di Federico Reccia |
In Pirandello il pensiero è coinvolto, in modo visibile, nella crescita spirituale che occupa il rinnovamento dell’individuo informe e della persona matura. Le sue personalità messe in scena si spiegano (e si dichiarano colpevoli, valutano, speculano) nel campo dell’esistenza, della pena angariata, non provano solo sentimenti ma riflettono (e anche sragionano) riguardo loro e supponendosi (o sragionandovi) su di essi ne variano l’intuizione del sentimento, trapiantandolo dalla sfera di una naturale (e per questo comune) affettività ad un sovrastante strato psichico di laboriosità e “contorsione” più umana. Gli animi così screziati, impressionati da tutto il sentire, vengono riassorbiti dal pensiero che li “arricchisce” di sé, li colma nelle loro lacune di razionalità, e perciò si nota che il pensiero a sua volta è somministrazione di essi e si accende col loro “ardore passionale”.
Qui lo spirito di riflessione, il momento critico, diviene la realtà che esegue il proprio dramma (e non un dramma scenico qualsiasi, una finzione artistica) attraverso tormenti e contrasti ampliati. Però di ciò pubblico, scopritori, critici hanno poi prolungato la critica del pirandellismo così crudelmente ingiuriando il «cerebralismo» del teatro di Pirandello, vessando l’irragionevolezza e la “mancanza di elasticità” dei personaggi, dei “burattini” (diretti nel loro agire dai fili invisibili di un burattinaio a sua volta rinchiuso in una forma dal puro caso o dalle convenzioni sociali derivanti da pregiudizi che son oramai storia di popolo e di popoli consolidati), contro il portento della mente senziente (e inseparabile da questi sensi) e dei loro eventi e sciagure drammatiche; si sono permessi di gridare reclamando il rientro del teatro nell’umanità. Umanità interpretata dai critici nelle partecipazioni emotive (consuete) della collettività sociale normale che gioisce, e poi spasima, ma senza ragionare e senza espandere la sua amarezza al cogito o che non cerca di identificare nella vita le radici della sua gioia poiché per loro si dovrebbe inscenare uomini posti allo stesso grado delle belve irragionevoli, ossia privi del “vedersi vivere”.
Secondo Tilgher numerosi critici, e ancor più giudizi esplicativi, screditarono Pirandello di aver bramato di rimandare la sfera sentimentale (con i suoi derivati) al campo delle passioni arcinote e di cui in modo solito è accettato ed è permesso che ad una creatura umana spetti moralmente di controllarle: amore, odio, gelosia, sensi di colpa. È quello che Tilgher ravvisa in Pirandello il pensiero pensante, non un pensiero banale, ma appartenente ad un io scisso da sé stesso a causa di una crisi di individualità; un’operosità intellettuale che sdrammatizza e chiarisce, nelle recite, attriti, disparati punti di vista dei caratteri che dibattono su una veritas che scoprono inesistente. È dunque per Tilgher un fondamentale pensiero, pensato e pensante, che si sistema nel punto di mezzo del giudizio artistico: rende del Pirandello una dialettica che si realizza, da tesi in antitesi, in armonia sintetica.
