. Ugualmente, però, partecipavo a mostre provinciali, regionali, nazionali, vincendo premi e avendo sostegni da gerarchi del G.U.F., come Antonio Sandulli di Avellino, segretario della Gioventù Universitaria Fascista.
MV) Che pensavi di Benito Mussolini?
GAL) Per le mie poche nozioni politiche, in quel periodo, con le spettacolarità delle varie adunanze giovanili e le frequenti mostre provinciali, regionali, interregionali e nazionali, avevo la sensazione di potermi esprimere come volevo, però ugualmente avvertivo il disagio dei padri di famiglia, dei nubili, intristiti per la mancanza di lavoro o, se c’era, pagato male.
Fu in quel periodo che scrissi su “TRADOTTA” la poesia “Estremi”, non certo accettata dai conformisti, ma accettata da gerarchi leali.
MV) Che pensavi dei gerarchi fascisti?
GAL) Alcuni dei veri gran “Signori” e rispettosi del pensiero altrui, altri ottusi, poco lungimiranti, stupidamente oppressivi.
MV) A Napoli, c’era Aurelio Padovani, che morì precipitando con altri camerati da un balcone a Via Generale Orsini, nella zona di Santa Lucia. Mi puoi segnalare se l’hai conosciuto e/o hai conosciuto altri “pezzi grossi”?
GAL) Quando mio padre, socialista, seppe della morte di Aurelio Padovani affermò che l’avversario va rispettato e che la morte non risolve i problemi, ma li aggrava. Sentii rispetto per Padovani, per una vita che non poteva più compiere il suo percorso. Mi addolorai senza conoscerlo e senza il perché – pur non accettando il “perché” -.
MV) Apprezzavi l’architettura del periodo fascista? Il “Palazzo delle Poste” e la “Mostra d’Oltremare”, ad esempio, ti piacevano?
GAL) La cosa sostanziale dell’arte sta nello scrutare e rispondere a un bisogno di vita, di vita vera; per questo bisogna dare atto che la struttura architettonica delle “Poste” risponde a un’esigenza funzionale e reale, nonché simbolica del servizio; così va seriamente valutata l’urbanistica di Viale di Augusto e tutto l’involucro della Mostra d’Oltremare, che a suo tempo fu segno di rinnovamento per la nostra città. Ora ci si rammarica per l’abbandono e lo svilimento delle ceramiche di Giuseppe Macedonio.
MV) Credi di aver usato in arte un linguaggio di propaganda, di corrente, nuovo o moderno?
GAL) L’espressione del “silenzio figurale” appartiene alla gioia del “mio”, nostro dolore, ma soprattutto all’amore che porto per l’umanità tutta; perciò non credo mai di aver fatto arte di propaganda, ma grido o vocio, anche provocatorio, se vogliamo, per rispetto al sole, all’acqua, all’aria, al chicco di grano, per un abbraccio sinceramente cristiano. Poi, di “moderno” c’è solo quello che dura nel tempo.
MV) Sei soddisfatto dei lavori eseguiti negli anni Trenta e Quaranta?
GAL) Rispondo con piacere a questa domanda, perché la mia cultura di vita, m’insegnava lo stupore del nuovo, lo stupore di ciò che dura nel tempo, la stretta di mano come sigillo notarile e, quell’arcaicità che era libertà dell’io. Trovai in quegli anni l’esperienza futurista, come un varco al credo dell’arte, poi nell’esperienza dell’Accademia la doverosa necessità di conoscere per meglio dominare l’istinto, per poter, poi, affermare che le parallele sono parallele, anche se la scienza le può dichiarare convergenti e, poi, ancora, perché puoi sfasciare tutto e in libertà puoi far rinascere ogni cosa arcaicamente sapiente.
MV) Quali opere e quali mostre di quel periodo ricordi con particolare affetto e quale lavoro ti è costato particolare studio, sacrificio e determinazione?
GAL) Ricordo con affetto circostanziato, il pannello rappresentante “La costruzione di una nave spaziale” (o “Il mondo del lavoro”) pannello modellato e maiolicato con una base di metri 5,00 e un’altezza di metri 3,60 circa; commissionato dall’IRI, ai tempi di Enrico Mattei. Un lavoro tecnicamente ardito, maiolicato con un impasto ottenuto con sabbia silicea particolare a colori reagenti in senso negativo e positivo e un manganese associato a un cobalto naturale, poi distrutto insieme all’edificio progettato dall’ingegnere Tocchetti e l’architetto Mendia per dare spazio ai grattacieli del Centro Direzionale.
