di Federico Reccia |
Adriano Tilgher poneva al centro della scena filosofica e drammatica la scoperta della relatività eretta a sostegno di una dottrina del divenire, dell’attivismo, contraria ad ogni ontologia o scienza di un “essere immobile”. Tali influenze negative “attraversarono” il suo storicismo e confluiranno nell’ambito dell’ontologia dove fa valere un’ermeneutica fondata sull’indeterminatezza della natura umana. Connetté il piano etico all’ambito filosofico dichiarando l’inesistenza di una scienza morale unica (quindi di una costituita epistemologia della morale) affermando piuttosto il concetto di una pluralità copiosissima di morali che emergono da un retroterra caotico (quello della vita). L’ontologia quale scienza dell’essere in generale corrisponde quindi a quella ricerca sull’essere in quanto essere che Aristotele aveva assegnato alla “filosofia prima” (poi denominata metafisica); differisce dalla concezione classica della «metafisica generale» per cui al reale è ora anteposta la parzialità del relativismo.
Adriano Tilgher nel 1922 presenta Studi sul teatro contemporaneo, opera che pone le basi della critica pirandelliana, in cui Tilgher riservò al drammaturgo siculo un saggio sulle teorie del neo-idealismo novecentesco (e dialettico) in Luigi Pirandello. Dalla percezione del peggioramento seguito alla prima guerra mondiale Tilgher fu portato ad elaborare una dottrina gnoseologica relativistica ed un’etica antimetafisica, antirazionalistica (in analogia – era già caratteristico di Luigi Pirandello un radicale relativismo e scetticismo teorico che non rende possibile una verità fissata una volta per tutte, poiché ognuno ha la sua verità “individualissima”, giammai universale); in accordo con la sua visione in ogni costruzione conoscitiva entra un elemento casualistico e contingente.
In diversi artisti, precedenti o contemporanei di Pirandello, la ponderazione del pensiero immanente, la mnestica, la comprensione del vaglio intellettivo, “lo spirito”, conducono, in scena o atto teatrale, allo sbrogliarsi dei momenti più intimi delle parti. Ma ciò sotto una veste trascende, la recita diviene sempre farsa se si bada all’insincerità del “sentire”, concepito e concluso unicamente nei limiti della sfera dell’emotività, della pena sentimentale, dell’impulso sensorio che si fa reattivo. Invece in Pirandello il pensiero è coinvolto in modo cosciente nella crescita spirituale che porta al rinnovamento dell’individuo informe, della persona matura.
È quel che Tilgher ravvisa in Pirandello: un pensiero pensante, non un pensiero banale; appartenente ad un io scisso da sé stesso a causa di una crisi di individualità; ovvero un’operosità intellettuale che sdrammatizza e chiarisce, nelle recite, attriti, disparati punti di vista dei caratteri delle novelle che dibattono una veritas che scoprono inesistente. È dunque per Tilgher il fondamentale pensiero, pensato e pensante, che si sistema nel mezzo del giudizio artistico: quella di Pirandello è una dialettica che va da tesi in antitesi, in discorde armonia. La “Forma” di cui Tilgher discetta parlando di filosofia antinomica in Pirandello, corrisponde a tutte le rappresentazioni mentali tendenti a suggellare “in caselle aprioristiche” ed ideali astratti il nostro pensiero che serba consuetudini, tradizioni, assuefazioni comuni, abitudini ordinate, regolamenti e buoni costumi, imposti dal livello sociale. Ma chi ha saputo scarcerarsi dai cappi e lacci costrettivi della Forma, genera da ogni umana costruzione un impulso discrepante che la fa franare (come Tilgher stabilì nel 1922 nell’opera teatrale di Pirandello Enrico IV). Nel cedimento compare un che di farsesco, di infelice, rimestato in duplice teatralità comica e, ulteriormente, tragica. Di conseguenza l’“umorismo” è disposizione dell’energia spirituale, critica; è il sentore in cui predomina il lavoro dell’intelletto, che ha permesso al pensiero di raggiungere l’elevazione alla piena coscienza di sé, ha frantumato i termini della forma, si è disfatto delle sue opinioni fallaci.
Cosa carpisce Tilgher in Pirandello da esporsi così da presentarlo interprete della storia del momento? Il teatro sa esporre il dramma del vedersi vivere: il dramma è la vita allo specchio, specchio che con la rifrazione luminosa della sua superficie vetrosa, rimanda riflessa un’immagine di continuo disuguale; la vediamo e poi rivediamo, è tangibile: ma l’io che si disunisce dalla sua vita la guarda da lontano, “riverberata specularmente”. È il profilo di una passata memoria, una vanità, un amor proprio precedente, ora inattuale e perciò tragico. Il congegno drammaturgico reso dallo scrittore siciliano viene filtrato attraverso un assiduo iocus di specchi in cui si contemplano i suoi personaggi, fino all’incremento del reciproco spolpamento delle coscienze che procura agli esseri umani irrisolutezze, fragilità e simulazioni. Infine anche il pensiero di Tilgher si ferma “accalappiato” nel contorto relativismo (soprattutto in quel di Pirandello): «conoscersi è morire» ribadisce lo stesso Pirandello in una massima di un suo racconto. Non si potrebbe allora dire che tutto l’assoluto del relativismo dei valori e delle situazioni, il teatro dello specchio, la solitudine dell’adorazione intellettualistica (l’arido cerebralismo pirandelliano), non “vengono imitati” dalla limitazione contemporanea e dallo smarrimento della realtà che appellandosi ad una immagine transitoria?