In Tilgher ritroveremo sotto forma di dottrina filosofica questo genere di cogito, spirito, già prima potenza di sé e ancora miglioratosi per mezzo dell’astrazione razionale a secondo dominio di sé (essendo pensiero ovvero esso stesso razionalità), plasmatosi come pensiero cosciente di sé, il quale così permette che il sentimento della vita otturi il contenuto vitale in demarcazioni stabili e predeterminate, argini in cui gettarsi, ossia a farla ristagnare in forme “indeformabili”, statiche, che da uomo in uomo vengono sancite risolutivamente. Queste forme corrispondono a tutte le rappresentazioni mentali tendenti a suggellare “in caselle aprioristiche” e agli ideali astratti che serba il nostro pensiero, alle consuetudini, alle tradizioni, alle assuefazioni comuni, le abitudini ordinate, ai regolamenti e ai buon costumi imposti al livello sociale. Così, viene decisa una dicotomia basilare per Tilgher (e che il filosofo riscontra nella totale attività di Pirandello): da una parte, il fiotto della Vita che non annovera peculiarità fisse, ma che procede nell’ombra, “casualmente”, poiché è cieca, perfino afasica e quindi inaudibile, illimitata e inquieta, provvisoriamente innovativa di attimo in attimo, fatta di niente per cui è essa stessa senza una definitiva consistenza tanto che non è mai possibile attestarla che lei all’istante diviene “un’altra cosa, un’altra Vita”; e dall’altra parte, ci ritroviamo viceversa un mondo di Forme immobilizzate, con una struttura di realizzazioni intellettive, che azzardano a contenere e restringere in sé quello scorrimento sconfinato. Essendo, per sua esistenza, ogni atto, qualsivoglia vita, smaniosa di incapsularsi in una forma (per quanto penerà e sarà tribolata da tale forma), dovrà estinguere la pena di essersi così “formata” e di non poter più riessere altrimenti, sicché qualsiasi forma ci accompagnerà fino al postremo die. Noi esseri veniamo “sequestrati” e poi racchiusi, strappati da un’emissione vitale incoercibile tanto da apparire ed essere realmente perenne, nella “fissa dell’opinione, un congenito ed incosciente meccanismo umano di difesa”.
La preponderanza degli individui neanche vagamente subodora la Vita che, inferiormente alle forme, defluisce in una vastità segreta e irruente che è operativamente indefessa per una sua “interiorità vitale” e che si sta dando da fare e freme. Quasi ognuno “risiede” attaccato saldamente in quelle forme. Ma in certi uomini, i disingannati, quella stessa incomprensibile e imperscrutabile “solerzia” ha distrutto la Forma spezzando in due la vita; ovvero il concetto quello che “forma”, si è separato dai formati in cui si è compresso e riconosce le forme per quello che invisibilmente rappresentano: solo costrutti incoerenti, di una temporaneità transitoria o molto effimera, o eventuali e per questa ragione frangibili, sotto le quali si muove e protesta la vita com’è in sé, fuori di ogni umana apparenza e “mentale malriuscita opera architettonica”. In chi ha saputo scarcerarsi dai cappi e lacci costrettivi della Forma, ogni umana costruzione origina un impulso discrepante, che gliela fa franare innanzi (come Tilgher stabilì nel 1922 nell’opera teatrale di Pirandello Enrico IV). In questo nostro cedimento si compara un qualcosa di farsesco e di infelice rimestati unitamente in una duplice teatralità un po’ comica e, ulteriormente, un po’ tragica: ridicolmente, nel cadere, la Forma mostra l’intima vanità delle architetture della psiche umana; e di penoso, in quanto, delicata come fu, essa fu parimenti per l’uomo un rimedio dozzinale per opporsi all’insensato sconvolgimento che la vita mette di continuo in atto. Nella pirandelliana combinazione di un riso e di un singhiozzo riposto, di comico e di malinconico, è l’umorismo, la dialettica quale Pirandello la prova e risolve: un intricato dedalo composto di bivi, trivi, incroci scoordinati, dove, per ampi percorsi alternativi, l’anima nostra si introduce, senza saper più ritrovare il bagliore del suo percorso finale che conduce all’uscita o, per dirla senza metafore, ci perdiamo nei pensieri, nella forma, seguendo più l’ideale che l’interessata realtà delle cose. Pirandello distingue in labirintiche vie di tal genere un’erma che da un lato gioisce, e singhiozza dall’altro lato opposto, addirittura che ride splendidamente del volto tenebroso che viene solcato dalle lacrime. Di conseguenza l’umorismo è disposizione dell’energia spirituale (e critica), sentore in cui predomina il lavoro dell’intelletto, di chi ha permesso al pensiero di raggiungere l’elevazione a coscienza di sé e ha frantumato i termini della forma, le sue opinioni fallaci, e se ne è disfatto; pensiero che ricomponendosi si è accorto del nascere e del rinascere della vita dalla vita, potendo in ogni caso solo distinguerla da lontano perché essa è un affluire irragionevole e incoerente. A conti fatti l’umorismo e la cerebralità riducono tutta l’arte di Pirandello, o, per specificare in modo migliore, di quel Pirandello che i critici solevano serrare in tali definizioni.
GF SAGGI Reccia Il pirandellismo nella definizione di Adriano Tilgher (2)
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