Così mi è caro l’affresco “Le nuove città” classificato terzo alla Biennale del 1940 e poi inviato a Zurigo con prefazione di Antonio Maraini per rappresentare l’affresco italiano all’estero. Ebbi anche i complimenti di Felice Carena, mio caro amico.
Ora è esposto alla “Rocca dei Rettori” nella Sala del Consiglio della Provincia di Benevento.
Tale affresco mi è caro per la lettura che io facevo del mondo del lavoro del mio territorio – l’Irpinia – e, poi, perché mentre lo stavo realizzando nel salone dell’Italia a “La Biennale” di Venezia, salì sull’impalcatura il maestro Ferruccio Ferrazzi, grande affreschista, per sapere come mai i miei colori anziché sbiancare si potenziavano, dandomi, poi, consigli per migliorare ancora la mia ricerca.
E ancora per l’eccezionale sosta del Duce che si fermò chiedendo perché “il figlio della lupa” avesse in testa un cappellino di carta piegata alla maniera di quelli che usano i muratori e perché fosse scalzo; dal critico di turno gli fu detto che si trattava di questioni tonali, come aveva fatto Paolo Veronese nell’accostare alla figura di Cristo un moro per evidenziare un dato di luce …
La risposta del Duce fu un sorriso con l’inciso “Agli artisti è meglio lasciarli fare”.
MV) Quali idee ti ispiravano?
GAL) Capire l’onda invisibile della società e l’intravedere, nell’opera dell’uomo, quali segni vitali sopravvivono, in maniera particolare nell’oggetto rifiuto per approdare alla risignificazione quale senso del rinascere.
MV) Quali simbologie ti attiravano?
GAL) Le simbologie lunari, quelle sacrali e l’apertura e chiusura del cerchio.
MV) Pensavi e cercavi di riprodurre e/o riproporre velocità, azione, dinamicità, ritmo, sequenza sul profilo futurista o altro sul profilo “novecentista”?
GAL) La dinamicità è della fisica: la finzione della dinamicità ha avuto per me sempre un contrasto tra le valenze saettanti e quelle avvolgenti.
Ho sempre preferito, emblematicamente, il segmento rappresentato da un “punto”.
Il segmento rappresentato da un punto se moltiplicato per occhi all’infinito può sviluppare la dinamica della forma al quadrato delle energie del segmento stesso, capace, quindi, di sviluppare il senso rotatorio e vitale nella totalità del reale.
Per il ritmo, come sequenza nel futurismo vale un racconto spezzato tra il narrare trepidante e l’ultima finestra della torre alta da dove volerà la colomba porta-messaggio.
MV) Hai sempre prodotto con continuità o ti sei fermato in qualche periodo?
GAL) La mia continuità è nel mutamento continuo come ragione di vita dell’attimo che muore e che risorge per rimorire rinnovando il risorgere morendo.
MV) Quando hai ricominciato e perché?
GAL) Il ricominciamento seppellisce il nuovo nell’atto nativo consumandosi nel nulla perché visto: allora altra nascita.
MV) Ami di più la grafica, la pittura o la scultura?
GAL) Sono da amare alla pari per ragioni complementari.
MV) Una provocazione: ti senti artista o scultore?
GAL) Provocazione giusta. Mi sento solo scultore, perché mastico e digerisco.
MV) Con quale “cifra” artistica continuerai la tua produzione?
GAL) Continuerò a produrre per capire se è la luce che inganna o la tattilità; per dire a me stesso che ho almeno una volta comunicato.
MV) E’ vero che lavori vicino casa?
GAL) Il vero lavoro non è vicino di casa, ma nel nulla da rendere visibile.
Vicino casa lavo, affilo gli arnesi, faccio polvere e tolgo le ragnatele, caccio fuori la luce dal cubo e getto le chiavi, poi chiamo il fabbro per riaprire la porta, ma la banca è sempre chiusa.
MV) L’hai attrezzato a piccolo laboratorio?
GAL) Peccato che il laboratorio è sempre piccolo.
MV) Con Vittorio Piscopo e Guglielmo Roehrssen ti senti, ti vedi?
GAL) Con Vittorio Piscopo ci siamo sempre incontrati, facendo anche molte cose insieme, con l’U.C.A.I., i Filippini e con i Gesuiti del “Pontano”, oltre in varie gallerie e centri culturali.
Va notato che in comune avevamo diversi amici come: Aldo Angelini, Bruno Lucrezi, Nino d’Antonio … a sostegno di varie iniziative.
