di Vincenzo Curion
Con l’avvento massiccio delle macchine programmabili, il mondo della produzione in primis e l’utenza in generale, ha scoperto l’importanza dell’algoritmo, una “procedura finita e completa che risolve un determinato problema attraverso un numero finito di passi elementari, chiari e non ambigui, in un tempo ragionevole, a partire da dati d’ingresso certi”. Non che si tratti di una immane scoperta, dal momento che il termine Algoritmo deriva dalla trascrizione latina del nome del matematico, astronomo, astrologo e geografo persiano Abū Jaʿfar Muḥammad ibn Mūsā al-Khwārizmī, originario della regione di Corasmia, vissuto tra l’ottavo ed il nono secolo d.C. a Baghdad presso la corte del califfo al-Maʾmūn, dove fu nominato responsabile della biblioteca del califfo, la famosa Bayt al-Ḥikma, “Casa della sapienza”. Autore dell’al-Kitāb al-mukhtaṣar fī ḥisāb al-jabr wa al-muqābala (“The Compendious Book on Calculation by Completion and Balancing”), scritto verso l’820, egli ampliò il lavoro sulle equazioni algebriche del matematico indiano Brahmagupta e del matematico ellenistico Diofanto di Alessandria. La fama della sua opera fece sì che Girolamo Cardano, nella sua Ars Magna, lo ritenesse il creatore dell’algebra, poiché l’Aritmetica di Diofanto di Alessandria (III-IV secolo) fu scoperta solo in seguito. Sebbene al giorno d’oggi è noto che l’inizio dell’algebra si può far risalire al II millennio a.C. con la matematica babilonese ed egiziana, ciò non toglie importanza al lavoro di al-Khwārizmī, che raccolse materiale da tradizioni differenti (greca, indiana e siriaco-mesopotamica), introdusse la notazione posizionale e dello zero che non era nota al mondo occidentale e compilò un trattato dotato di sistematicità che divenne un punto di riferimento per lo sviluppo dell’algebra moderna. Questo trattato, fu tradotto in latino nel dodicesimo secolo. Dal suo titolo deriva il termine Algebra, quella parte della matematica che tratta lo studio di strutture algebriche, relazioni e quantità.
Il trattato persiano è una collezione di regole, con le rispettive dimostrazioni, per individuare soluzioni a equazioni lineari e quadratiche basate su argomenti di geometria intuitiva, piuttosto che sulla notazione astratta ora comunemente associata all’argomento. Il testo, per la sistematicità e per l’approccio dimostrativo si distingue da precedenti trattati inerenti gli stessi argomenti. È proprio l’aspetto della sistematicità che, nel corso dei secoli, ha mantenuto intatto il suo fascino e ha spinto centinaia di studiosi a riflettere per produrre “soluzioni sistematiche”, algoritmi appunto, per i più disparati problemi. Ad oggi non c’è campo dello scibile e della pratica umana che non sia stato “colonizzato” da algoritmi. Nella scrittura abbiamo le scalette e le formule; in musica abbiamo i pattern; nella giurisprudenza le procedure, in medicina i protocolli, in economia le pratiche. Nel management è un fiorire di best practice. Se nello sport da tempo si ricorre allo studio dei filmati per apprendere la “sapienza dei gesti di un atleta”, “l’intelligenza motoria” del campione di turno, in ingegneria si parla di ottimizzazione di processi oltre che dei prodotti e nell’arte si lavora per canoni. Anche nella comunicazione si lavora per pattern, dunque per procedure standardizzate e accade finanche che una certa corrente di pensiero psicologico, propugna algoritmi anche all’interno delle relazioni umane, trascurando che, se la risposta è preordinata probabilmente non si sta creando un incontro tra persone ma solo tra “modi di operare compatibili”.