Sarà nel 1922, con l’introduzione all’Enrico IV, che il critico napoletano ispezionerà più distintamente il mondo del commediografo e imprimerà quell’uguaglianza nel conflitto, e persino rivoluzionamento, di Vita e Forma. Per Tilgher da intellettuale critico qual era, in pectore, il mondo del drammaturgo subentra al mondo reale e lo converte in arte, in finzione della vita comune. In ogni modo, Pirandello non si accettava, in nuce, nella ristrutturazione tilgheriana di tutta la sua opera né in prossimità di quel profilo dottrinale indotto né sotto quello etico.
Ma non sarà per questa inezia interpretativa che le due personalità litigheranno. Avverrà invece perché Pirandello, nel 1924, con una comunicazione con cui si risolve come un eventuale “rispettoso subalterno del regime”, partecipa al partito Fascista. Tilgher invece siglerà il suo coerente antifascismo col Manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce. Il punto della discordia sarà il fascismo.
Ma Tilgher resta quello che ha scoperto “il Pirandello pirandellista”, riconobbe in Pirandello la capacità di riscuotere, col suo “polo letterario”, un avanzamento ufficiale rispetto alla tecnica artistica europea, nella scrittura e nell’ideazione teatrale. In cotale direzione, in Pirandello, sorgeva una forma di “decomposizione delle oggettività storiche della realtà” che si poteva anche denominare “pirandellismo” ma che più adeguatamente andrebbe conclusa in una ricostituzione dei meriti e disvalori della vita sociale, come incoerenza nel rapportare a una sola verità le insolite e irregolari realtà che diversificano i «grandi e multiruolo mascherati della modernità più contemporanea di fine Ottocento fino a quella di inizio Novecento». Durante il corso del 1914 la personalità di Tilgher si stacca dall’estetica di Benedetto Croce, considera Giovanni Gentile “pietra miliare”, ma la lectio crociana gli sarà sempre presente come criticismo filosofico. Ma opportunamente prestò attenzione a Bergson, alla teoria dell’élan vital. La componente vitalistica della visione tilgheriana, segna la differenza dalla concezione crociana, che stabiliva una la distinzione tra pensiero e azione come centrale. Nell’Italia, durante gli anni del crocianesimo antifascista, Tilgher non poté comunque sentirsene estraneo; la congiuntura storica che la guerra con i suoi crolli economici, politici, sociali e psicologici assegnò un ruolo insolito «a chi aveva la mansione di pensare ciò che era accaduto in modo agghiacciante» – l’inclinazione di Tilgher a respingere le conclusioni definitive sui fatti storici, adesso emerse in una dottrina relativistica, in un’etica antirazionalista, nell’inattualità di un’interpretazione esauriente, quando è chiara l’ indefinitezza dell’animo umano, infattibile il limitare l’uomo ad una traccia conformata una volta per tutte. Da ciò proviene lo scompenso etico: invece di “una morale”, ci sono “le morali”, gli stili di vita approfonditi da Tilgher: l’eroe, l’anacoreta, il santo ed il saggio.
Il giudizio tilgheriano sulla creazione artistica di Pirandello originò un nuovo dibattito di attuale contemporaneità; ma per Pirandello l’arte teatrale è una “creativa messa in scena” del suo autore; per Tilgher, invece, l’arte di “rinnovantesi singolarità spirituale” esprime la novità nell’esperire la vita. Dal 1922 Tilgher volle diffondere il suo giudizio su Pirandello, renderlo più famoso, come un suggeritore accorto, a volte malizioso, intervenne con giudizio nell’evidenziare la caratteristica dell’autore girgentino di condurre nel teatro borghese dubbi, problematiche, nozioni di origine filosofica senza pedanterie “ex chatedra”. Anche se talvolta forse accerchiò il suo autore diminuendone la passione e benevolenza con la misura esclusivamente cerebrale; la massima «Forma e Vita» sottolinea il relativismo, pone in ombra la spontanea teatralità di Pirandello.
Addirittura sorse il problema: cosa Pirandello deve a Tilgher? La «Vita o la Forma»? Ne Studi sul teatro contemporaneo, l’ampio saggio accoglieva con tanto favore la filosofia della vita che Pirandello fu talvolta considerato persino debitore al suo critico. Quando l’inimicizia politica incrinò questo rapporto felice, nel 1924, iniziò la gara «tra il pubblico ed il pubblico dei critici» su chi sapesse interpretare nel modo migliore la produzione letteraria di Pirandello; lui stesso comunque, sino alla morte, replicherà in ogni occasione possibile di non essere stato condizionato o influenzato da nessuno. Con il commento tilgheriano l’opera di Pirandello si mostra manifestazione di una filosofia nei suoi lineamenti, ma le singole originalità e dimensioni restano chiare. Il preteso chiarimento del pirandellismo infatti non riguarda l’opera pirandelliana; le delucidazioni tilgheriane si riferiscono al modello esemplificativo Vita-Forma; il “pirandellismo” è una vasta attività di letterato attento all’alterazione della singolarità realtà nel contatto col sociale e con la storia, con gli episodi ed i colori della realtà di diverse composizioni sociali e ambientali. Le folgorazioni del teatro pirandelliano incantano il pubblico anche grazie a questa capacità di costruzione di scene suggestive e ben ideate, che nell’assurdo ritraggono somiglianze che sorprendono. L’ostinazione del drammaturgo fu sempre di spargere caratteri e intenti metaforici nel “vivaio” delle allusioni ricavate dal suo sguardo di artista e dallo specchio deformante dell’isterismo e della nevrosi: conquistando pubblici ampi, altrimenti impermeabili alla riflessione: Come dire: chi mi capisce, mi segue.
GF SAGGI Reccia Il pirandellismo nella definizione di Adriano Tilgher
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