Vittorio Piscopo ha sempre espresso generosità e partecipazione viva.
Spesso simpaticamente si litigava, ma si concludeva sempre con un fatto positivo.
Con Guglielmo Roehrssen, per il passato, abbiamo avuto scambi sulla didattica e sull’intrigo dello scarabocchio e sulle possibili vie da percorrere sul significato di geometria.
Ora gli incontri, data la reciproca età avanzata, avvengono solo quando gli amici li programmano.
Va dato atto a Carmine De Novellis che ha avuto una bella costanza nel portare avanti l’idea di una rassegna sul Futurismo (un po’ interrato).
Ricordo molte istanze provocatorie e fattive che via via hanno camminato grazie all’impegno di Carmine de Novellis, nonostante lo smembramento di alcuni segmenti indicativi poco espressi per ragioni complesse e non facilmente individuabili.
MV) Con Vittorio Piscopo e Guglielmo Roehrssen hai avuto la possibilità di esporre nella rassegna “Futurismo a viva voce”, allestita a “Villa Bruno” a San Giorgio a Cremano, curata dal “Centro Studi La Fayette”, di cui è appassionato animatore Carmine de Novellis. Ce ne puoi parlare?
Ti ricordi che ho intervistato te, Piscopo, e Roehrssen per un video realizzato con Simonetta Funel, che abbiamo presentato, poi, in una scuola della cittadina vesuviana, dove, appunto, era stata organizzata la vostra mostra futurista?
GAL) Ricordo la tua intervista per il video realizzato con Simonetta Funel, presentato, poi, nell’Istituto Professionale di San Giorgio a Cremano.
La mostra “Leone – Piscopo – Roehrssen” si tenne a “Villa Bruno”.
Alla presentazione del video vi erano il preside, i professori, gli alunni e rappresentanti del Comune, il plauso fu unanime per la puntualità, l’equità espressiva sulle opere dei tre operatori e per la professionalità di come il testo e le immagini erano perfettamente sincronizzate.
MV) Ti senti soddisfatto della tua vita napoletana e delle tue estati a Montemurro, in Basilicata?
GAL) Di Napoli ho sempre vivamente “assaporato” le sue contraddizioni, sia quelle amicali, solide e fraterne nelle caverne tufacee, e sia quelle solari, o meglio “lunari”, che si snodano con culture fasciate d’esotismi tra panni insaporiti di rhum o di miele velenoso.
Per le mie constatazioni, e non “estasi”, trovo che in Basilicata, o meglio in Lucania, il cielo è azzurro, di un azzurro araldico a tetto delle tracce italiote e italiche, e che a volte è anche velato, ma non si sa come un “vento” rinnova e vitalizza, per cui c’è anche da profetizzare che molta luce, per le metropoli in delirio, arriverà anche da questo sud-lucano.
E’ complesso rispondere alla domanda di sentirsi soddisfatto della mia vita napoletana. In Basilicata ho avuto modo di elaborare, sogni solari e lunari della mia infanzia – anni venti e trenta accumulati a Pratola Serra, mio paese natale, territorio questo dove le mie emozioni fantastiche si sono messe in moto per lo scorrimento di traini, carri, carrozze e di carrozze dorate per la necessaria fermata per poter passare la notte tranquilla al fine di raggiungere Napoli, la Puglia e viceversa -. Le tante presenze di commercianti, operatori politici, artigiani, di pellegrini devoti alla Madonna Schiavone e della Madonna di Pomigliano d’Arco s’intrecciano con presenze negative e positive attivanti segni di vita. Così, quando sono entrato nella vita napoletana, i sogni sono fioriti nella complessità del negativo e del positivo, imparando, nell’ambiguità, che i valori veri resistono nel tempo e che quelli della convenienza tramontano. Quindi ricorderò sempre gli insegnamenti e i valori di vita dei maestri Eugenio Viti, Eugenio Scorzelli, Costanza Lorenzetti ed Emilio Notte.
MV) Sai, ricordo con piacere le tue ultime sfuriate in alcune mostre, ma non certo quelle di un tempo …
GAL) Ne ricordo una in maniera particolare, quando feci a pezzi un mio quadro, pochi minuti prima che una mostra si inaugurasse, al fine di armonizzare due collettivi attivi nel dopoguerra a Potenza; questo per proteggere un pittore non certo dalla mia parte.
MV) In conclusione, ti ricordo tre nomi a te familiari Carlo Levi, Leonardo Sinisgalli e Rocco Scotellaro, che hanno attraversato la tua vita. Mi puoi raccontare, in sintesi, il contatto con loro?