Anche se i nomi sono diversi tutti questi stratagemmi, presenti nei vari ambiti, si rifanno ad una sola idea: “Come fare a…”. La riproducibilità del risultato, ha spinto nel tempo ad abbandonare la sperimentazione e a cristallizzare quei processi di comprovata efficacia, ammettendo, solo successivamente ed eventualmente, un raffinamento per dare alla soluzione anche una veste d’efficienza. La “procedura standard” consente una economia di pensiero e di azione notevole, proprio perché all’operatore compete il solo individuare la sua applicabilità e curare la correttezza d’esecuzione delle varie fasi che lo compongono. In molti casi, dove le operazioni sono state automatizzate, neppure la correttezza rappresenta un problema poiché opera direttamente la macchina.
L’odierna diffusione del termine algoritmo non si deve dunque ad una rinata passione planetaria per la matematica e la storia del pensiero matematico, bensì ad una più prosastica presa di coscienza che, nota una procedura questa può essere replicata a proprio piacimento per la risoluzione dello stesso problema innumerevoli volte o di problemi analoghi. Attraverso un processo di astrazione, volto a silenziare quegli aspetti giudicati inessenziali, numerosi problemi sono stati ricondotti a classi, sulle quali si è iniziato ad operare per mezzo di algoritmi. Più o meno affidabili, – il risultato è certo ma il significato insito nel risultato potrebbe essere foriero di interpretazioni aleatorie-, la riproducibilità che li caratterizza garantisce loro una riconoscibilità ed una diffusione pressoché universale.
Tutti sanno ad esempio eseguire una moltiplicazione in colonna: non conoscere questa procedura equivale a non sapere compiere l’operazione di moltiplicazione. Pochi sanno che quello non è l’unico algoritmo e la qualità del risultato, il tempo che occorre per ricavarlo, può variare se ad esempio si abbandona l’algoritmo dell’incolonnamento per passare all’algoritmo “a griglia araba”, che ha una diversa, per certi aspetti più facile leggibilità. La certezza del risultato viene garantita attraverso l’esecuzione meccanica, escludendo la possibilità che il singolo sperimentatore possa immaginare una soluzione personale che potrebbe rappresentare una “piccola innovazione tecnologica”, una sua personale conquista. Questa mancanza di “propensione alla sperimentazione”, nell’immediato potrebbe essere vantaggiosa, ma alla lunga, su problemi di più ampia portata, rischia di limitare fortemente la capacità di immaginare soluzioni del singolo. Va detto inoltre che, l’affannosa ricerca dell’algoritmo risolutore ha generato una produzione ed una diffusione dei più disparati tutorial, contenuti dove si descrivono o si mostra come fare una determinata cosa. Non più soltanto la soluzione di un problema matematico, ma ampie classi di problemi sono state aggredite da questa modalità esplicativa: “ti mostro come fare e, grazie alla riproducibilità della guida, ti lascio la possibilità di assistere a questa dimostrazione più e più volte finché non sarai in grado di riprodurla completamente”.
È un cambio di paradigma di estrema importanza, poiché fino a prima dell’avvento della Rete, la replicabilità delle dimostrazioni e delle procedure, erano legate all’apprendimento attivo, alla sollecitudine del singolo discente, ad una sana dose di caparbietà nel cogliere “al volo”, determinati passaggi logici o meccanici, che conducevano all’agognato risultato. Il riflettere sul “come fare?” metteva in moto una serie di ragionamenti che spingevano la persona alla maturazione di uno spirito critico e ad una resistenza alla frustrazione del non sapere come fosse avvenuto un dato processo. Uno stimolo alla curiosità del singolo che ora, in epoca di “sovrabbondanza di spiegazioni” rischia di mancare. Oggi infatti esiste la Rete come punto di raccolta, che può indirizzare, alleviando la fatica di immaginare percorsi alternativi, soluzioni originali. Con la logica dell’algoritmo si dà enfasi al sapere emulativo piuttosto a quello generativo. Si è portati a gratificare e a gratificarsi per aver replicato non per avere “modificato o addirittura creato ex novo”.