GAL) Nell’estate del 1939, mi recai a Montemurro, per far visita a Maria Padula, allora mia fidanzata, in un pomeriggio di fine luglio.
Anche Leonardo Sinisgalli fece visita a Maria e a sua madre Rosina, anche, per conoscere me studente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, dove avevo conosciuto Maria Padula.
Leonardo fu cordialissimo, diventammo subito amici.
Si parlò della scuola napoletana e di quella romana.
Leonardo parlò a lungo di Scipione, de Chirico, Fausto Pirandello, Guttuso e Metelli.
Ci furono durante la guerra, e dopo, sia a Montemurro che a Roma, diversi incontri con Leonardo.
Durante la guerra Sinisgalli sfollò a Montemurro con Giorgia, sua moglie, scrittrice, dove nei vari incontri avendo saputo, da Maria, che io scrivevo poesie le volle leggere.
Ne fu entusiasta e in un commento esclamò che le mie poesie gli ricordavano Rimbaud.
Io tremai, mi sembrò eccessivo.
In occasione di una personale tenuta a Potenza, nel febbraio 1948, tra l’altro scrisse: “Di Beppe devo dire con franchezza che mi colpì più di tutto il suo demone, la sua intelligenza, la sua straordinaria confidenza con i segreti del mestiere.
Beppe ha un istinto compositivo rarissimo ai giorni nostri, Beppe ha un gusto delle cose che hanno un forte sapore arcaico. Beppe è dotato di un fiuto psicologico infallibile. Il mio amico doveva soltanto disciplinare le sue virtù, mortificare il suo genio.”
Ho collaborato con Leonardo Sinisgalli negli anni ’50 con la rivista “Civiltà delle macchine”.
Abbiamo avuto incontri per progetti vari, tutti rinviati, persino un lavoro da fare insieme sugli scarabocchi dei bambini, dove egli riteneva che doveva dire la sua Gillo Dorfles.
In Basilicata, nel dopoguerra ho insegnato alla scuola media frequentando un gruppo di giovani attivissimi, quali Giovanni Russo, giornalista, Giuseppe Ciranna, giornalista, Vito Riviello, poeta, e l’avvocato Tommaso Pedio, storico.
Fra i vari incontri ci fu Rocco Scotellaro, che veniva da Tricarico, amico di Tommaso Pedio, socialista, il quale partecipò alle varie manifestazioni culturali legate alla poesia e alla pittura.
Nacque così, rapidamente, un’amicizia tra me e Rocco.
Vi furono scambi culturali e ospitalità reciproche.
Difatti, Rocco fu ospite nostro a Montemurro negli anni ’48 e ’49, dove conobbe in casa nostra Leonardo Sinisgalli; incontro storico con scambi d’esperienze politiche e culturali.
Con Rocco facemmo sia in Val d’Agri che nella Valle del Basento un’inchiesta sulla situazione dell’analfabetismo. Ci sgomentò la quota di analfabeti che rasentava il 95-96%, tra giovani e anziani che non sapevano né leggere, né scrivere.
Per l’occasione con Rocco c’inventammo una cartolina per favorire politicamente una scuola che poteva raggiungere zone d’istruzione anche nei posti di poche case coloniche.
Intanto cresceva tramite Rocco Scotellaro un’amicizia con Carlo Levi, sino a scambi d’ospitalità.
Ricordo una storica mostra di pittori lucani presentati da Carlo Levi alla Galleria del Ponte, a Via Chiaja a Napoli.
L’amicizia con la famiglia Levi continua con il nipote, dottor Guido Sacerdoti, anche notevole pittore.
MV) E ti segnalo, “dulcis in fundo”, un nome emblematico; il grandissimo Pablo Picasso …
GAL) Nel 1948 a Venezia visitando la Galleria “Il Cavallino” nell’entrare incontrai Picasso ed una signora che uscivano. Lo salutai con rispetto. Egli sorrise e con calore mi colpì con la mano sulla spalla. Intanto, i signori della galleria seduti dietro ad una scrivania, dove erano appoggiati dei cartoni, ridevano per un disegno veloce di Picasso, disprezzandolo. Io mi permisi di chiederlo e loro mi concessero di poter strappare l’angolo del cartone dove Picasso aveva disegnato un volto femminile, firmandolo. Tale lavoro, poi, ammirato molto dall’avvocato Tommaso Pedio, mi servì per compensarlo per la causa per un taglio abusivo, eseguito da un appaltatore, nella proprietà di mia moglie.
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