Se da un lato l’abbondanza di tutorial ha permesso che molte persone trovassero delle indicazioni su come procedere per risolvere problemi quotidiani o eccezionali –non sono mancati casi di parti naturali praticati grazie ai tutorial di YouTube, ad esempio-, questo modo di procedere, alla lunga, potrebbe rischiare di degenerare e di far perdere resilienza alla persona. La resilienza, “la capacità dell’individuo di affrontare e superare un evento traumatico o un periodo di difficoltà”, matura anche attraverso un processo di procrastinazione della gratificazione immediata, che può ad esempio derivare dall’avere sempre la soluzione pronta. La frustrazione di dover procedere per tentativi ed errori, da un lato rappresenta una dispendiosa pratica, da un altro rappresenta un “necessario costo” perché possa esserci la maturazione della soluzione e il processo di tempra della volontà della persona. Mancando questa pratica, perché c’è sempre il tutorial che interviene in soccorso, potrebbe venire meno quell’esercizio che fortifica la persona. Inoltre, confidando sempre su di uno strumento di memoria esterna, per sapere come si fa una determinata operazione, ad esempio la costruzione di un baule, la giusta preparazione di una torta, la pratica del massaggio cardiaco o la connessione di una stampante, viene meno l’impegno a memorizzare, con il che l’individuo perde anche la specificità del ricordo che ne contraddistingue la propria personale esperienza di vita. Portato agli estremi, l’introiezione sempre della soluzione giusta, alla lunga potrebbe impedire di trovare le future “soluzioni giuste” per altre categorie di problemi che non ancora abbiamo individuato e definito e per le quali dovremmo invece saper fare affidamento sulla sola nostra intelligenza e capacità d’osservazione.
Il ricorso alla sempre presente “spiegazione in termini di algoritmo”, alla lunga potrebbe rappresentare un limite alle nostre possibilità di immaginare quello che non c’è. Non trovando rapidamente e prontamente la “soluzione procedurale chiusa” già predeterminata al nostro problema, potremmo non essere in grado di agire con la dovuta responsabilità e prontezza d’animo, mal tollerando la possibilità di dover procedere per tentativi ed errori. Proprio questo modo di procedere ha da sempre contraddistinto le primissime fasi del processo di crescita. È un modus operandi che accomuna la specie umana con le altre specie animali. La frustrazione che si vive nel dover provare e riprovare e riprovare ancora, rappresenta, se ben gestita, la precondizione dell’apprendimento, la premessa di una maggiore ritenzione della risposta, appunto perché frutto di un processo perpetrato con grande impegno ed abnegazione. Lo stesso impegno ed abnegazione che esercitati, conducono ad impossessarsi di una “maestria di pratica”, anticamera per un’eventuale “originalità della soluzione”. Cosa se non l’abnegazione, sostiene un giovane musicista ad applicarsi per ore su di uno spartito finché non lo padroneggia? Non è forse l’impegno costante che permette all’atleta di acquisire quel movimento che gli permetterà in gara l’esecuzione? Non è anche la tolleranza alla fatica che permettono al chirurgo di non essere un semplice esecutore di una procedura in qualche modo appresa? Quali sono gli spazi di sperimentazione che vengono lasciati nelle attuali condizioni per maturare questa resistenza alla fatica e alla frustrazione? Sono maggiori o minori rispetto a quando prima si doveva operare in maniera meno eterodiretta? Senza criminalizzare l’onnipresente tecnologia, sicuramente serve il gran patrimonio di tutorial in tanti differenti formati, ma accanto a questi occorre anche che il fare venga esercitato in maniera autonoma e in sicurezza, al fine di responsabilizzare o di auto responsabilizzarsi nell’esecuzione, poiché da questa maturazione interiore discende un discorso di padronanza e di consapevolezza del proprio operato di cui l’individuo ancora necessita, per trarne gratificazione, senso d’identità, ma anche percezione di efficacia per le sfide che potrà incontrare in seguito.
Bibliografia
https://it.wikipedia.org/wiki/Muhammad_ibn_Musa_al-Khwarizmi
https://www.britannica.com/biography/al-Khwarizmi
https://it.wikipedia.org/wiki/Algoritmo
http://www.torinomedica.com/link_articolo_farmaci.asp?id=305
L’arte di apprendere, A. Oliverio, Ed. Rizzoli
Umanistica_digitale, A. Burdick, J. Drucker, P. Lunenfeld, T. Presner, J. Schnapp, Ed. Oscar Mondadori
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